Rivista Anarchica Online
Noi cooperiamo... loro comandano
di Franco Melandri
Parlare delle cooperative, soprattutto di quelle di ispirazione socialista/progressista più vicine
quindi alla tematica autogestionaria, è sempre arduo soprattutto perché su ogni interessato al
problema gravano decenni di propaganda tesi a presentare le cooperative come cellule della
futura società socialista sempre in balia delle tempeste della repressione e del mercantilismo
borghese. Questa oleografica immagine è senza dubbio in parte rispondente a realtà se si parla
delle cooperative dell'inizio del secolo; delle piccole cooperative in gran parte formate da
militanti di provata fede socialista, anarchica o repubblicana intransigente i quali cercavano,
attraverso esse, da un lato di reagire allo strapotere padronale, dall'altro di metter in pratica per
quanto possibile quell'utopia per la quale lottavano. Quelle piccole cooperative rappresentavano
nella gran parte dei tentativi abbastanza ben riusciti di autogestione minimale: la piccola
dimensione - in genere non più di 60/70 soci - lo stretto contatto con l'ambiente sociale in cui si
trovavano ad operare cooperative contadine, edilizie, artigiane e la comune provenienza sociale,
oltreché politica, dei soci permettevano ad esse di funzionare in maniera abbastanza
soddisfacente dal punto di vista autogestionario. La partecipazione dei soci (da tenere presente che nelle prime
cooperative non vi erano
dipendenti) alla vita sociale era costante ed effettiva ed anche le cariche sociali - presidente,
consiglieri di amministrazione, ecc. - erano istituite più per non incappare nelle maglie delle
leggi statali (subito istituite per imbrigliare la cooperazione) che per necessità o esigenze
organizzative. Col passare degli anni la situazione è andata via via mutando sino a giungere,
negli ultimi decenni, ad un totale capovolgimento del funzionamento interno, così come della
funzione sociale, delle cooperative; le quali tuttavia, forse proprio per meglio mistificare l'attuale
situazione, stanno intensificando l'opera di convincimento tendente a presentare ai soci ed ai
lavoratori dipendenti l'attuale situazione come la miglior forma di autogestione possibile. Ma
quanto questo sia falso lo si può facilmente desumere mettendo a raffronto l'attuale struttura
interna delle cooperative con alcuni punti basilari dell'autogestione e cioè con la massima
partecipazione dei soci alle decisioni sulla vita aziendale, che è possibile solo se accompagnata
dalla massima circolazione delle informazioni e delle idee, sia infine con l'organizzazione non
gerarchica del lavoro. "In quanto soggetti economici, le cooperative sono imprese che operano sul mercato:
misurano
nel confronto concorrenziale con le altre forme di impresa (private e pubbliche) il grado di rigore
produttivo che riescono ad impiegare nel perseguimento delle proprie finalità sociali". (da "Il
movimento cooperativo nell'odierna realtà italiana" a cura della Lega Nazionale Cooperative e
Mutue - Tesi per il XXX congresso - Gennaio 1978). Questa "innocua" enunciazione contiene in
nuce tutta la problematica connessa alla
contrapposizione che, a mio avviso, attualmente esiste fra la stragrande massa delle cooperative,
organizzate nelle tre grandi centrali (1) e nelle altre organizzazioni più piccole e di importanza
marginale, ed un reale tentativo autogestionario.
