Rivista Anarchica Online
I Necaev del leninismo
di Gianfranco Bertoli (carcere speciale di Nuoro)
L'immagine che mi faccio del lettore costante della stampa anarchica è quella di un individuo che si
vuole capace
e libero di pensare con la sua testa in ogni circostanza e si dispone ad affrontare la lettura di un qualsiasi articolo,
quale ne sia il soggetto e l'autore, scevro da pregiudizi (favorevoli o sfavorevoli che siano), con attenzione e vigile
spirito critico nell'intento di confrontarvicisi e trarne le sue personali deduzioni e considerazioni. Ciò
mi porta ad ipotizzare che molti di coloro che hanno letto alcuni miei interventi che i compagni della
redazione hanno ritenuto, in periodi diversi, di pubblicare sulle pagine di "A", possano ritenere di aver riscontrato
delle contraddizioni abbastanza stridenti tra alcuni giudizi ed opinioni da me sempre espresse sugli appartenenti
alle organizzazioni di matrice leninista che oggi conducono pratiche di "lotta armata". Da parte mia credo di poter
sostenere che queste "contraddizioni" sono più apparenti che sostanziali e che non si tratta in realtà
che del frutto
di ottiche e prospettive differenti perché determinate dalla necessità e dall'occasione di considerarne
particolari
aspetti nel quadro di uno stesso fenomeno.. Quello che vorrei chiarire è che uno sguardo all'"altra faccia
della
luna" non comporta modifica alcuna delle nostra opinione circa l'aspetto della faccia considerata in precedenza
permettendo, però, una migliore comprensione morfologica complessiva. Qualche lettore di "A" (se
attento e... di buona memoria), dopo aver preso visione di quei due stralci che sono
stati pubblicati sul numero di novembre (in merito all'assassinio di Cinieri, ndr) e nei quali facevo ricorso
all'espressione "cosca mafiosa" parlando dei fautori della "potere rosso" nelle carceri speciali, qualche lettore -
dicevo - potrà essere andato, con qualche perplessità, a considerare quanto da me scritto in una
lettera che fu
pubblicata sul n.62 (febbraio '78). In quella occasione, infatti, in indiretta polemica con uno scritto apparso su
un'altra nostra pubblicazione, scrivevo testualmente: (...) militanti rivoluzionari dei quali si possono non
condividere i metodi, si deve certo rifiutare l'ideologia autoritaria che professano, si possono anche, al
limite, considerare degli avversari politici, ma che meritano tutto il nostro rispetto per l'onestà ed il coraggio
con cui lottano contro un potere che è anche nostro nemico. Ebbene, anche se a qualcuno
potrà apparire
paradossale alla luce delle mie ultime prese di posizione, ancora oggi potrei sottoscrivere senza esitazione quelle
mie parole di allora. Rimango convinto che i fautori della "partito armato" siano stati mossi nell'intraprendere la
via della lotta violenta dalla aspirazione ad una società più giusta ed umana. Continuo a vedere la
loro scelta di
rottura con ogni forma di compromesso nella lotta contro il sistema come motivata da una volontà di agire
in
prima persona per modificare una realtà aberrante e uscire da una situazione di tragica impotenza di tutto
il
movimento rivoluzionario. Tutto questo va, secondo me, riconosciuto e torna a loro onore. Sotto questo punto
di vista non posso negar loro quel rispetto e quella stima che spettano sempre a chi lotta, rischia e soffre per una
causa che ritiene giusta. Quello che addolora è il fatto che, vittime della nefasta influenza della
pressoché
incontrastata egemonia del dogmatismo marxista (che ancora oggi condiziona, sotto il profilo culturale ed
ideologico, tutti o quasi i movimenti rivoluzionari del mondo) non abbiano saputo trovare niente di meglio che
rifugiarsi nella più fanatica e acritica adesione alla più cinica, gerarchica e illibertaria teoria che sia
stata partorita
dall'interpretazione del marxismo. Certo si è trattato in una qualche misura di un approdo obbligato
ove si consideri la loro necessità di conciliare
il fatalismo deterministico dell'economicismo marziano con lo spirito volontaristico che li animava spingendoli
a lottare per realizzare la profezia. È da questa scelta che prende corpo il loro volersi costituire in
"rivoluzionari
