Rivista Anarchica Online
Modelli di autogestione in Giappone
di Akihiro Ishikawa
L'interesse per l'autogestione cominciò a crescere notevolmente in Giappone soprattutto verso la
fine degli anni '60, di pari passo con la crescita, anch'essa assai rapida, di problemi socio-economici di vario
genere. All'autogestione dedicarono grande attenzione i movimenti socialisti ed operai. Nel periodo
immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale, i lavoratori assunsero
direttamente il controllo di diverse fabbriche e imprese, ma alla fine degli anni '40 questi
esperimenti autogestionari si rivelarono fallimentari. Durante gli anni '50, il padronato mirò
all'instaurazione della pace sociale all'interno delle fabbriche, poiché solo così sarebbe stato
possibile razionalizzare, rinnovare e aumentare la produzione. Il movimento operaio, dal canto
suo, avrebbe voluto contrastare questa tendenza alla razionalizzazione, ma in genere non riuscì
nell'intento e molti sindacati, specialmente nelle grandi aziende, scelsero la via delle trattative
con la direzione. Negli anni '60, soprattutto nella seconda metà, nuovi elementi intervennero a
mutare la situazione: l'indifferenza dei lavoratori verso i sindacati e un senso di crescente
alienazione ispirato dalla nuova tecnologia. I salari erano più alti, ma il lavoro non dava più
alcuna soddisfazione. Nacque così un movimento operaio e dei lavoratori di tipo nuovo, diverso da
quello esistente
impegnato soprattutto nella soluzione di problemi economici: il movimento autogestionario.
Alcuni dei suoi artefici erano influenzati dall'ideale francese della "nuova classe lavoratrice" e
dalle tendenze manifestate dal partito socialista francese; altri, invece, miravano ad instaurare
forme di controllo operaio ispirate al marxismo-leninismo. Questa tendenza aveva origini simili
all'atteggiamento critico verso il sistema sovietico, diffuso tra i socialisti giapponesi negli anni
'70. Le idee erano per la maggior parte 'importate' dall'estero (dalla Francia, dalla Jugoslavia,
dagli scritti di Gramsci) e raramente prendevano spunto dalla realtà sociale del Giappone. L'unica
realtà che conta, e su cui si fondano grandi speranze, è quella degli esperimenti di autogestione
operaia nelle piccole e medie industrie destinate al fallimento, che sempre più spesso vengono
intrapresi nel paese. Le stesse situazioni che portarono il movimento operaio e i socialisti ad occuparsi di
autogestione, suscitarono anche nella classe dirigente giapponese l'interesse per questa
'disciplina', principalmente dal punto di vista del morale dei lavoratori e della produttività. In seguito
allo sviluppo economico della seconda metà degli anni '50 e del decennio successivo,
molte imprese assunsero proporzioni gigantesche, e si trovarono così a dover fronteggiare gravi
problemi di ordine burocratico. Le direzioni aziendali dovettero prendere provvedimenti per
risolvere il problema del frequente ricambio di manodopera, per risollevarne il morale degli
operai, e così via. A questo scopo, istituirono nei vari stabilimenti dei "gruppi di autogestione",
con la duplice funzione di facilitare l'integrazione dei lavoratori nell'azienda e nella fabbrica e di
risollevare il morale, concedendo loro una sfera autonoma di decisione e di attività. Tutto ciò
all'insegna ideologica dell'"umanizzazione del lavoro", della "libertà dall'alienazione", del
"rispetto dell'autonomia individuale", e con l'ausilio delle "scienze comportamentali". Il
fenomeno non interessa solo le grandi imprese, ma le medie e le piccole industrie. Ma anche altrove, al di fuori
del movimento operaio e socialista e al di fuori della classe