Mercato, dimensione e organizzazione del lavoro
Inserimento nel mercato vuol dire infatti non libera sperimentazione e concorrenza fra i
lavoratori liberamente associati al fine di rispondere a precise, e realmente economiche, richieste
della collettività, ma accettazione delle regole che reggono il mercato capitalista e con esse la
sempre maggiore importanza data alla necessità di aumentare ad ogni costo il fatturato annuo. La
filosofia che un tempo ispirava le cooperative, e cioè produrre per soddisfare le esigenze espresse
realmente e direttamente dalla collettività, è stata messa in soffitta ed il nuovo mito delle
cooperative è produrre quanto più possibile: gli esperti di marketing penseranno poi a piazzare il
prodotto. Questa volontà di inserimento in un mercato in cui fortissima è la concorrenza delle
imprese pubbliche e private, unita alla volontà di "uscire dall'isolamento" della economia
"povera", legata agli immediati bisogni popolari, ha fatto sì che negli ultimi lustri le cooperative
mutassero volto e che da organismo creato e gestito dai lavoratori diventassero aziende (il cui
peso nell'economia italiana è quasi pari a quello delle aziende pubbliche e delle grandi aziende
private) in cui i lavoratori da gestori del loro lavoro sono tornati ad essere gli sfruttati e gli
oppressi di sempre. Per reggere efficacemente la concorrenza dei settori pubblico e privato la vecchia
dimensione
cooperativa era infatti inadeguata, troppo piccola e quindi troppo legata alle singole capacità dei
suoi componenti, troppo irrigidita dalla volontà dei vecchi cooperatori di conoscere e controllare
tutto. Tutto andava perciò mutato ed i registi della cooperazione (quasi tutti provenienti dalle file dei
partiti "popolari" e di sinistra) si sono buttati di buzzo buono in questa operazione. Con la scusa
di rendere più economico il prodotto si sono introdotti macchinari sempre più sofisticati che
escludono spesso l'intervento decisivo dell'individuo, la necessità di una maggiore flessibilità
nella condizione degli affari è servita per giustificare una politica finalizzata a dare più potere
agli amministratori, la volontà di operare su aree di mercato sempre più vaste è servita per
creare
apparati dirigenziali enormi e sempre meno controllabili dai singoli soci. L'esigenza di rendere più
"veloce e razionale" la produzione è servita per introdurre, come e
anche più che nelle aziende private e statali, tecnici addetti ad organizzare il lavoro, che relegano
quindi in una funzione sempre più subalterna i lavoratori manuali ed i tecnici di basso livello. A fianco
di tutto questo, per superare il problema della piccola dimensione, ritenuto un ostacolo,
è stata portata a termine, "vittoriosamente", una campagna a favore della fusione delle
cooperative. Ingrandirsi, moltiplicarsi: il modernizzato ordine biblico è ora la parola d'ordine delle
cooperative. Giorno dopo giorno esse si ingrandiscono, diventano dei mastodonti (vedi la C.M.C.
Cooperativa Muratori Cementisti di Ravenna - la più grande azienda edile d'Italia) o, quando non
possono fondersi direttamente, si creano dei consorzi i cui dirigenti hanno tutte le prerogative
della direzione industriale, della ricerca del lavoro, dell'organizzazione dei vari settori. La figura del cooperatore
operaio specializzato di giorno ed amministratore la sera è ormai
scomparsa così come è scomparso il rapporto di fiducia che esisteva fra la gente di una data zona
e la "sua" cooperativa, alla quale rivolgersi sicuri di avere un buon lavoro ad un prezzo onesto. Il tutto è
stato ormai sostituito da asettici managers che hanno reso le cooperative luoghi in cui al
posto della solidarietà impera il falso efficientismo dell'organizzazione gerarchica del lavoro, al
rapporto fiduciario fra cooperatori e popolazione si è sostituito il marketing e la cooperativa è
diventata solo un'azienda come le altre che "misurandosi nel confronto concorrenziale con le
altre forme d'impresa" produce, allo stesso modo delle altre aziende, sempre più beni in tutto e
per tutto simili a quelli delle altre aziende. La dimensione sempre più elefantiaca assunta dalle
cooperative ha reso risibile la partecipazione
dei soci (i dipendenti, sempre più numerosi, sono esclusi da ogni diritto, godendo solo
relativamente dei diritti sindacali. Sindacati e cooperative agiscono spesso di conserva e, come si
sa, cane non mangia cane) che da un lato non possono più controllare strutture sempre più grandi,
diffuse ed articolate a livello nazionale ed internazionale, dall'altro vengono sempre più spinti a
delegare ai "più capaci", a quelli "che hanno studiato" ogni responsabilità, ogni potere
decisionale, ogni forma di controllo. La mutata organizzazione del lavoro ha fatto sì che al
cooperatore padrone delle conoscenze relative al proprio lavoro, cosciente delle finalità di questo
e fiero dell'apporto che la sua opera dava al maggior benessere della collettività, si sostituisse la
figura dell'operaio-massa, asservito alla catena di montaggio (ormai regina incontrastata della
gran parte delle cooperative industriali), parcellizzata in mansioni sempre più ripetitive ed
incapace quindi di acquisire la dimensione generale del suo lavoro, così come di conoscerne la
finalità e l'impiego, espropriato di fatto e statutariamente, di ogni possibilità reale di intervento.