di professione", figura sostitutiva della "classe operaia" nel ruolo carismatico attribuito a quest'ultima da Marx
di classe che detiene oggettivamente la funzione e il compito storico di liberare, liberando se stessa, dalla
alienazione l'intero genere umano. Dall'ambizione, poi, di fare adeguare la realtà alla profezia trae origine
la
teorizzazione dell'ineluttabile attualità della lotta armata ed il tentativo di portarla avanti in prima persona,
una
volta accettato il presupposto che l'antagonismo tra "classe operaia" e "borghesia" non può non acuirsi fino
ad
arrivare, attraverso l'innalzamento progressivo del "livello di scontro", allo stadio della "guerra civile
rivoluzionaria". Una volta dato per scontato che da questo scontro finale non potrà che realizzarsi il trionfo
del
proletariato, visto che ciò non avviene spontaneamente ed inevitabilmente come "dovrebbe", ecco intervenire
il
"partito" (composto di "avanguardie coscienti" perché il signor Lenin ha già stabilito una volta per
tutte che il
proletariato lasciato a se stesso è incapace di assumersi il suo "compito storico") a mettere in scena la
rappresentazione spettacolare di una situazione che non si è verificata, nella speranza di forzare la
realtà storica
ad adeguarvisi. Tutto ciò rappresenta aspetti patetici e commoventi e potrebbe farci guardare con
tenerezza e con indulgente
simpatia a tanto entusiasmo mal riposto e a tanta abnegazione sprecata, se non fosse che tutta la "scienza"
rivoluzionaria del leninismo è riconducibile ad una strategia di conquista del potere politico e se dei risultati
che
il trionfo di questa dottrina ha prodotto, laddove si è verificato, non avessimo tante dolorose esperienze
storiche
e sotto gli occhi la sanguinosa evidenza. Certo il buon Vladimir Ilich ha sempre tenuto, a suo tempo, a rassicurarci
garantendoci che il fine ultimo, "escatologico", verso cui tende la sua prassi rivoluzionaria è, pur sempre,
il
comunismo, la società senza classi e l'estinzione dello Stato. Sotto sotto (si veda la Stato e
rivoluzione) ci dice
che vuole anche lui l'anarchia. Basta aver pazienza, egli ci ammonisce. Lo Stato non può "abolirsi", esso
dovrà
"estinguersi" da sé e ciò avverrà naturalmente, in forza delle "sacre" leggi dell'economia,
secondo quanto
profetizzato dal genio incommensurabile della coppia tedesca che ha capito e previsto tutto. Intanto godetevi la
"dittatura del proletariato", il gulag, la polizia politica che vi sbarazzerà dei "controrivoluzionari borghesi"
(che
devono essere piuttosto duri a morire se a più di sessant'anni dalla "rivoluzione d'ottobre" si è
costretti a tenerne
in carcere centinaia di migliaia). Da questa concezione d'una rivoluzione in due fasi - l'una (quella della presa
del potere politico da parte della
"partito") da attuare come obiettivo immediato, l'altra è rinviata ad un mitico futuro indeterminato nel tempo
e
tanto lontano da poterlo paragonare alla "regno di dio, delle speranze cristiane - discende che l'evidenza della
riducibilità di tutta la "scienza" del leninismo ad una strategia ed una tecnica finalizzate alla conquista del
potere
assoluto. Ora se consideriamo come nella figura del "rivoluzionario di professione" (quadro politico-militare di
un partito gerarchicamente strutturato e rigidamente disciplinato) si realizza un genere d'uomo alienato (non molto
dissimile da un membro dell'ordine dei gesuiti e del tipo di rivoluzionario reclamizzato da Necacev), un uomo
cioè che ha un solo fine e una sola passione, una volta resosi conto che tutto il leninismo si riduce ad un
progetto
di conquista e di gestione del potere, finiremo, inevitabilmente, con il giungere alla conclusione che questo nuovo
tipo di " monaco-soldato" ha interriorizzato una vera e propria "mistica del potere" e solo questo vede, sogna,
adora. Il "rivoluzionario professionale" è perciò, al tempo stesso, un aspirante "gestore
professionale" del potere
e tale possiamo considerarlo a tutti gli effetti. Al concetto stesso di "potere" essi hanno finito con l'attribuire una
valenza positiva, anche se si dice di volerlo per farne un mezzo per realizzare il "socialismo", questo mezzo
diventa il fine.
