Rivista Anarchica Online
L'ideologia contro la memoria
di Marianne Enckell
Tutti i poteri riscrivono la storia a loro profitto. Nessuno stato si priva di giustificazioni storiche,
inventandosi al bisogno una ideologia e soprattutto cancellando, censurando, travestendo la
memoria. Con mezzi evidenti (come il cancellare materialmente la traccia di antenati fastidiosi
dalle immagini e dalle biblioteche, come il cambiare la scrittura per non permettere l'accesso alle
fonti storiche se non ai mandarini) o attraverso vie insidiose. Quattro secoli fa Jean Bodin diceva
già che la prima utilità della storia era di essere al servizio della politica - ed egli conosceva bene
la politica del potere. Nel controllo da parte dello stato della produzione e della detenzione del
sapere, l'invenzione della memoria dei suoi soggetti ha un ruolo importante. Al punto che gli
scolari si immaginano che la storia vale la pena di essere studiata perché un giorno si saprà tutto:
tutti i fatti, tutti i perché e tutti i commenti. La falsificazione della storia non è solo appannaggio
dei poteri in auge, ma di tutte le ideologie
del potere. E quelle che pretendono di voler dare il potere al popolo non fanno eccezione. La
"capacità politica delle classi operaie" non funziona, in effetti, senza la loro capacità storica. O
piuttosto quella delle loro avanguardie, dei contro-poteri e dei contro-stati. Sotto il pretesto di
rappresentare gli esclusi dalla storia, di opporsi alla storia delle classi dominanti, i nuovi padroni
si arrogano e si inventano antenati e fatti gloriosi. Qualche anno fa, in occasione del centenario
della Comune di Parigi, abbiamo assistito a un vero festival della riappropriazione: i valorosi
combattenti della Comune erano evidentemente dei comunisti, erano degli anarchici senza
saperlo, dei trotskysti ante litteram, dei bravi democratici un po' eccitati.... Gli scolari, crescendo, sono ben
delusi: non esiste storia che non sia reinterpretazione, filtraggio
di fatti attraverso le parole. Di fronte al potere che pretende di legittimare storicamente bisogna
cercare di riappropriarsi della storia, di fare conoscere al popolo, alla gente della strada, la storia
del popolo e della gente della strada, e non soltanto quella di coloro che li opprimono. Ma quando la
riappropriazione diviene ideologia, essa diviene anche intento di potere sulla
storia. Nella storia dell'anarchismo come in quella dell'autogestione non vi sono ricordi di
vittorie: vi sono intuizioni e premonizioni, vi sono incertezze, insuccessi e repressioni. È difficile
giocare agli innocenti: una buona parte delle storie scritte da anarchici sono dell'agiografia e
dell'autoincensamento; ma quando si afferma di aver visto più chiaro, di aver agito più
correttamente, di aver previsto il male prima degli altri, resta da dire ancora perché non si è stati
ascoltati, perché abbiamo perso tante battaglie - perché, anche, a volte ci si è
sbagliati. È anche assurdo giustificarsi pretendendo di essere i giocattoli della storia dominante.
