Rivista Anarchica Online
Potere e maraviglia
di R. Brosio
Ai tempi dell'invasione russa in Cecoslovacchia, avevo un collega comunista, allineato, ma con qualche
velleità
di eterodossia intellettuale, che restò assai turbato dal modo con cui i carri armati posero fine alla "primavera
di
Praga". Un giorno, commentando l'avvenimento nel suo linguaggio un po' snob di persona colta, mi diceva che
era stato per lui una "maraviglia". Il termine intendeva alludere non solo alla sorpresa per un fatto inatteso, ma
anche all'indignazione, allo scandalo, che, proprio perché non previsto, il fatto medesimo suscitava. Non
riusciva
a capacitarsi che un paese "socialista" potesse aggredirene un altro, così brutalmente e senza complimenti.
E per
questo, soprattutto, si adirava, quasi rimproverasse all'U.R.S.S. di avergli distrutto le ingenui illusioni in cui si
cullava. Non vedo quel tale da diverso tempo, e non so quali siano, oggi, le sue impressioni sull'invasione
dell'Afghanistan,
di fronte a questo ennesimo esempio di un realpolitic sovietica, al tragico ripetersi del rituale di queste
occasioni:
la sostituzione del governo sgradito con uno di sicura lealtà, l'invasione presentata come solidarietà
per uno stato
amico, e poi il napalm, lo sterminio, la repressione. Dubito, però, che continui a provare "maraviglia". Se,
come
allora il suo atteggiamento è sintonizzato sulla lunghezza d'onda della normalità statisticamente
intesa, starà
probabilmente osservando il minaccioso aggroviglirsi degli eventi, e si chiederà se, per caso, non stia
preparandosi
una terza guerra mondiale. Così come facciamo tutti, quando ci incontriamo in strada, al bar, in ufficio.
Preoccupati per la sorte del nostro "particulare" ma privi di reazione di fronte a ciò che rischia di
comprometterlo:
la violenza del potere. Non c'è più "maraviglia". Non perché le ingenui illusioni, in cui
si cullava un tempo il mio collega, siano state
superate dalla consapevolezza critica circa la reale natura dell'autorità degli stati. La violenza del potere non
è
più un imprevisto, non fa più scandalo. E messe in conto, come qualcosa a cui non è
possibile sottrarsi. Senza
ribellione. E se la Russia invade l'Afghanistan, poco conta che nella condanna confluisca (con voce ben più
stentorea che ai tempi di Praga) il nostro partito comunista, che, sentendo odore di governo, non perde occasione
per dimostrare il proprio atlantismo. Dietro le proteste ufficiali non c'è l'onda dell'indignazione popolare,
ma
l'inerzia di un'opinione pubblica esautorata della propria volontà di intervento, espropriata dalla propria
capacità
di "scandalizzarsi" allo spettacolo della perversità statale. Ma vi ricordate del Vietnam? Delle
manifestazioni, delle assemblee, dei sit-in di fronte alle ambasciate americane,
delle sassate alle finestre, dei tentativi di occupazione? Vi ricordate delle mobilitazioni immediate, dei cortei
decisi dalla sera alla mattina, dopo l'aggressione alla Cambogia, ai bei tempi di Nixon? Vi ricordate di come la
televisione fosse assai più parca di oggi, nel documentare le atrocità degli invasori e la diffusione
della resistenza,
e come ciò non impedisse né alla generalizzazione dell'odio anti-americano, né l'esplosione
delle sue
manifestazioni concrete? Vi ricordate di come una generazione intera, proprio intorno alla "maraviglia" che la
guerra vietnamita suscitava, abbia costruito buona parte del proprio universo politico (pacifismo, anticolonialismo,
ecc.), buono o cattivo che fosse? Non pretendiamo di vedere i giovanotti russi strappare pubblicamente le
cartoline-precetto (qual è il Canadà dove i renitenti sovietici possono rifugiarsi? La Siberia?). Ma,
almeno da noi,
dove le libertà "democratiche" garantiscono ancora, e forse per poco, qualche possibilità di dissenso,
sia pur
platonico, sia pure verbale, ci piacerebbe poter indovinare, tra la cenere della passività e del silenzio, le
faville
di una nuova presa di coscienza, l'indignazione, seppur platonica, sia pur verbale, di una rinascente
combattività
antistatale. Si potrebbe obiettare che non solo la "maraviglia" mosse gli animi ai tempi del Vietnam. C'era
anche la simpatia
per i Viet-Cong, per Ho-Chi-Min e, in generale, per il regime politico degli avversari degli invasori U.S.A.