Potere "rosso" e potere mafioso
Nulla di strano né difficile da spiegarsi, quindi, se e quando le alterne vicende di una lotta senza
esclusione di
colpi con chi detiene oggi il potere statale portano qualcuno di loro, nelle prigioni del regime, questi militanti,
nella manifesta impossibilità di proporsi come obiettivo la conquista e la gestione del potere statale, si
consolino
con quello della costruzione, all'interno della stessa istituzione che reprime e sottomette alle sue esigenze, di una
sottospecie di potere, quel potere rosso appunto che è divenuto ora la parola d'ordine ed il
leit-motiv di tutti i
loro "documenti di lotta", "analisi ", "comunicati", nelle e dalle carceri. Una qualsiasi forma di potere, però,
che
si voglia costruire ed esercitare, in forma più o meno sotterranea, nella stessa dimensione spazio-temporale
che
è già tenuta da un potere ufficiale e consolidato, non può non assumere aspetti e
modalità di funzionamento che
rappresentano oggettive analogie con il più tradizionale dei poteri sommersi, quello che viene appunto
definito
"mafioso". Ed è proprio in questo senso e non in quello di un giudizio morale di disprezzo verso tutti
loro (vi sono tra essi
persone verso le quali sento soggettivamente la massima stima), che ho ritenuto parlare di loro chiamandoli "cosca
mafiosa". Il mio discorso, oggi, a questa espressione non costituisce una atteggiamento contraddittorio con il mio
modo di considerarli quando scrivevo che hanno diritto al nostro rispetto. Continuo a vedere nei brigatisti rossi
degli autentici rivoluzionari, coerenti con la loro interpretazione dell'ideologia cui aderiscono, coraggiosi ed
onesti, quindi, sotto questo punto di vista. La loro accettazione del leninismo, però, implica una
concezione dell'idea di rivoluzione che è antitetica ed
inconciliabile con quella che ne ho io ed è proprio dal doveroso riconoscimento che essi sanno essere
coerenti
fino alle estreme conseguenze con i fini che si propongono che, essendo loro fine il potere, non posso fare a meno
di considerarli degli avversari con i quali sarebbe, per un anarchico, incoerente ed illusorio dare per ipotizzabile
qualsiasi forma di collaborazione che vada oltre qualche sporadica e contingente situazione particolare. Oltre
a questo, nel cercar di comprendere come e perché si sia determinata tra molti dei militanti delle
organizzazioni comuniste combattenti incarcerati una disponibilità al ricorso a metodi che sono stati, da
sempre,
appannaggio di ben altro tipo di detenuti (quelli appunto che aspirano ad esercitare all'interno dell'istituzione
carceraria una supremazia di tipo mafioso), non può venir sottovalutato un certo determinismo ambientale.
Dal
processo di acculturazione accelerata alla loro "vulgata" del verbo marxiano del maggior numero di persone
possibile, si è venuta a formare tutta una schiera di neo-militanti e di simpatizzanti del "partito armato" che
lungi
dall'essersi liberata dalla sua vecchia mentalità e dal suo vecchio metro di valori, li ha portati con sé,
amalgamandoli con quanto hanno acquisito della nuova "rivelazione" così com'è stata loro trasmessa.
Fatto non
nuovo nella storia di tante colonizzazioni ed "evangelizzazioni" il condizionamento non è stato a senso unico
e
gli stessi facitori di proseliti hanno finito col restarne influenzati, sino ad assimilarne certe prassi comportamentali.