Pretendere
che non vi sia modo di sfuggire all'ideologia del potere è già accettare di farne parte. Ora, la
memoria non è mai stata totalmente soffocata dai burocrati, come lo spirito critico non è stato
totalmente pervertito dai tecnocrati: altrimenti noi non esisteremmo, né i nostri giornali né i
nostri manifesti. L'oppressione totale non genera, a lunga scadenza, che la morte. Ma quando l'uomo lotta
deliberatamente contro il potere, è la memoria che lotta contro l'oblio, la
poesia contro le lingue di legno; questa e l'autogestione della storia. Ecco dei nobili pensieri. Per continuare su
questo tono io proporrò l'ipotesi che i campi (campi di
battaglia o campi di esercizio) più disponibili all'autogestione della storia siano, ai due estremi
apparenti, il riformismo e l'utopia. Per campo riformista io intendo il luogo delle attività tendente a un
miglioramento sociale, ma
che non contiene un progetto sociale globale. Non si tratta di confondere con una ideologia in cui
le riforme conterrebbero in se stesse il loro fine: è piuttosto il contrario, la scelta pratica di un
modo di rosicchiare il potere, di diminuire l'importanza dei suoi strumenti, forse di renderli
superflui. Si può esercitarsi quotidianamente a dipendere il meno possibile dal potere (che lo si detenga
o
che lo si subisca), a cercare e a far vedere le sue falle e le sue zone franche. Io non credo al
miserabilismo secondo cui i ventri vuoti sono portatori del cambiamento sociale. Quest'ultimo
esige, al contrario, una creazione di rivolte, un apprendistato della critica, una pratica costante
della lucidità. Io non nego neppure che il riformismo possa portare all'integrazione, che esso
possa portare profitto alla conservazione sociale: ciò che cerco di definire è una pratica anarchica
nel campo riformista. Per campo utopistico io intendo non il salto nello sconosciuto, ma un modello assoluto,
totalizzante tutti i sogni e le esperienze passate e spingendole fino all'estremo dei loro significati.
È perché esso è irrealizzabile che il modello può essere assoluto. Pura forma,
l'utopia può beninteso seguire uno schema totalitario, esacerbare i desideri di potere
e di violenza. Ma il sistema proposto deve essere leggibile: per questo deve avere delle falle,
secondo le regole del genere letterario, o almeno essere visto da un osservatore esterno ingenuo.
Una utopia totalitaria al punto di essere opaca non è pensabile, non vi sarebbe nessuno per
scriverla. L'utopia io la concepisco soprattutto come provocazione intellettuale, messa in discussione di
tutte le forme di dominazione, interrogativi di tutte le religioni. Questi due campi non si oppongono né
si completano, ma si può vederli come due versanti di
una stessa inquietudine: l'idea che, qualunque sia la società o la rivoluzione considerata,
movimenti di resistenza e di dissidenza vi saranno sempre necessari. La scelta dell'utopia o del
riformismo traduce una coscienza acuta - sarebbe questo un timore insormontabile? - della
violenza e del rischio totalitario; è questo il luogo dell'agnosticismo politico. Un agnosticismo che
può essere pratico, positivo, a volte: dubitando che sia necessario credere
alla rivoluzione, esso è fermamente persuaso che si possa avvicinarsi ad essa, avanzare nella sua
direzione. Allora è il contrario dell'idealismo, poiché la condotta militante è fondata non su
una
escatologia ma sulla storia - sul passato e sul presente che diviene storico. Le esperienze autogestionarie sono
a volte considerate come "utopie riformiste"; io preferisco
vedervi dei luoghi di rottura in cui si affrontano senza mai essere risolti i desideri riformisti e i
desideri utopici. Io qui intendo autogestione nel senso più vago, più generale: dal sindacalismo
alle comunità marginali passando per le imprese cooperative. Sappiamo bene che sono dei luoghi
in cui il potere si infiltra, in cui l'integrazione incombe, in cui rodono i nuovi padroni. Ma sono
anche i luoghi in cui si può immaginare la società futura, inventare delle relazioni senza potere,
verificare praticamente la solidità dei principi. Questi esempi immaginari di una società liberata
non sono possibili ovunque e in qualunque
momento. Esigono un certo livello di democrazia, sono favoriti da una società di spreco. La
coscienza di questi limiti va di pari passo con la diffidenza nei confronti delle istituzioni e dello
stato-assistenziale. Essi rappresentano una forma storica dell'opposizione assoluta, astorica alle
classi dominanti e a qualsiasi autorità. Per questo essi sono la memoria in atto di tutti i dissidenti,
di tutte le resistenze, e la speranza utopica di un mondo nuovo.
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