imprenditoriale, si è sviluppato un interesse per le forme autogestionarie. Esso è nato
dall'aspirazione ad una "comunità utopica". Nella seconda metà degli anni '60, soprattutto tra
le giovani generazioni, si manifestarono
tendenze psicologiche e ideologiche avverse all'integrazione tecnocratica e all'individuazione
nella società di massa e orientate invece verso forme sociali comunitarie. Alcune di queste
tendenze hanno dato vita a movimenti collettivistici e a vere e proprie comunità. Sono stati
rivisitati gli esperimenti di "comunitarismo utopico" effettuati dalle generazioni precedenti e
l'argomento riempì le pagine dei giornali. Come abbiamo visto, l'interesse nei confronti dell'autogestione
è nato e si è sviluppato in contesti
diversi, ma non bisogna dimenticare che le sue manifestazioni non furono che modi diversi di
sperimentare soluzioni al problema della vita nella società giapponese contemporanea. Questa
sorta di esperimenti ha contrassegnato tutto il corso degli anni '70, e continua tuttora. Vale la
pena di indagare empiricamente le strutture, il funzionamento e la dinamica. Le forme autogestionarie che vi
si possono riscontrare sono quattro: 1) autogestione sindacale
nelle imprese destinate al fallimento; 2) appropriazione e gestione delle piccole e medie industrie
da parte operaia; 3) attività autogestionaria di piccoli gruppi nelle unità produttive delle grandi
imprese; 4) "comunitarismo utopico". Vediamo di analizzarne, ad una ad una, le applicazioni
pratiche nel presente.
Primo tipo: autogestione sindacale nelle imprese destinate al fallimento
In questi ultimi anni, i casi di fallimento di piccole e medie imprese sono stati piuttosto
numerosi: 15.641 nel 1976, 18.471 nel 1977, 15.875 nel 1978. Nella maggior parte dei casi, i
lavoratori di queste piccole imprese non sono organizzati in un sindacato e spesso sono costretti
ad abbandonare l'impiego senza ricevere alcun compenso, a volte neppure il salario dovuto per il
periodo di lavoro precedente il fallimento. Nel caso, invece, che siano inquadrati in
organizzazioni sindacali, pretendono a volte ciò che è loro dovuto, i salari arretrati e le
indennità
di fine rapporto, così che spesso i sindacati entrano in conflitto con gli altri creditori,
commerciali e finanziari, dell'azienda. Quando il sindacato ottiene soddisfazione (spesso per vie
legali), la sua funzione si esaurisce e i lavoratori sono costretti ad andarsene ognuno per la sua
strada. Questo si è verificato innumerevoli volte. Recentemente, però, è capitato che
le cose prendessero una piega diversa. I lavoratori non solo
hanno chiesto ciò che era loro dovuto, salari e indennità, ma si sono organizzati in proprio per
rimettere in funzione la fabbrica. Uno dei casi più celebri di questa forma di autogestione operaia
è quello della Petri, una casa
produttrice di macchine fotografiche. L'azienda dichiarò fallimento nell'autunno del 1977. Poco
tempo prima, il sindacato aveva stipulato un accordo con la direzione e il padronato, secondo il
quale, in caso di fallimento, i fabbricati, gli impianti e le scorte dell'azienda sarebbero passate
alle maestranze, che li avrebbero gestiti e utilizzati. Quando la ditta fallì, tutti i dirigenti fecero
fagotto, e così anche gran parte degli operai. Di 660 dipendenti ne rimasero solo 170. Quelli che
rimasero (molti dei quali non erano operai, ma impiegati) iniziarono a produrre in proprio e
progettarono persino un nuovo modello di macchina fotografica. La produzione della fabbrica
autogestita viene distribuita e venduta con l'aiuto di varie organizzazioni sindacali. Il reddito
individuale degli operai è diminuito, ma ciascuno di essi ha un salario minimo garantito.