Credere, obbedire (ciecamente soprattutto), produrre, questo è il motto delle cooperative degli
anni 80. Corollario di tutto questo è stata l'apparizione di figure che avrebbero fatto rizzare i capelli in
testa ad un cooperatore di 80 e 90 anni fa: capi, capetti, marcatempo, controllori vari sono ormai i
regnanti incontrastati delle officine, dei cantieri, dei campi, gli unici che possono, unitamente ai
massimi dirigenti, decidere il come, quando, perché eseguire un lavoro o qualsiasi altra cosa. Il
circolo vizioso dello sfruttamento si è così, in nome della funzionalità e dell'inserimento nel
mercato, ricreato. La divisione del lavoro in manuale/subordinato e intellettuale/dirigente si è ora
imposta nelle
cooperative nate con lo scopo, fra gli altri, di impedire che questo avvenisse, perché in questa
divisione veniva giustamente individuato uno dei motivi fondamentali dell'esistenza dello
sfruttamento e dell'oppressione. I dirigenti non sono più dei paraventi per eludere le leggi ma i soli, reali
gestori delle cooperative,
ma costituiscono una classe di tecnocrati che, facendo leva sulle proprie conoscenze, detiene un
potere e gode di privilegi in nulla inferiori a quelli detenuti e goduti dai managers delle imprese
pubbliche e private. Godono anzi di un maggior potere, perché governano una massa di
cooperatori abbrutiti dalla propaganda demagogica e falsificante delle organizzazioni cooperative
e dei partiti ad esse legati. Una massa impossibilitata a ribellarsi perché legata al carro
dell'azienda come sempre viene ricordato: loro non sono operai, anche se dell'operaio hanno tutti
gli svantaggi, sono "soci", cioè "padroni". L'ultima conseguenza della "nuova" organizzazione del lavoro
e della grande dimensione è
l'estrema frammentazione che i managers hanno introdotto fra i cooperatori. Chi lavora di più e
protesta di meno è portato ad esempio, novello Stakanov, agli altri, egli non è più il "pirla"
che si
ammazza per il padrone ma un benemerito che si preoccupa di "far avanzare la cooperativa" ed a
cui i soci (più riottosi o dubbiosi che la mini "Eurasia" sia realmente autogestione) dovrebbero
ispirarsi. E se per questi ultimi è sempre pronto il rimbrotto, la minaccia, la sospensione, il
licenziamento,
per i nuovi "uomini di marmo" crescono gli aumenti salariali, i premi di produttività, le
onorificenze al "merito cooperativo".
