Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 11 nr. 90
marzo 1981


Rivista Anarchica Online

Chi processa chi?
di Luciano Lanza

"Lo stato processa Valpreda. Processiamo lo stato". Questo slogan comparso su quasi tutti i muri d'Italia, riassume sinteticamente il senso della vasta campagna di mobilitazione che da oltre due mesi (cioè da quando è stato richiesto l'ergastolo per Pietro Valpreda) il movimento anarchico sta portando avanti con notevole successo, nonostante l'interessato silenzio dei mezzi di informazione. Con tempestività ed efficacia gli anarchici si sono subito mobilitati e in quasi tutte le zone d'Italia si sono svolte affollate assemblee indirizzate verso uno scopo preciso: processare lo stato.
Tentativo velleitario? Forse. Resta comunque il fatto estremamente positivo che noi anarchici stiamo facendo un processo allo stato proprio nel momento in cui i formatori e manipolatori dell'opinione pubblica fanno quadrato intorno allo stato presentandolo come l'unico garante della convivenza civile. Proprio in un momento come questo è nostro compito riappropriarci del diritto di giudicare lo stato, di rompere questa impunità. Processare lo stato per la strage di Piazza Fontana non significa solo processarlo per uno dei suoi tanti delitti, ma significa mettere in chiara luce un caso emblematico della criminalità del potere. Un'azione realmente rivoluzionaria, quindi, e che passa attraverso la riappropriazione del diritto di giudicare. Un diritto di cui il popolo è stato sempre espropriato perché i padroni hanno sempre considerato la giustizia come loro proprietà di classe così come la proprietà dei mezzi di produzione. Ma noi, così come non accettiamo quella proprietà, così non accettiamo che i padroni riservino per sé il diritto di giudicare.
In questa ottica negare la proprietà esclusiva di giudicare assume un senso più ampio perché significa anche negare la legittimazione che il potere dà a se stesso.
Questo itinerante processo che coinvolge grandi città e piccoli centri non ha però nulla in comune con quelli che si svolgono nelle aule dei tribunali né con quelle deliranti imitazioni approntate dalle avanguardie armate, e non è nemmeno un vero e proprio processo: è una metafora, perché il vero processo allo stato lo fa la società nel suo procedere contro lo stato. Questo metaforico processo è soprattutto un momento di conoscenza e di comprensione di quei fatti per fare in modo che la conoscenza contribuisca alla crescita di coscienza degli oppressi. Dire la verità sulla strage di Piazza Fontana significa quindi cogliere il senso intimo di un importante momento della nostra storia recente, di un momento che ha visto svilupparsi un forte movimento di rivolta extraistituzionale e di un contrattacco padronale e dello stato. Questo momento storico ha assunto una potenzialità rivoluzionaria perché con la strage di Piazza Fontana e con l'uccisione di Giuseppe Pinelli si è strappata per un attimo la maschera democratica delle istituzioni ed è stato messo a nudo il vero volto del potere. Spettacolo orribile. Uno spettacolo che ha fatto comprendere a molti che le regole del gioco democratico vengono rispettate dalla classe dominante solo se il suo dominio non viene messo pericolosamente in discussione.
Così i successi della campagna di controinformazione assunsero una potenzialità rivoluzionaria perché rivelarono che si trattava non tanto di un complotto fascista, quanto di una criminale trama di complicità, ricatti, connivenze ai vertici delle principali istituzioni dello stato. Proprio in quei giorni si aprì una frattura tra i cittadini e le istituzioni, una frattura che si approfondì con la liberazione di Valpreda e (è stato più volte rilevato) che segnò il punto più basso della credibilità dello stato. Una grossa sconfitta per lo stato. Una sconfitta che il potere ha cercato in ogni modo di far dimenticare.
Negli anni passati ricordare la strage di Piazza Fontana serviva ad impedire che su quei fatti scendesse il silenzio. Allora volevamo rafforzare la memoria nella coscienza collettiva perché il ricordo di quanto era accaduto era il ricordo di una sconfitta dello stato. Oggi quello stesso stato, mutati i rapporti di forza, mutato il clima politico, sociale, psicologico, non essendo riuscito a cancellare il ricordo di quell'infamia, vuole cambiarne il segno capovolgendone il significato. Infatti la richiesta di condanna di Valpreda è il tentativo di voler coinvolgere nuovamente il movimento rivoluzionario in un crimine che è solo dello stato. E anche se non si dovesse arrivare alla condanna di Valpreda, resta comunque chiaro il disegno di voler insinuare il sospetto, di voler rendere meno nitido il valore esemplare di quell'avvenimento.
Quindi la condanna di Valpreda non rappresenterebbe solo la condanna di un innocente, fatto in sé già gravissimo, ma, proprio per il suo valore emblematico, suonerebbe come condanna di tutto quel movimento che si riconobbe nella campagna contro la strage di stato. Una condanna, dunque, con un elevato contenuto politico. Una condanna che, se attuata, sanzionerebbe una grossa sconfitta del movimento rivoluzionario proprio nel momento in cui lo stato è al contrattacco e si rafforza non solo sul piano politico e poliziesco, ma anche sul piano culturale. Questo è l'attacco più subdolo e forse più pericoloso perché rischia di annullare quel vento nuovo che minava le basi stesse della riproduzione del potere. Rischia di soffocare quella rinata cultura antistatale che, dissacrando la sacralità dello stato, corodeva quello spazio ideologico che ha permesso allo stato di porsi come principio strutturante di tutta la realtà sociale.
Di fronte a questa controffensiva statalizzante il nostro processo itinerante assume un valore che va al di là della sua oggettiva limitatezza perché questo processo non è costituito da "cittadini onesti e indignati" che processano dei "cattivi uomini di stato", il nostro processo simbolicamente rappresenta la società che processa lo stato per rivendicare la sua separatezza, la sua alterità, la sua autonomia rispetto alle istituzioni che pretendono di rappresentarla.