All'interno della fabbrica è stato costituito un nido d'infanzia per i figli dei lavoratori. Il sindacato
si occupa anche dei problemi di gestione. L'organizzazione del lavoro non è rigida e fissa, né in
senso verticale, né in senso orizzontale. I lavoratori non sono ancora riusciti a conquistare un
mercato più vasto di quello offerto dalle organizzazioni sindacali che appoggiano la loro
iniziativa, ma iniziano ad avvertirne la necessità. Altri casi analoghi hanno avuto luogo in altre imprese:
nella Paramount (una ditta produttrice di
calzature), nella Chobunsha (un'azienda editoriale), nella Van (una società per la vendita
all'ingrosso di capi di abbigliamento), e così via. Tutte le aziende citate si trovano a Tokio,
compresa la Petri, ma anche in altre città si possono annoverare esperienze simili. Naturalmente, tra i
tanti casi, vi sono anche quelli di imprese che, alla fine, i lavoratori sono
riusciti a ristrutturare completamente. Un esempio del genere è rappresentato dalla Fujiya Seika,
una fabbrica produttrice di cioccolato. La Fujiya dichiarò fallimento nell'autunno del 1977; il sindacato
occupò la fabbrica e iniziò la
produzione in proprio. Grazie alla mediazione di un commerciante favorevole all'iniziativa del
sindacato, esso riuscì a strappare alla direzione uscente il permesso di usare i fabbricati e gli
impianti dell'azienda e di vendere la produzione. Tutto procedette per il meglio, sia per quanto
riguardava la produzione, sia per quanto riguardava le vendite. Visti i risultati, il sindacato fondò
una nuova società, che prese anch'essa il nome di Fujiya Seika. Già oggi, i lavoratori hanno
potuto sciogliere l'organizzazione sindacale, si dividono i profitti e partecipano tutti,
direttamente, alla gestione dell'azienda. I livelli salariali sono mediamente più elevati di quelli
dei dipendenti di altre imprese, ma alla Fujiya la sperequazione tra i livelli superiori e inferiori è
assai ridotta (il massimo è solo tre volte superiore al minimo). La direzione è composta da cinque
persone: tre ex-sindacalisti e due quadri intermedi della vecchia azienda. Si è già instaurata una
rigida organizzazione del lavoro, sia in senso verticale, sia in senso orizzontale. Inoltre, vige una
netta distinzione tra lavoratori ordinari (gli ex-membri del sindacato, ora co-interessati ai profitti)
e lavoratori straordinari (per lo più impiegati a mezza giornata). In questo caso vediamo che,
quando l'autogestione raggiunge i propri obiettivi e gli affari vanno bene, una parte del suo
spirito originario va perduto. Alla Fujiya, nelle fasi dell'autogestione, non c'erano differenziazioni
gerarchiche tra i lavoratori, che formavano un gruppo compatto e affiatato, con il morale alle
stelle. Anche i lavoratori della Petri e di altre aziende hanno sperimentato situazioni analoghe, di
tipo oggettivo e soggettivo. Ma nella seconda fase di sviluppo dell'autogestione si assiste a una
prima differenziazione tra direzione e forza-lavoro, finché nella terza fase la gestione dell'azienda
acquista un carattere indipendente, estraneo alla base operaia. Nasce così una nuova gerarchia. Il
fenomeno dell'autogestione, tuttavia, può dare luogo a manifestazioni anche del tutto diverse,
alcune delle quali hanno una lunga storia. Ricorderemo, ad esempio, il caso della cooperativa di
pescatori di Amami Oshima, un'isola situata tra Kyushu e Okinawa. Dopo il fallimento della
compagnia di pesca, i lavoratori (22 pescatori) fecero una colletta per acquistare un nuovo
peschereccio e organizzarono una cooperativa. Tutto questo avveniva all'inizio degli anni '20,
cosicché la cooperativa vanta ormai oltre mezzo secolo di storia. Ciononostante, i principi che la
ispirarono sono tuttavia vivi e imperanti: uguaglianza nei contributi finanziari, nella mole
individuale di lavoro e nella ripartizione dei profitti. Il carattere ereditario degli investimenti
assicura la partecipazione all'impresa anche ai figli e ai nipoti dei soci fondatori (e siamo infatti
già alla terza generazione). I membri della cooperativa vivono in un piccolo villaggio, la loro
mentalità e il loro modo di vita sono omogenei e le differenziazioni di tipo socio-economico sono
assai ridotte. Le condizioni ambientali, dunque, sembrano favorire, anche a lunga distanza, i
principi di assoluta uguaglianza dell'autogestione. Nelle città è ben diverso, e si può dire,
perciò,
che il caso citato è abbastanza anomalo per una società altamente industrializzata e urbanizzata.