La vita sociale e gli organi statutari
Chi entrasse dall'ingresso della direzione in una delle grandi cooperative attuali si troverebbe
immediatamente immerso in un ambiente asettico, dall'aspetto efficiente e, soprattutto,
rigidamente compartimentato: di qua gli uffici tecnici con i tecnigrafi tutti in fila ordinata, di là
gli uffici amministrativi posti nello stesso militaresco ordine e, molto più distaccati ed esclusivi,
gli uffici del presidente, del direttore, del direttore commerciale e via gerarchizzando. Da nessuna parte è
possibile intravedere la tuta blu di un operaio ed i camici bianchi e neri dei
tecnici e dei ragionieri formano un tutt'uno con i loro piani di lavoro. Ma dov'è finito il piacevole,
stimolante, vivificante "casino" delle piccole cooperative di qualche
decennio fa? dove sono gli operai che discutono e si incazzano col presidente per una qualche
decisione che questi ha preso di testa sua, senza prima consultare l'assemblea dei soci? Tutto
finito, il gigantismo dimensionale e la nuova organizzazione del lavoro hanno avuto il loro
corrispettivo nella rigida gerarchizzazione di tutto l'apparato sociale ed amministrativo. Se un
tempo le cariche sociali erano solo un paravento per eludere le leggi statali, o poco più, e tutte le
funzioni erano controllate da tutti i soci e sempre revocabili, oggi il rapporto è rovesciato: sono i
dirigenti che controllano che i soci applichino scrupolosamente le decisioni che non hanno
contribuito a prendere ed i vari presidenti, vice-presidenti ecc. non sono più degli operai o dei
braccianti che ogni tanto lasciano il loro lavoro per siglare un contratto e che devono rendere
conto ai soci di ogni loro mossa, ma sono dei regnanti che è raro poter vedere di persona e che
trattano affari di ogni specie senza che nessuno possa realmente controllare o censurare il loro
operato. Come può accadere tutto ciò nelle cooperative, veri esempi di autogestione e di
democrazia
industriale (stando a sentire i tromboni dei vari partiti "operai" e dei sindacati)? Tutto questo può
accadere perché piano piano, sull'onda della reintrodotta divisione del lavoro, dell'esigenza di
"efficienza", e delle mutate dimensioni, si sono messi in soffitta alcuni dei capisaldi del primo
spirito cooperativo e cioè l'informazione accessibile a tutti, la rotatività delle funzioni, il
cosciente contributo di tutti alla vita sociale. L'operazione è cominciata con una campagna capillare
promossa dai partiti "operai e popolari",
tradizionali protettori e "portavoce" delle cooperative, tesa ad aumentare la "coscienza
cooperativa", a convincere cioè i soci che, per meglio esplicare le funzioni sociali, erano
necessari degli esperti, degli individui che sapessero muoversi a proprio agio nel moderno mondo
degli affari, ricchi di "cultura", di "conoscenze", di esperienza nel mondo politico ed economico.
E chi meglio dei funzionari di partito, allevati apposta, avrebbe potuto avere questi requisiti?
Ecco quindi che nelle varie cooperative è piombata una pletora di ex funzionari di partito
(ricordo che, ad es., è il PCI che dal dopoguerra nomina il presidente e la maggior parte dei
membri del consiglio di presidenza della Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue) tutti tesi
alla riorganizzazione dell'azienda e con loro è entrata, o si è accresciuta a dismisura, la
burocrazia. In questo nuovo clima, propagandisticamente montato ad arte, i soci non potevano
che fare la parte del gregge ed hanno approvato allegramente - "lo vuole il partito" - la nomina
dei nuovi membri degli organi sociali, sicuri che essi avrebbero migliorato le cooperative e le
condizioni di lavoro. Appena insediati ai loro posti invece i nuovi dirigenti si sono subito cautelati contro
possibili
"scosse", cioè contro la possibilità di non essere rieletti. Hanno introdotto organi non eletti e non
eleggibili, di cui si entra a far parte per cooptazione, quali la Direzione (in genere composta da
presidente, vicepresidente, direttore tecnico, direttore commerciale, direttore amministrativo,
capo officina) che ha in via esclusiva tutte le informazioni ed è l'unico luogo in cui, pur senza
attributi statutari precisi, si prendono le decisioni. Ed è la Direzione che, tramite il presidente,
sottopone al Consiglio di Amministrazione i problemi da discutere e le "possibili" soluzioni da
adottare. In questo nuovo sistema di gestione è mutata anche la funzione e la composizione del
Consiglio di Amministrazione, massimo organo statutario eletto dai soci. Se, sino a qualche
tempo fa, esso era una sorta di "consiglio dei delegati" dei soci, che ne controllavano le mosse,
oggi è diventato una specie di consorteria chiusa. La sua eleggibilità esiste infatti solo sulla carta
