Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 9 nr. 79
dicembre 1979 - gennaio 1980


Rivista Anarchica Online

Il foruncolo Amendola
di Paolo Finzi

Un liberal-democratico stalinista. Accompagnato da questa definizione solo apparentemente paradossale, è salito sulla ribalta dello spettacolo politico italiano Giorgio Amendola. Non passa giorno, ormai, che non si registrino nuove prese di posizione nei confronti delle sue tesi esposte su Rinascita e più in generale della polemica che ne è scaturita.
I termini della questione sono noti. Amendola critica pubblicamente il partito, accusandolo di essere troppo sensibile alle sirene delle agitazioni sindacali, di non aver saputo reagire adeguatamente alla "violenza" in fabbrica, di essere troppo timido nella proposizione e nell'applicazione della linea dell'austerity. In sintesi, propone di chiedere sacrifici sempre più duri alla classe operaia, che così agendo porrebbe la sua definitiva candidatura alla gestione della società. Una concezione indubbiamente sublime della lotta politica, ispirata al più nobile masochismo: autoflagellandosi, i lavoratori metterebbero in luce la serenità delle loro intenzioni e i padroni, colpiti da cotanta dedizione, si farebbero da parte riconoscendo in loro i veri e gli unici possibili salvatori della patria. Quando Amendola si chiede "quale più alta ricompensa delle loro lotte e dei loro sacrifici i lavoratori potrebbero chiedere, se non assurgere alla direzione dello Stato", riecheggia nelle nostre orecchie la "ricompensa celeste" che da due millenni i preti promettono al popolo delle pecorelle.
Una simile concezione della classe operaia-fachira non è in sostanza dissimile da quella che Berlinguer con la sua filosofia dell'austerity e Lama con la linea dell'EUR avevano delineato a loro tempo. Altrettanto coerenti ci sembrano le dichiarazioni di Amendola con la strategia del PCI nel lungo periodo: il leader della "destra" PCI si è limitato a dire esplicitamente cose che gli altri leader del partito dicono con altri termini, con minore brutalità, con più senso politico. E proprio qui sta "il peccato" di Amendola, nell'aver preso sottogamba la correzione di rotta che il PCI si è imposto dopo la discreta batosta elettorale del giugno scorso. Tutto impegnato a stabilire più stretti e redditizi contatti con la "sua" base e con la "sua" area di consenso, il PCI ha accentuato il suo carattere di "lotta" (vedi Il valzer delle sinistre, "A" 77) e non può tollerare senza reagire che uno dei suoi leader carismatici si spinga troppo in là sulla via della "sincerità".
Nella sua pubblica risposta ad Amendola, al teatro Adriano, Berlinguer è stato chiaro (a modo suo): anche noi vogliamo che i lavoratori tirino la cinghia, ha detto in sostanza il segretario comunista, ma sappiamo che per spingerli a farlo bisogna far credere loro che alla fine qualcosa cambi davvero. E, forse un po' trascinato dalla necessità di "correggere il tiro", Berlinguer ha parlato addirittura di rifiuto del PCI ha "rattoppare" questo sistema, ecc.. Poco ci mancava che rispolverasse la vecchia fraseologia rivoluzionaria. Anche Lama, che notoriamente non brilla di sinistrismo, ha risposto sull'Unità ad Amendola - anche se in effetti si è mosso più per difendere l'intangibilità del sindacato che per contrastarlo veramente.
Sul significato di fondo di questo pubblico contrasto tra leader di un partito ancora tanto legato al mito della propria unità com'è il PCI, i giornalisti si sono sbizzarriti dando fondo a tutte le loro capacità inventive. I dissensi politici diventano "abissi culturali", le correzioni di tiro diventano vere e proprie inversioni di marcia, e così via. Questa mancanza di senso della misura (che alla fin fine avvantaggia solo il PCI, che sembra un partito davvero aperto a mille opinioni e mille tendenze) si è estesa a tutti i commentatori politici: basti qui citare quanto un filosofo equilibrato (per quanto possa esserlo un filosofo) come Lucio Coletti scrive (L'Espresso, 24 novembre) a proposito del serbatoio sessantottesco al quale attingerebbero gli "ingraiani". Gli ingredienti di esso sono ben noti: "rivoluzione culturale", democrazia dei "movimenti" spontanei, consigli di fabbrica, egualitarismo, rifiuto del burocratismo di partito, appoggio alle tesi più audaci del sindacalismo libertario e rivoluzionario, (...). D'accordo cercare di mettere in rilievo le diverse concezioni tattiche e forse in parte anche strategiche presenti nel PCI, d'accordo anche accentuare i punti di contrasto e tacere le fondamentali convergenze (che permettono loro di convivere da decenni al vertice del partito), ma il filosofo Coletti converrà con noi che scomodare il sindacalismo libertario e rivoluzionario (e addirittura le sue tesi più audaci) per un leader comunista, anzi per un ex-presidente della Camera come Ingrao è oltremodo eccessivo.
La stessa miopia ha dimostrato Umberto Terracini, un altro leader storico del PCI, del quale ben conosce il centralismo democratico per esser stato espulso dal partito negli anni trenta a causa del suo dissenso con la politica staliniana. Tentando, a modo suo, di esorcizzare Amendola, lo ha accusato di essere sostanzialmente, e di essere sempre stato... figlio di suo padre. Un liberale e un borghese, seppure illuminato e aperto, come fu appunto Giovanni Amendola, padre di Giorgio. E sulla scia di Terracini non pochi si sono lanciati a cercare le "influenze borghesi" nell'impostazione culturale e politica di Amendola. Un gioco non certo difficile, ma altrettanto inutile: a che serve infatti cercare nella crudezza e nella "sincerità" tutta lamalfiana di Amendola le sue improbabili "deviazioni" da un inesistente progetto rivoluzionario comunista?
Amendola, il liberal-democratico stalinista, non è che un piccolo foruncolo nel marcio del partito dell'interclassismo, della solidarietà nazionale, del concordato con la chiesa. E occuparsi unicamente di un foruncolo mentre il corpo imputridisce è tragicamente stolto.