Secondo tipo: appropriazione e gestione delle piccole e medie industrie da parte
operaia
A differenza dell'autogestione di imprese in stato fallimentare, cioè in condizioni economiche
pessime, il caso che siamo in procinto di esaminare gode del vantaggio di una economia non
dissestata. L'impresa è in pieno sviluppo e la direzione tende a stabilizzare la forza-lavoro e ad
accrescere la produttività. Per far questo, alcuni piccoli e medi imprenditori hanno tentato l'esperimento
di dividere i profitti
con i lavoratori e di concedere loro il diritto di partecipazione alla gestione dell'impresa. Un caso tipico, in
questo senso, e quello della Komiya, un'industria produttrice di pasticceria da
forno. La società fu fondata a Tokio nel 1953, in un'epoca in cui gli imprenditori dovevano fronteggiare
il problema della grande mobilità di manodopera specializzata. Per cercare di porre rimedio a
questa situazione, il proprietario dell'azienda decise, nel 1954, di dividere il capitale con i
dipendenti e instaurò un sistema di gestione tale, per cui ogni mese doveva convocare
un'assemblea degli operai ed ottenere da questa l'approvazione della politica aziendale. Dapprima
l'atteggiamento dei lavoratori fu sospettoso, ma a poco a poco iniziarono a identificare i propri
interessi con quelli dell'impresa. Il morale e la produttività crebbero di pari passo. Gli operai
lavoravano spontaneamente per 14 ore al giorno e il numero degli stabilimenti si moltiplicava.
Solo nel 1970 ne vennero inaugurati 14. Il reddito dei dipendenti era assai più alto di quello dei
lavoratori di altre aziende. I direttori venivano eletti con votazioni alle quali prendevano parte
tutti gli operai; tutti i direttori di stabilimento, poi, eleggevano il direttore generale. Le differenze
tra i vari livelli salariali erano minime (di nuovo, il massimo era solo tre volte superiore al
minimo). Ogni stabilimento aveva una gestione autonoma e i direttori generali dei vari
stabilimenti dipendevano da un comitato di coordinamento. L'azienda godette di condizioni
economiche assai floride durante tutti gli anni '60 e all'inizio degli anni '70, ma nel frattempo il
giro di affari si era notevolmente ampliato e negli operai crebbe sempre più la consapevolezza
del ruolo di "impiegati". L'amministrazione della gestione del personale divenne indipendente dal
punto di vista funzionale e col tempo anche l'amministrazione e la gestione generali dell'azienda
dovettero svolgere un ruolo autonomo. Alla fine, nel 1974, ogni stabilimento si tramutò in una
impresa a sé, ma cessò ogni forma di autogestione e la compartecipazione al capitale fu limitata
ai soli direttori. Oggi non si tengono più assemblee dei lavoratori. A giudicare dalle nuove
condizioni instauratesi all'interno dell'azienda sembrerebbe che l'esperimento autogestionario sia
giunto alla fine e che l'azienda si sia definitivamente adattata al clima economico caratterizzato
da una sempre più forte e crudele competitività. Il caso citato dimostra che le buone condizioni
economiche di partenza hanno agevolato
l'autogestione, ma anche che l'aggravarsi della situazione economica generale ne ha decretato la
fine. In questo caso l'autogestione non è altro che un mezzo che l'impresa utilizza per adattarsi
all'ambiente; essa viene offerta 'dall'alto' ai lavoratori, così che essi non possono protestare
quando viene loro tolta. Questo tipo di autogestione è dunque una 'concessione', non una
acquisizione. In un altro caso, il ristorante Hikobanban aveva in progetto di aprire un nuovo locale alla
periferia di Tokyo, aveva difficoltà nel reperimento del personale. Uno dei dirigenti della società
ebbe l'idea di affidare la gestione del nuovo locale a un gruppo di studenti. Così fu fatto. Ma gli studenti
iniziarono ben presto ad utilizzare personale salariato a mezza
giornata. L'autogestione li interessava, ma mancavano delle basi ideologiche per comprenderla e
non riuscivano ad afferrarne il senso reale. Comunque, i dirigenti della società Hikobanban sono
riusciti ad assorbire la capacità di iniziativa e le energie dei giovani studenti. Gli studenti, in
questo caso, non erano i proprietari.