poiché i cooperatori vengono spinti - dai dirigenti stessi, dai sindacati, dai partiti - ad eleggere i
membri "più preparati, più autorevoli ", e cioè coloro che ricoprono già posti di
"responsabilità" e
quindi, ancora una volta, presidenti (di fatto inamovibili una volta entrati in carica), direttori,
capi, attivisti di partito ecc. (fatto questo che, in molte cooperative, ha reso automatica e
"legalizzata" la funzione della direzione). Nelle poche cooperative in cui i soci tendono ancora ad
eleggere persone di loro conoscenza diretta e di loro fiducia si assiste invece al fenomeno per cui
la Direzione rende obsoleto il Consiglio di Amministrazione presentando ad esso solo i problemi
che vuole ed esponendoli in maniera tale per cui i vari consiglieri operai, non disponendo né di
tutte le informazioni necessarie ad inquadrare il problema nella sua reale prospettiva né del
tempo necessario per valutare attentamente le soluzioni "suggerite", finiscono sempre per
approvare le proposte fatte dalla Direzione stessa. Riguardo sempre alla tanto sbandierata
eleggibilità del Consiglio di Amministrazione c'è da aggiungere anche che a renderla oltremodo
fittizia è la scarsità di informazioni che i soci dispongono riguardo alla cooperativa in cui si
trovano a lavorare. L'ignoranza in cui vengono tenuti li porta spesso a credere che quanto il
Consiglio dimissionario ha fatto era quanto si doveva fare per cui lo riconfermano quasi sempre
al completo. Non c'è niente di più squallido dell'assemblea dei soci in cui si approva il bilancio
e si elegge il
Consiglio di Amministrazione. La stragrande maggioranza dei cooperatori vi si presenta
convinta, da mesi di propaganda preparatoria (2), di esercitare il controllo sulla cooperativa,
viene addormentata da alcune ore di relazione amministrativa, con miriadi di dati spiattellati a
più non posso (e dei quali non capisce niente sia per come questi dati vengono presentati sia
perché le assemblee del bilancio sono congeniate in maniera tale per cui il socio si sente, davanti
alle colonne di numeri ed al linguaggio specialistico che li "spiega", in stato di inferiorità), dopo
di che approva, quasi sempre all'unanimità, sia il bilancio dell'anno passato sia il bilancio di
previsione. A quel punto il presidente, supportato dal presidente della locale organizzazione delle
cooperative, si esibisce nella scena madre consistente nel sottolineare: che il consiglio
dimissionario ha fatto il meglio possibile, che molte delle critiche mossegli durante l'anno erano
ingiuste ed infondate, che il dirigere una cooperativa è compito gravoso e che richiede un
impegno continuo e mal retribuito e conclude invitando i soci a collaborare col consiglio che sarà
eletto. Il finale dell'assemblea è in crescendo: il presidente dell'organizzazione cooperativa prende la
parola per invitare i soci alla responsabilità, invita ad eleggere persone che facciano progredire
"senza scosse" la cooperativa e quindi critica coloro che hanno manifestato l'idea di non votare o
di votare per dei "candidati protesta" (cioè per quei pochi che non accettano di farsi beatamente
menare per il naso) e conclude ringraziando "a nome di tutti" il Consiglio uscente "per
l'insostituibile opera prestata". Pochi gli interventi critici subito zittiti dalla presentazione di una
caterva di dati (quelli che durante l'anno non si sono mai potuti vedere) che in genere non
smentiscono la sostanza delle critiche mosse ma hanno l'effetto di frastornare ancor di più i soci
presenti già in preda, ormai, al sonno. Dopo tutto questo i soci votano e, quando è finito lo
spoglio delle schede, la lista dei componenti
il nuovo Consiglio è identica a quella del Consiglio dimissionario. Una conseguenza dell'attuale criterio
di gestione è, e non potrebbe essere diversamente, l'abulia
ed il disinteresse crescente dei soci rispetto alla vita della cooperativa. La propaganda dei partiti
interessati a mantenere il controllo sulla cooperativa unita all'azione dei dirigenti li rende
obbedienti e manovrabili ma l'insoddisfazione individuale che nasce, quasi sempre
inconsciamente, da questo stato di cose li rende, con gran gioia dei dirigenti, sempre più
disinteressati di tutto, preoccupati unicamente di avere la paga a fine mese e di non dover perdere
troppo tempo in riunioni ed assemblee in cui sentono, ma troppo spesso non capiscono, di non
poter contare nulla. In fondo anche se volessero nella nuova strutturazione non potrebbero
contare niente: a decidere di tutto, come abbiamo visto, sono solo le varie organizzazioni delle
cooperative, i partiti cui esse fanno capo, i loro fiduciari che dirigono le singole cooperative.