Credere di avere individuato la presenza di alcune analogie in due fenomeni diversi non ci autorizza
però ad una
classificazione semplicistica che li ponga sullo stesso piano. Sarebbe pertanto metodologicamente scorretto non
prende in considerazione quelle caratteristiche peculiari che, nel caso specifico, diversificano tra loro "potere
rosso" e "potere mafioso" sino a farci apparire, a prima vista, addirittura assurdo ed improponibile qualsiasi
parallelo. La differenza fondamentale può, secondo me, venir indicata nel fatto che, mentre ogni tipo di
potere
mafioso si realizza come un "sottopotere", parallelo e coesistente con un potere ufficiale che non viene contestato,
né combattuto, nelle intenzioni dei suoi fautori il cosiddetto "potere rosso" è visto e voluto come
contropotere,
negazione antagonista di uno Stato nei confronti del quale ci si dichiara in guerra aperta e si dà per scontata
la
reciproca accettazione di una logica di annientamento.
Operazione "supercarceri"
Ora, a parte un certo aspetto propagandistico per cui affermare la precisa e deliberata volontà di
eliminazione
fisica nel progetto governativo da cui sono nate le carceri speciali, permette di esibire come una grande "vittoria"
sul regime il fatto stesso di sopravvivere, rimane da vedere se e in quale misura la gestione egemonica di tutte le
forme di resistenza e di lotta nelle supercarceri da parte dei militanti marxisti-leninisti non fosse
già stata
preventivata e giudicata come perfettamente compatibile (e anzi funzionale) al successo sotto il profilo politico
del progetto repressivo che ha avuto un suo cardine nell'istituzione del sistema carcerario differenziato. Anche
se l'operazione "carceri speciali" (come del resto un po' tutta la decantata riforma penitenziaria) presenta
aspetti grotteschi e tali punte di abissale stupidità da farci prevedere che finirà per rivelarsi come
controproducente
rispetto agli obiettivi dichiarati (ma questo è un po' il destino di tutte le scelte operative dell'attuale regime
e
basterebbe, a titolo di esempio, considerare nel campo della programmazione economica la vicenda del centro
siderurgico di Gioia Tauro), essere stata predisposta ed attuata con uno zelo ed un accurato calcolo preventivo
delle possibili ripercussioni che ne fanno un capolavoro nel suo genere. Basterebbe osservare, per rendersene
conto, come oltre ad averne, attraverso una lunga, articolata e abilmente
dosata campagna psicologica, predisposto all'accettazione l'opinione pubblica, si ha avuto cura perfino di scegliere
per dare il via alla realizzazione pratica del progetto il periodo dell'anno (si era la fine del luglio '77) in cui si era
certi di poter più facilmente evitare di trovarsi di fronte ad un tentativo di sensibilizzazione e mobilitazione
dell'opinione pubblica che si opponesse a questa innovazione. A questo punto, sia che il trasferimento nelle
supercarceri venisse, come si è in pratica verificato, subìto passivamente dai diretti
interessati, sia che per caso
si fossero verificate delle reazioni da soffocare violentemente e fors'anche crudelmente, il gioco era fatto e
risultava sempre vincente. Lo svolgimento "tranquillo" dell'operazione l'avrebbe legittimata in nome della
raggiunta sicurezza e normalizzazione. L'eventuale scoppio di rivolte avrebbe dato egualmente ragione ai
sostenitori della necessità ed improrogabile urgenza di quell'operazione, che avrebbe potuto esser presentata
come
una misura preventiva idonea a limitare i danni di ben più gravi avvenimenti che si era saputo essere in
preparazione. Nel contesto di tanto perfezionismo è possibile pensare, allora, che le alte sfere ministeriali
non
abbiano già previsto che la creazione di un circuito carcerario speciale in cui rinchiudere una parte della
popolazione detenuta avrebbe posto questa parte in una condizione psicologica tale da essere disponibile ad
accettare la guida di qualsiasi gruppo organizzato riuscisse a proporsi come polo di aggregazione. Che per il
potere statale l'assunzione del ruolo di controparte esclusiva nell'ambito delle supercarceri da parte
dei militanti del partito armato sia ritenuto un fenomeno utile e strumentalizzabile al fine di rendere
irreversibile
una situazione che si era dapprima dovuto presentare come provvisorie d'emergenza, appare in tutta la sua