Terzo tipo: attività autogestionaria di piccoli gruppi nelle unità produttive delle
grandi imprese
Negli anni '60, in seguito ai cospicui investimenti effettuati nelle grandi industrie, gli
imprenditori si trovarono nella necessità di inventare un nuovo modo di amministrare il
personale, per favorire l'integrazione dei lavoratori nell'azienda, e per dare loro maggiori
motivazioni al lavoro in considerazione delle nuove condizioni tecnologiche e organizzative.
Inoltre, gli operai stessi, e soprattutto i più giovani, volevano trovare in fabbrica la possibilità di
mettere a frutto le proprie capacità, affinandole e accumulando nuove conoscenze. Nacque così
una nuova forma di gestione del personale, che incoraggiò i lavoratori a formare piccoli gruppi,
su basi più o meno volontarie, per gestire autonomamente la propria attività e migliorare
l'ambiente e le condizioni di lavoro. Le prime espressioni di questa nuova tendenza furono le cosiddette QC
Circle Activities (QC sta
per 'controllo della qualità'), nel 1962. Poi si sviluppò il cosiddetto ZD Movement (ZD sta per
'nessun difetto' o 'difetti a quota zero'). Forme analoghe si sono sviluppate rapidamente in un gran
numero di grandi e medie industrie, favorevolmente accolte dagli operai e non contrastate dai
sindacati. Le attività dei piccoli gruppi sono state incoraggiate e favorite anche dalle grandi
organizzazioni imprenditoriali. Ad esempio, nel 1969 la Japan Iron & Steel Federation
(Federazione giapponese del ferro e dell'acciaio) istituì al proprio interno il Comitato Jushu Kanri
per la promozione delle JK Activities (JK sta, appunto, per Jushu Kanri, che in Giappone
significa 'autogestione'). JK Activities è un termine generico per indicare le attività dei piccoli
gruppi (come ad esempio le QC Circle Activities e il ZD Movement) a livello di fabbrica e di
officina. Secondo la definizione proposta dallo stesso Comitato della Federazione, le JK
Activities sono "attività per le quali gli operai di una stessa fabbrica o officina o addetti al
medesimo lavoro formano un piccolo gruppo, eleggono un capo, discutono con lui, stabiliscono
autonomamente i propri obiettivi e il modo di raggiungerli". Una ricerca condotta dal
Productivity Labour Management Council (Consiglio per la Gestione della Manodopera
Produttiva) nel 1977 rivela che nel 68% delle grandi imprese si riscontrano forme di attività
gestite da piccoli gruppi. La ricerca condotta su 124 gruppi in 6 imprese dal Human Development Centre (Centro
per lo
Sviluppo Umano) evidenzia alcuni aspetti di questa realtà. In molti casi, la possibilità di iniziare
questo tipo di attività di gruppo fu offerta dalla direzione aziendale e in più dell'80% l'iniziativa
vera e propria fu assunta dai supervisori, dai capireparto. Le attività da svolgere vengono decise
perlopiù consultandosi con i supervisori e i capireparto
(nel 63% dei casi questi danno un orientamento generale e poi il gruppo decide da solo, mentre
nel 18% dei casi il gruppo decide insieme al supervisore). Tuttavia, non c'è un gruppo che non
decida autonomamente almeno una parte della propria attività. Il problema che più
frequentemente viene affrontato è quello dell'efficienza, poi quello della qualità. In alcuni casi
viene esaminato anche il problema della sicurezza sul lavoro. Il gruppo si riunisce in media una
volta al mese (nel 55% dei casi), o due o tre volte al mese (nel 24% dei casi) o addirittura una