L'unica alternativa per chi ancora vuole autogestire il proprio lavoro, e non l'autosfruttamento, è
quindi quella di andarsene per riprendere su basi nuove l'esperimento cooperativo.
Conclusioni
Spero, con la frammentaria e caotica esposizione fin qui fatta di aver reso l'immagine delle attuali
cooperative; sono cosciente che altri, e meglio di me, avrebbero potuto illustrare la problematica
autogestionaria nel campo specifico della cooperazione. Le note precedenti sono solo lo sfogo di
uno sfruttato che avendo la sventura di lavorare in una cooperativa (una cooperativa "rossa" del
forlivese) ed essendosi illuso al suo nascere (1971) di poter vivere all'interno di essa una forma di
autogestione minimale si ritrova oggi a dover constatare che non esiste nulla di più distante
dall'autogestione delle attuali cooperative, siano esse "bianche", "rosse", "rosa" o di qualsiasi
altro colore le si voglia dipingere. Anche il richiamo da me fatto in positivo alle prime cooperative, pur se
può essere valido in linea
generale, non è scevro da critiche poiché molto di quanto accade ora ha proprio in esse le sue
lontane radici. Radici rappresentate soprattutto dalla fiducia che i cooperatori han sempre,
purtroppo, riposto nei partiti "operai" e nelle burocrazie da essi emanate, fiducia che li ha portati,
e li porta, a seguire - pecorilmente o a malincuore a seconda dei casi - le indicazioni ed i voleri di
questi stessi partiti. Anche il desiderio di molti cooperatori di far avanzare nel mercato la "loro"
azienda è servito da base per l'attuale involuzione poiché ha impedito a molti di capire che
scendere sullo stesso piano delle aziende private o statali voleva dire magari vincere una battaglia
- cioè affermarsi, come è successo, all'interno di questo mercato - ma perdere la guerra, cioè
rinunciare a costituire una "cellula di socialismo" all'interno (ma in lotta contro) della società
capitalista o tardo capitalista. Nonostante tutto credo che chiunque si ponga il problema dell'autogestione -
cioè
dell'autogoverno individuale e collettivo - non possa fare a meno di prendere in esame la forma
cooperativa come uno dei possibili mezzi per realizzarla. Chiaramente non la forma di
cooperazione attualmente istituzionalizzata ma quella costantemente in evoluzione che molti
compagni, giovani, lavoratori cercano di costruire e di migliorare costantemente. I problemi che loro si
presentano sono grandi e molteplici ma, dalle nuove cooperative agricole
nate un po' dovunque (e soprattutto in meridione in seguito alle ultime occupazioni di terre), alle
piccole cooperative di editoria militante alle altrettanto (fortunatamente!!) piccole cooperative di
produzione sorte anch'esse un po' dovunque, lo spirito che le anima è nuovo, iconoclasta,
cosciente che non si può progredire di un passo sulla via dell'autogestione se manca ai
cooperatori la conoscenza approfondita dei problemi e delle situazioni - da cui dipende il
contributo attivo e cosciente di ognuno - e se ad essi non è possibile partecipare attivamente in
prima persona ad ogni istanza della vita aziendale. Tutto questo porta con sé, almeno in potenza,
la scomparsa della divisione del lavoro, dei ruoli fissi ed immutabili, della fabbrica-caserma, ed
apre la via ad una maniera di produrre non più subordinata ed alienante ma "partecipata" cioè
vissuta come momento in cui ognuno possa applicare la propria intelligenza, la propria inventiva,
la propria iniziativa per collaborare allo scopo comune.
(1) Confederazione delle Coop. Italiane a maggioranza cattolica; Associazione Generale delle
Coop. Italiane - repubblicani e socialdemocratici; Lega Naz. delle Coop. e Mutue, la più grande,
a maggioranza comunista ma con consistenti minoranze socialiste e repubblicane.
(2) Quando si avvicinano le elezioni degli organi sociali il partito egemone all'interno della
singola cooperativa chiama a raccolta i suoi iscritti e li invita, di fatto gli ordina, a votare per i
suoi fiduciari; in genere già facenti parte, o comunque molto influenti, delle istanze gerarchiche.
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