Rivista Anarchica Online
Il foruncolo Amendola
di Paolo Finzi
Un liberal-democratico stalinista. Accompagnato da questa definizione solo apparentemente
paradossale, è salito sulla ribalta dello spettacolo politico italiano Giorgio Amendola. Non passa
giorno, ormai, che non si registrino nuove prese di posizione nei confronti delle sue tesi esposte
su Rinascita e più in generale della polemica che ne è scaturita. I termini della
questione sono noti. Amendola critica pubblicamente il partito, accusandolo di
essere troppo sensibile alle sirene delle agitazioni sindacali, di non aver saputo reagire
adeguatamente alla "violenza" in fabbrica, di essere troppo timido nella proposizione e
nell'applicazione della linea dell'austerity. In sintesi, propone di chiedere sacrifici sempre più duri
alla classe operaia, che così agendo porrebbe la sua definitiva candidatura alla gestione della
società. Una concezione indubbiamente sublime della lotta politica, ispirata al più nobile
masochismo: autoflagellandosi, i lavoratori metterebbero in luce la serenità delle loro intenzioni
e i padroni, colpiti da cotanta dedizione, si farebbero da parte riconoscendo in loro i veri e gli
unici possibili salvatori della patria. Quando Amendola si chiede "quale più alta ricompensa delle
loro lotte e dei loro sacrifici i lavoratori potrebbero chiedere, se non assurgere alla direzione dello
Stato", riecheggia nelle nostre orecchie la "ricompensa celeste" che da due millenni i preti
promettono al popolo delle pecorelle. Una simile concezione della classe operaia-fachira non è in
sostanza dissimile da quella che
Berlinguer con la sua filosofia dell'austerity e Lama con la linea dell'EUR avevano delineato a
loro tempo. Altrettanto coerenti ci sembrano le dichiarazioni di Amendola con la strategia del
PCI nel lungo periodo: il leader della "destra" PCI si è limitato a dire esplicitamente cose che gli
altri leader del partito dicono con altri termini, con minore brutalità, con più senso politico. E
proprio qui sta "il peccato" di Amendola, nell'aver preso sottogamba la correzione di rotta che il
PCI si è imposto dopo la discreta batosta elettorale del giugno scorso. Tutto impegnato a stabilire
più stretti e redditizi contatti con la "sua" base e con la "sua" area di consenso, il PCI ha
accentuato il suo carattere di "lotta" (vedi Il valzer delle sinistre, "A" 77) e non può tollerare
senza reagire che uno dei suoi leader carismatici si spinga troppo in là sulla via della
"sincerità". Nella sua pubblica risposta ad Amendola, al teatro Adriano, Berlinguer è stato chiaro
(a modo
suo): anche noi vogliamo che i lavoratori tirino la cinghia, ha detto in sostanza il segretario
comunista, ma sappiamo che per spingerli a farlo bisogna far credere loro che alla fine qualcosa
cambi davvero. E, forse un po' trascinato dalla necessità di "correggere il tiro", Berlinguer ha
parlato addirittura di rifiuto del PCI ha "rattoppare" questo sistema, ecc.. Poco ci mancava che
rispolverasse la vecchia fraseologia rivoluzionaria. Anche Lama, che notoriamente non brilla di
sinistrismo, ha risposto sull'Unità ad Amendola - anche se in effetti si è mosso
più per difendere
l'intangibilità del sindacato che per contrastarlo veramente. Sul significato di fondo di questo pubblico
contrasto tra leader di un partito ancora tanto legato al
mito della propria unità com'è il PCI, i giornalisti si sono sbizzarriti dando fondo a tutte le loro
capacità inventive. I dissensi politici diventano "abissi culturali", le correzioni di tiro diventano
vere e proprie inversioni di marcia, e così via. Questa mancanza di senso della misura (che alla
fin fine avvantaggia solo il PCI, che sembra un partito davvero aperto a mille opinioni e mille
tendenze) si è estesa a tutti i commentatori politici: basti qui citare quanto un filosofo equilibrato
(per quanto possa esserlo un filosofo) come Lucio Coletti scrive (L'Espresso, 24 novembre) a
proposito del serbatoio sessantottesco al quale attingerebbero gli "ingraiani". Gli ingredienti di
esso sono ben noti: "rivoluzione culturale", democrazia dei "movimenti" spontanei, consigli di
fabbrica, egualitarismo, rifiuto del burocratismo di partito, appoggio alle tesi più audaci del
sindacalismo libertario e rivoluzionario, (...). D'accordo cercare di mettere in rilievo le diverse
concezioni tattiche e forse in parte anche strategiche presenti nel PCI, d'accordo anche accentuare
i punti di contrasto e tacere le fondamentali convergenze (che permettono loro di convivere da
decenni al vertice del partito), ma il filosofo Coletti converrà con noi che scomodare il
sindacalismo libertario e rivoluzionario (e addirittura le sue tesi più audaci) per un
leader
comunista, anzi per un ex-presidente della Camera come Ingrao è oltremodo eccessivo. La stessa miopia
ha dimostrato Umberto Terracini, un altro leader storico del PCI, del quale ben
conosce il centralismo democratico per esser stato espulso dal partito negli anni trenta a causa del
suo dissenso con la politica staliniana. Tentando, a modo suo, di esorcizzare Amendola, lo ha
accusato di essere sostanzialmente, e di essere sempre stato... figlio di suo padre. Un liberale e un
borghese, seppure illuminato e aperto, come fu appunto Giovanni Amendola, padre di Giorgio. E
sulla scia di Terracini non pochi si sono lanciati a cercare le "influenze borghesi"
nell'impostazione culturale e politica di Amendola. Un gioco non certo difficile, ma altrettanto
inutile: a che serve infatti cercare nella crudezza e nella "sincerità" tutta lamalfiana di Amendola
le sue improbabili "deviazioni" da un inesistente progetto rivoluzionario comunista? Amendola, il
liberal-democratico stalinista, non è che un piccolo foruncolo nel marcio del partito
dell'interclassismo, della solidarietà nazionale, del concordato con la chiesa. E occuparsi
unicamente di un foruncolo mentre il corpo imputridisce è tragicamente stolto.
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