volta alla settimana (nel 10% dei casi). Nel 75% dei casi tutti i membri del gruppo partecipano
alla riunione. Nel 46% dei casi tutti prendono abitualmente la parola, nel 27% dei casi molti
parlano e nel 19% dei casi solo la metà intervengono. Nel 39% dei casi il capogruppo viene
eletto per votazione, nel 9% dei casi i membri del gruppo assumono, a turno, questa funzione
(ma nel 21% dei casi è il supervisore a diventare capogruppo e nel 25% dei casi tocca a lui
scegliere tra i membri del gruppo). Nel complesso, il 51% di tutti i membri dei gruppi hanno
svolto, almeno una volta, questo ruolo. La maggior parte dei lavoratori dei gruppi riconoscono
che le attività svolte elevano il grado delle capacità individuali, accrescono le conoscenze relative
al tipo di lavoro svolto, garantiscono una migliore qualità della leadership, rendono omogenei i
livelli di efficienza e innalzano il morale. Si potrebbe obiettare che questo tipo di attività dei
piccoli gruppi a livello di fabbrica non rientra nelle forme dell'autogestione operaia propriamente
detta, e in effetti ha un carattere manipolatorio. Tuttavia, bisogna anche riconoscere che, anche se
nella prima fase l'iniziativa è partita dall'alto e gli obiettivi sono stati per lo più limitati a
problemi di carattere produttivo, le attività dei piccoli gruppi hanno un certo grado di autonomia
e gli operai ne ricavano una maggiore soddisfazione nel loro lavoro. Tuttavia, qualcuno afferma che oggi la
severità delle condizioni in cui versa l'economia influisce
negativamente sulle attività dei gruppi autonomi. Certo, esse sono state pensate in funzione
dell'atteggiamento della direzione aziendale in periodi caratterizzati da condizioni economiche
favorevoli, mentre ora le imprese non possono più permettersi di concedere ai piccoli gruppi
delle fabbriche un tale grado di autonomia. Oggi notiamo che i supervisori, i capireparto tendono
sempre più a intervenire direttamente nell'operato dei gruppi, ad assumere la direzione e a
sfruttarne l'attività in funzione degli interessi immediati dell'azienda. I piccoli gruppi non hanno,
di per sé, abbastanza forza per opporsi a queste misure e per contrastare questa tendenza.
Quarto tipo: "comunitarismo utopico"
Nel corso del processo di modernizzazione, diversi e non pochi sono stati i tentativi di formare
"comunità intenzionali" o "comunità utopiche", di opporre la solidarietà umana
all'individualizzazione e alla meccanizzazione dei rapporti umani, alla tecnocratizzazione e alla
burocratizzazione. La rivista Chiiki Kaihatsu (Sviluppo regionale) ha individuato 40 comunità
di
questo tipo, alle quali ha inviato un questionario di indagine (n. 5, 1977). Ma è probabile che il
loro numero sia assai più elevato. Ci sono, naturalmente, le "comunità" puramente consumistiche
e i gruppi hippies, ma se ne possono anche trovare alcune che svolgono un'attività socio-economica
improntata ai principi dell'autogestione. Alcune di esse sono nate sull'onda dei movimenti di sinistra alla fine
degli anni '60 e all'inizio
degli anni '70; altre, invece, hanno una lunga tradizione e una lunga storia. Ricordiamo ad
esempio, le comunità di Ittoen (a Kyoto), di Shinkyo Dojin (a Nara), di Oyamato Ajisai Mura (a
Nara), di Yamagishi Kai (che ha succursali in varie zone del Giappone), ecc.. Per la maggior
parte, basano le proprie attività sull'agricoltura e mirano a conservarsi autarchiche; i loro membri
