Rivista Anarchica Online
Chi processa chi?
di Luciano Lanza
"Lo stato processa Valpreda. Processiamo lo stato". Questo slogan comparso su quasi tutti i muri
d'Italia, riassume sinteticamente il senso della vasta campagna di mobilitazione che da oltre due
mesi (cioè da quando è stato richiesto l'ergastolo per Pietro Valpreda) il movimento anarchico sta
portando avanti con notevole successo, nonostante l'interessato silenzio dei mezzi di
informazione. Con tempestività ed efficacia gli anarchici si sono subito mobilitati e in quasi tutte
le zone d'Italia si sono svolte affollate assemblee indirizzate verso uno scopo preciso: processare
lo stato. Tentativo velleitario? Forse. Resta comunque il fatto estremamente positivo che noi anarchici
stiamo facendo un processo allo stato proprio nel momento in cui i formatori e manipolatori
dell'opinione pubblica fanno quadrato intorno allo stato presentandolo come l'unico garante della
convivenza civile. Proprio in un momento come questo è nostro compito riappropriarci del diritto
di giudicare lo stato, di rompere questa impunità. Processare lo stato per la strage di Piazza
Fontana non significa solo processarlo per uno dei suoi tanti delitti, ma significa mettere in chiara
luce un caso emblematico della criminalità del potere. Un'azione realmente rivoluzionaria,
quindi, e che passa attraverso la riappropriazione del diritto di giudicare. Un diritto di cui il
popolo è stato sempre espropriato perché i padroni hanno sempre considerato la giustizia come
loro proprietà di classe così come la proprietà dei mezzi di produzione. Ma noi, così
come non
accettiamo quella proprietà, così non accettiamo che i padroni riservino per sé il diritto di
giudicare. In questa ottica negare la proprietà esclusiva di giudicare assume un senso più ampio
perché significa anche negare la legittimazione che il potere dà a se stesso. Questo itinerante
processo che coinvolge grandi città e piccoli centri non ha però nulla in comune
con quelli che si svolgono nelle aule dei tribunali né con quelle deliranti imitazioni approntate
dalle avanguardie armate, e non è nemmeno un vero e proprio processo: è una metafora,
perché il
vero processo allo stato lo fa la società nel suo procedere contro lo stato. Questo metaforico
processo è soprattutto un momento di conoscenza e di comprensione di quei fatti per fare in
modo che la conoscenza contribuisca alla crescita di coscienza degli oppressi. Dire la verità sulla
strage di Piazza Fontana significa quindi cogliere il senso intimo di un importante momento della
nostra storia recente, di un momento che ha visto svilupparsi un forte movimento di rivolta
extraistituzionale e di un contrattacco padronale e dello stato. Questo momento storico ha
assunto una potenzialità rivoluzionaria perché con la strage di Piazza Fontana e con l'uccisione di
Giuseppe Pinelli si è strappata per un attimo la maschera democratica delle istituzioni ed è stato
messo a nudo il vero volto del potere. Spettacolo orribile. Uno spettacolo che ha fatto
comprendere a molti che le regole del gioco democratico vengono rispettate dalla classe
dominante solo se il suo dominio non viene messo pericolosamente in discussione. Così i successi della
campagna di controinformazione assunsero una potenzialità rivoluzionaria
perché rivelarono che si trattava non tanto di un complotto fascista, quanto di una criminale
trama di complicità, ricatti, connivenze ai vertici delle principali istituzioni dello stato. Proprio in
quei giorni si aprì una frattura tra i cittadini e le istituzioni, una frattura che si approfondì con la
liberazione di Valpreda e (è stato più volte rilevato) che segnò il punto più basso
della credibilità
dello stato. Una grossa sconfitta per lo stato. Una sconfitta che il potere ha cercato in ogni modo
di far dimenticare. Negli anni passati ricordare la strage di Piazza Fontana serviva ad impedire che su quei fatti
scendesse il silenzio. Allora volevamo rafforzare la memoria nella coscienza collettiva perché il
ricordo di quanto era accaduto era il ricordo di una sconfitta dello stato. Oggi quello stesso stato,
mutati i rapporti di forza, mutato il clima politico, sociale, psicologico, non essendo riuscito a
cancellare il ricordo di quell'infamia, vuole cambiarne il segno capovolgendone il significato.
Infatti la richiesta di condanna di Valpreda è il tentativo di voler coinvolgere nuovamente il
movimento rivoluzionario in un crimine che è solo dello stato. E anche se non si dovesse arrivare
alla condanna di Valpreda, resta comunque chiaro il disegno di voler insinuare il sospetto, di
voler rendere meno nitido il valore esemplare di quell'avvenimento. Quindi la condanna di Valpreda non
rappresenterebbe solo la condanna di un innocente, fatto in
sé già gravissimo, ma, proprio per il suo valore emblematico, suonerebbe come condanna di tutto
quel movimento che si riconobbe nella campagna contro la strage di stato. Una condanna,
dunque, con un elevato contenuto politico. Una condanna che, se attuata, sanzionerebbe una
grossa sconfitta del movimento rivoluzionario proprio nel momento in cui lo stato è al
contrattacco e si rafforza non solo sul piano politico e poliziesco, ma anche sul piano culturale.
Questo è l'attacco più subdolo e forse più pericoloso perché rischia di annullare quel
vento nuovo
che minava le basi stesse della riproduzione del potere. Rischia di soffocare quella rinata cultura
antistatale che, dissacrando la sacralità dello stato, corodeva quello spazio ideologico che ha
permesso allo stato di porsi come principio strutturante di tutta la realtà sociale. Di fronte a questa
controffensiva statalizzante il nostro processo itinerante assume un valore che
va al di là della sua oggettiva limitatezza perché questo processo non è costituito da
"cittadini
onesti e indignati" che processano dei "cattivi uomini di stato", il nostro processo simbolicamente
rappresenta la società che processa lo stato per rivendicare la sua separatezza, la sua alterità, la
sua autonomia rispetto alle istituzioni che pretendono di rappresentarla.
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