evidenza ove si consideri come il poter dare, attraverso i mass-media di regime, l'immagine di tutta la questione
come riconducibile ad un aspetto della lotta privata tra lo Stato e le Brigate Rosse ed ogni eventuale iniziativa
di lotta contro le carceri speciali come ispirata, diretta e voluta dagli uomini del partito armato,
permetta di poter
criminalizzare con maggior facilità ogni forma di dissenso nei confronti di questa specifica forma di
repressione,
e etichettando chiunque vi si impegni di "fiancheggiatore" e come tale perseguitarlo. Nonostante le apparenze,
non è che l'attuale classe politica italiana, a livello di governo, sia molto più stupida,
incapace e corrotta di quelle che l'hanno preceduta in altri periodi storici, né di quelle che gestiscono oggi
potere
in altri paesi. Se essa si comporta assai spesso in un modo che può farcelo pensare ciò è
dovuto alle circostanze
storiche che la condizionano. Non è né semplice né facile riuscire a barcamenarsi per
sopravvivere quando l'unica
possibilità di poterlo fare è quella di accettare di gestire il proprio superamento e l'ascesa al potere
di una classe
di "nuovi padroni". Ancora più arduo, poi, quando ciò avviene nel contesto particolare di una
società di tipo
"tardo-capitalistico" che presenta notevoli e quasi incredibili disarmonie di sviluppo e nella quale sopravvivono
addirittura sacche di sottosviluppo di economia pre-capitalistica. In una realtà sociale, quindi, che obbliga
ad un
continuo sforzo di mediazione tra interessi e pressioni contrastanti, può ben spiegarsi la scelta degli uomini
di
governo attuali di far continuamente appello alla sbandierata situazione di "emergenza" per garantirsi
l'indispensabile consenso di massa e per poter portare avanti quegli espedienti per sopravvivere che,
paradossalmente, si risolvono in iniziative idonee a predisporre le condizioni migliori per il passaggio al tipo di
ordinamenti sociali che sono congeniali alla nuova classe dirigente che gli sostituirà. Questa scelta
finisce, d'altra parte, per condannare l'attuale potere a far di tutto per perpetuare quella stessa
"emergenza" che pur deve mostrare di combattere con energia, efficienza, capacità. Da ciò derivano
anche molte
delle sue truculenze e lo sfoggio di durezza con le quali cerca di mostrare una vitalità ed una "forza" che non
può
possedere se non come simulazione.
Stato-partito armato: una guerra inutile
Quello che non è possibile rifiutarsi di capire è come, pur con ben diverse intenzioni e
motivazioni, sia il potere
ufficiale sia i militanti della lotta armata che si richiamano alla concezione leninista della rivoluzione agiscono
in oggettivo concorso tra di loro per progressivamente drammatizzare lo spettacolo di una "lotta di classe" fittizia,
simulacro sostitutivo della vera contrapposizione sociale ed idonea a paralizzare il potenziale sviluppo di
un'autentica alternativa rivoluzionaria. È necessario, secondo me, rendersi conto che, anche se cruento e
tragico
l'attuale scontro che oppone tra loro i leninisti del partito armato e l'apparato repressivo dello Stato
è che una
guerra inutile in cui ogni azione dell'una e dell'altra parte finisce con il contribuire alla marcia in avanti di quella
nuova classe dominante da cui non può che venir realizzata la più mostruosa forma di dominazione
totalitaria ed
assoluta che mai il genere umano abbia conosciuto. Mai come oggi si pone con drammatica urgenza per l'intera
umanità la necessità di avviarsi verso forme di società fondate su principi opposti a quelli
di autorità e di gerarchia
sui quali si sono finora erette tutte le forme di convivenza umana storicamente conosciute. Da parte del
movimento anarchico è poi necessario evitare nel modo più assoluto di lasciarsi invischiare nel gioco
di false contrapposizioni e di una fittizia "solidarietà di classe" di chi conduce una lotta che non è
la nostra,
finendo per cadere nella trappola di pseudo-scelte di campo del tutto ambigue e di fatto suicide. L'arrogante "aut
aut", ipocrita e insignificante, avanzato al tempo del rapimento di Moro "o con lo Stato o con le B.R."
non
riguarda noi, per la semplice ragione che non possiamo essere che contro l'uno e contro
le altre.
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