sono per lo più influenzati da qualche religione, alla quale sono approdati dopo una vita dura, di
stenti e sofferenze; i mezzi di produzione e i prodotti sono di proprietà comune. Esaminiamo, per
esempio, la comunità Ittoen. Occupa un'area di circa 300.000 metri quadrati,
dei quali circa 10.000 edificati. Vi si trovano fattorie, boschi, un laboratorio agricolo, una sezione
per la produzione di vestiti e di capi di lana, una scuola e un asilo d'infanzia, una sezione edile,
una stamperia e una casa editrice, una troupe di attori. Ci vivono 300 persone, bambini e vecchi
di 90 anni. Non c'è proprietà privata e il lavoro non è salariato. La vita della
comunità è regolata
sul principio in base al quale ogni causa o elemento di conflitto personale o sociale deve essere
eliminato. Il principio trae origine da una rivelazione occorsa al fondatore della comunità durante
la dura esperienza maturata nel periodo bellico (morì nel 1968 all'età di 97 anni). Un altro
esempio tipico è rappresentato dalla comunità Yamagishi Kai. Le sue origini si
collocano nel movimento ideologico sorto nel 1953 per la realizzazione di una società utopica
basata su principi di autentica amicizia e nella quale l'antagonismo, i conflitti e la violenza
dovevano essere eliminati. Il movimento prese il nome di "Yamagishinismo". Nel 1961 esso
iniziò a porre in pratica le sue teorie in varie parti del Giappone, ma gli esperimenti avevano
dimensioni troppo ristrette e ben presto si manifestò l'esigenza di realizzarli su più ampia scala.
Le varie località interessate ai primi tentativi elessero ciascuna dei rappresentanti, che furono i
protagonisti dell'esperienza condotta nel 1969 nella città di Tsu (Mie ken). La nuova comunità
conta 300 membri, la cui età media si aggira intorno ai 23 anni. Si è insediata su un'area di 7
ettari di terreno agricolo e ha un allevamento di 150.000 galline, dal quale ricava quanto basta ad
acquistare quei prodotti che non è in grado di produrre autonomamente. Le sezioni in cui è
organizzata sono le seguenti: vita comune (istruzione, assistenza per l'infanzia, cucina,
lavanderia, lavoro nei campi), amministrazione, gestione (allevamento del pollame), edilizia,
allevamento dei maiali, acquisti e vendite. Le decisioni riguardanti la gestione della comunità
sono assunte consensualmente da tutti i suoi membri sulla base della dottrina generale dello
"Yamagishinismo" e ogni sei mesi vengono eletti tre rappresentanti. Si potrebbe dire che comunità di
questo tipo rinnegano, o meglio rifiutano, i sistemi di valori
prevalenti della società industriale, quali l'individualismo, la meritocrazia, la logica
dell'efficienza, e così via. Ciascuno dei loro membri ha abbandonato la vita di tutti i giorni, o ne è
stato cacciato, ed ha cercato un forte legame umano, nel quale la religione, o qualcos'altro di
analogo, gioca un ruolo dominante. Si è detto spesso che la religione ha una grande importanza
nella cultura giapponese, e proprio per questo sorgono continuamente nuovi movimenti religiosi,
dal buddhismo e dallo shintoismo, o da entrambi insieme, che consentono l'integrazione di parti
devianti della società contemporanea. Perciò, una persona educata alla vita sociale secondo i
valori della società industriale, e incapace di trascenderli, non potrebbe trovar pace in una di
queste "comunità", anche se in un primo tempo potrebbe prendervi parte con entusiasmo.