(simpatia che gli anarchici non hanno mai condiviso e continuano, adesso, a non condividere). D'altronde, anche
il collega comunista che mi sta facendo da "spalla" in quest'articolo, corroborava il suo doloroso stupore per
l'intervento russo in Cecoslovacchia, con qualche ammirazione, con comprensione, o interesse, per Dubchek e
gli altri responsabili del "nuovo corso" praghese. (Ammirazione, comprensione, interesse, che nessun anarchico
si è mai sognato di avallare, al di là della condanna dell'aggressione). Ma, nel caso dell'Afghanistan,
chi sia
arrischia a provare simpatia (e a dichiararlo) per la guerriglia islamica che tenta di opporsi agli invasori sovietici?
Khomeini insegna (in particolare alla sinistra extra ed ex-extra-parlamentare) che bisogna andar cauti nello
"sponsorizzare" le cose dell'Islam, anche quando si presentano come rivoluzionarie e popolari. Per quanto
riguarda specificamente i ribelli afghani, poi, è noto (e quindi di difficile "sponsorizzazione") il fatto che
la loro
resistenza viene combattuta all'insegna di valori reazionari e mistici, del tipo di quelli prevalenti in Iran dopo la
fuga dello Scià. Come si può, dunque, entusiasmarsi di furore anti-russo, se manca rispetto per quelli
che contro
i russi combattano concretamente? D'accordo. Ma di elementi di "maraviglia" ce ne sono anche altri in questa
crisi afghana. Per esempio, d'improvviso
gli equilibri tra gli stati si sono rivelati fragili e instabili. Eppure, fino a ieri, ci avevano assicurato che tutto filava
per il meglio e che gli accordi, sempre più stretti, tra le varie potenze garantivano l'armonia mondiale. Certo
era
un'armonia "lottizzata" quella che veniva presentata, basata sulla divisione della terra in aree di influenza, sulla
reciproca accettazione dello status quo altrui, ma in fondo non si può pretendere troppo,
bisogna accontentarsi.
Certo, un'armonia interrotta ogni tanto da qualche crisi marginale, qualche genocidio qua e là, ma niente,
alla fin
fine, capace di intaccare i buoni rapporti tra Cina, U.R.S.S. e U.S.A.. Ora, invece, salta fuori che non è niente
vero. Salta fuori che l'avvicinamento tra Cina e U.S.A. non è stato una tessera del mosaico di pace, ma, al
contrario, è un elemento di disequilibrio perché suscita la gelosia dell'U.R.S.S., e anzi si rafforza
in funzione anti-sovietica. All'improvviso, i rapporti fra Stati Uniti e U.R.S.S. entrano in crisi ed anche la loro
volontà di disarmo,
visto che, alla prima avvisaglia di burrasca, saltano i trattati per la limitazione delle armi strategiche. Si torna a
parlare di "guerra fredda"; si ammette che l'U.R.S.S., nell'equilibrio attuale, ci sta un po' stretta e ha bisogna di
spazio, militare e politico. Si torna a parlare, seriamente, di terza conflitto mondiale, dopo che ci è stato detto
che era un evento impossibile. Tutto, in un paio d'anni. Nessuno si incazza per questo, nessuno si scandalizza
per l'ottimismo che ci è stato propinato e che d'improvviso
si rivela infondato, senza nemmeno il beneficio di qualche anno di preavviso, e si tramutata in pessimismo e
preoccupazione. E il petrolio? Esso è, adesso sappiamo, la vera "materia del contendere" di tutta la
questione.
Il bisogno di petrolio, la necessità di controllare le rotte della sua distribuzione, stimola l'aumento di
"litigiosità"
americana e sovietica e fomenta, nemmeno troppo nascostamente, lo scontro di interessi in Medio Oriente. Ma,
scusate, fino a ieri ci veniva detto che, una volta che avessimo accettato le centrali nucleari il petrolio non sarebbe
stato più un problema? Non abbiamo sempre sentito parlare del "bisogno di svincolarsi dal monopolio
arabo"?
Come mai, adesso, intorno al petrolio si annodano conflitti che potrebbero coinvolgere tutto il mondo?
Maraviglia? Maraviglia! Niente affatto. Certo, il timore della guerra serpeggia ma alle menzogne dei potenti, alle
loro "versioni" della verità, strumentali e mistificate, abbiamo fatto ormai l'abitudine. Ce le aspettiamo e non
ci
sorprendono. Ma la nostra indignazione ha proprio bisogno dello stupore, per prodursi? La violenza statale è
meno odiosa perché è diventata prevedibile? O siamo noi che, ormai, abbiamo accettato tutto?
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