Rivista Anarchica Online
Giù la testa
di Paolo Finzi
Il discreto successo che sta ottenendo la raccolta di firme promossa dal MSI per la dichiarazione
dello "stato di guerra" interno contro il terrorismo e la conseguente applicazione del codice
militare di guerra (pena di morte compresa) merita qualche considerazione. Sorprende
innanzitutto la "sorpresa" mostrata da numerosi commentatori politici, quando già da anni i
sondaggi d'opinione (che pur qualche valore ogni tanto ce l'hanno) segnalano un'adesione
popolare sempre più consistente al ripristino della pena di morte e in genere all'inasprimento
della politica repressiva. I missini, dunque, con la loro clamorosa iniziativa non hanno fatto altro
che sfruttare politicamente un sentimento ed un'opinione sempre più diffusi tra la gente -
riuscendo a raccogliere consensi ben al di là della loro area di estrema destra. Se poi si considera
che molti potenziali firmatari della petizione missina hanno rinunciato a farlo solo perché avversi
al MSI e alla sua incancellabile matrice neo-fascista, il discreto successo ottenuto dalla petizione
missina non appare che la parte emergente di un iceberg forcaiolo di immense dimensioni. Nonostante il loro
attivismo in materia, comunque, è impossibile attribuire ai missini la
responsabilità di questa ondata restauratrice: l'area di influenza dei seguaci di Almirante e degli
orfani di Mussolini è tutto sommato limitata. In ambiti ben più vasti vanno ricercate le
responsabilità che stanno a monte del diffuso bisogno di "legge e ordine" che si respira ormai
dappertutto, in quantità sempre più asfissiante, sui tram, nelle fabbriche, negli uffici. Tra le cause
che negli ultimi anni hanno drammaticamente accelerato questo riflusso conservatore - tanto più
impressionante se paragonato al clima degli anni successivi al '68 - vi è certamente l'elevarsi del
"livello di scontro" tra le formazioni lottarmatiste e l'apparato repressivo dello Stato. Com'era
prevedibile, e come d'altra parte le Brigate Rosse esplicitamente si proponevano, le azioni dei
lottarmatisti hanno provocato una progressiva restrizione degli spazi di libertà: non ci riferiamo
solo agli spazi "fisici" e legali (quelli, per esempio, che si stanno chiudendo con l'arresto e la
criminalizzazione degli avvocati difensori più combattivi), quanto soprattutto alla possibilità di
operare con efficacia sul terreno sociale, conservando ed anzi allargando l'area di consensi e della
partecipazione attiva degli sfruttati. La strategia della lotta armata, se può vantarsi (si fa per dire)
di aver "costretto" lo Stato a mostrare un po' più palesemente la sua intima natura repressiva, ha
contribuito in maniera decisiva al rafforzamento della sua immagine positiva presso la gente.
Con un'intelligente "gestione" del fenomeno terroristico, infatti, lo Stato ha proceduto sulla via
della "germanizzazione" potendo contare sul crescente consenso - o perlomeno sulla crescente
acquiescenza - proprio di quegli sfruttati che, secondo il progetto iniziale dei lottarmatisti, gli si
sarebbero dovuti rivoltare contro. Con una pratica strategicamente basata sulla violenza e
sull'assassinio le varie organizzazioni lottarmatiste hanno infatti legittimato la martellante
campagna propagandistica statale tendente ad accreditare l'immagine violenta e criminale
dell'intero movimento rivoluzionario: non a caso, infatti, i mass-media hanno dato il massimo
risalto possibile allo "spettacolo" della lotta armata e della sua repressione. Con finalità solo
apparentemente opposte, i lottarmatisti e lo Stato hanno enfatizzato tutti gli
aspetti dello scontro spettacolare che li vede militarmente opposti, cercando entrambi di sottacere
il comune interesse ad apparire gli unici protagonisti della lotta sociale. Lo Stato, presentandosi
nella sua veste "etica" di garante della civile convivenza contro la barbarie, tende a presentare
chiunque gli si opponga quale fiancheggiatore della lotta armata; le organizzazioni lottarmatiste,
specularmente, cercano di imporre l'immagine di sé quali uniche nemiche dell'attuale stato di
cose, considerando complice dello Stato chi si opponga alla loro strategia. Gli spazi per una
militanza rivoluzionaria che rifiuti sia di stringersi attorno alle istituzioni sia di fungere da
sostegno al folle progetto lottarmatista si sono sempre più ristretti: chi si rifiuta di tifare per gli
uni o per gli altri ha la netta sensazione di esser tagliato fuori, peggio ancora di esser impotente.
Un esempio significativo ci viene dalle carceri, dove più dura è la repressione statale e più
massiccia l'influenza politica dei brigatisti: se partecipi ad una rivolta sei qualificato come
"brigatista" dallo Stato e dai suoi mass-media, e di fatto fungi da "compagno di strada" (alias,
utile idiota) per le B.R. che impongono la loro leadership; se invece non vi partecipi, i
lottarmatisti ti qualificano "collaborazionista" e lo Stato ha buon gioco a contrapporti a quei
"rivoluzionari" della lotta armata. Intanto la gente, "drogata" di terrorismo e di anti-terrorismo,
tra i due contendenti sceglie quello che - grazie al controllo dei mass-media (e quindi dei
cervelli) - riesce a presentarsi con un volto migliore, con un progetto più umano, senza proclami
di morte. E, nel scegliere lo Stato, si mostra remissiva di fronte alle stangate, alle ingiustizie, allo
sfruttamento: nel frattempo, placata la conflittualità sociale, si rafforzano le destre, si riparla di
pena di morte. Se Almirante può oggi rifarsi avanti, bisogna ringraziare anche le forze dell'arco
costituzionale
che tutte unite (salvo poi scannarsi per spartirsi la torta del potere) difendono l'attuale regime
sociale, che noi anarchici consideriamo la causa prima delle ingiustizie, del disordine, della
violenza e della criminalità. Ma non bisogna scordarsi di ringraziare anche i lottarmatisti, che
applicando la pena di morte come arma strategica - anzi addirittura privilegiandola quale
"massimo livello di scontro" - hanno contribuito a far sì che la gente la consideri una cosa tutto
sommato normale. A tutti loro Almirante deve dire grazie.
|