Conclusioni
Se vogliamo caratterizzare dal punto di vista genetico i quattro tipi di autogestione che abbiamo
testé esaminato, potremmo definire il primo tipo "autogestione imposta" dal fallimento, il
secondo tipo "autogestione concessa" dal padronato, il terzo tipo "autogestione favorita e
promossa" dalla direzione aziendale e il quarto tipo "autogestione di origine ideologica". Nel primo tipo di
autogestione i lavoratori provano un senso di reciproca solidarietà, il loro
morale è alto, sono pieni di iniziativa e instaurarono rapporti sociali ed economici ugualitari,
oltreché una struttura organizzativa flessibile senza connotazioni gerarchiche. Ma, in generale,
ciò contraddistingue la prima fase dell'esperienza autogestionarie, scaturita da necessità
economiche. In seguito, anche se l'esperienza stessa contribuisce a modificare in varie misure
l'atteggiamento e la coscienza dei lavoratori, i sentimenti che l'hanno contraddistinta in origine si
affievoliscono, tra direzione e lavoratori si instaurano nuove barriere d'interesse e la struttura
perde flessibilità ed equanimità. Non è sufficiente giustificare questo fenomeno con il
necessario
adattamento dell'impresa a condizioni economiche più rigide e severe (di mercato, finanziarie,
ecc.), perché abbiamo visto che nel caso della Fujiya Seika, ad esempio, queste condizioni erano
garantite da un commerciante all'ingrosso. La cooperativa di pescatori di Amami Oshima,
anch'essa sottoposta alle leggi del libero mercato, ha resistito a lungo. Ma essa è caratterizzata da
un modo di vita e da una coscienza di sé del tutto omogenei, da rapporti umani stretti e da vincoli
tradizionali, sia nel lavoro che fuori di esso. La vita non è regolata da una sistematica ideologia
autogestionaria o autogovernamentale, ma dai costumi e dalle tradizioni della comunità. Neppure il
quarto tipo, dunque, quello con origini ideologiche, potrà riuscire, a meno che non
crei un modo di vita e un modo di pensare omogenei tra i membri della comunità. Apparentemente,
sembra difficile che un lavoratore urbano, abituato a vivere separato dagli altri
non appena esce dal posto di lavoro, riesca a mantenere integro per lungo tempo un rapporto
fondato sui principi dell'autogestione. Tuttavia, l'operaio è psicologicamente portato ad agire di
propria iniziativa nel luogo di lavoro, senza bisogno di direttive dall'alto. Da questa
considerazione, infatti, è scaturita la tendenza a concedere un certo grado di autonomia al
lavoratore, come incentivo per una maggiore efficienza. Per questa stessa ragione anche il
secondo tipo di autogestione, al pari del primo, funziona meglio se le condizioni economiche
sono favorevoli. Se invece non lo sono, o peggiorano, i modi dell'autogestione vengono
immediatamente abbandonati. E i lavoratori si adeguano a questo stato di cose senza opporre
alcuna resistenza, perché anche se psicologicamente vi sono portati, non possiedono una solida
teoria filosofica autogestionaria. C'è, dunque, anche un problema che riguarda il "soggetto"
dell'autogestione. E sarebbe interessante verificare quali siano gli elementi convergenti e le
similitudini nei processi di sviluppo dei primi due tipi di autogestione ("imposto" e "concesso") e
quali siano le strutture e il grado di coscienza a cui essi portano. Molti dirigenti aziendali considerano con
estremo interesse quello che abbiamo definito il terzo
tipo dell'autogestione, che vedono come un ottimo mezzo per realizzare nella pratica le iniziative
dei lavoratori all'interno delle grandi organizzazioni. Attualmente, questo tipo si manifesta nel
cosiddetto movimento QWL, in virtù del quale la fabbrica dovrebbe diventare non più una
semplice unità produttiva, ma anche un'unità di vita. Tuttavia notiamo, soprattutto nell'industria
delle costruzioni navali, che i gruppi umani formatisi grazie alle attività dei piccoli gruppi negli
stabilimenti si sciolgono a causa della sovrabbondanza di manodopera che costringe non pochi
operai ad abbandonare il posto di lavoro. Abbiamo visto che ci sono oggi, in Giappone, quattro tipi diversi di
autogestione. Ciascuno di
essi ha problemi specifici e deve affrontare difficoltà particolari, ma nello stesso tempo tutti e
quattro presentano caratteri simili e aspetti analoghi. Ciononostante, bisogna dire che pochi sono
oggi, in Giappone, gli orientamenti sulla base dei quali se ne possa utilmente tentare una sintesi,
sia dal punto di vista pratico, sia dal punto di vista teorico, sia dal punto di vista ideologico.
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