Rivista Anarchica Online
Carceri, bierre, lotta armata, ecc.
di Roberto Ambrosoli
Come a suo tempo il rapimento Sossi, e in seguito il rapimento Moro, anche il rapimento D'Urso
ha funzionato, a molti livelli, come analizzatore della nostra classe dirigente e dei suoi modi di
gestire il potere. Si pensi, tanto per fare un unico esempio, alla richiesta di black out delle notizie
sul terrorismo, che ha rivelato (una volta di più) quanto manipolata e manipolabile sia la stampa,
lasciando intravvedere per un attimo quale funzione lo stato intenda attribuire all'"informazione",
nell'immediato futuro. Il rapimento D'Urso, però, assai più efficacemente degli altri, ha
funzionato anche come
analizzatore delle Brigate Rosse, cosa, questa, di non modesto interesse, sia per l'esiguità dei dati
normalmente disponibili al riguardo, sia per la peculiarità del momento, che vede il progetto
lottarmatista obiettivamente scosso dall'efficienza repressiva del contrattacco statale. Per la prima
volta, le BR hanno sentito il bisogno di "esprimersi", in modo diffuso ed esauriente, attraverso un
canale capace di garantire una risonanza ben maggiore dei ciclostilati lasciati nelle cabine
telefoniche, regolarmente censurati e misconosciuti ai più. Ci riferiamo, è chiaro, all'intervista
pubblicata dall'Espresso insieme all'interrogatorio di Giovanni D'Urso, col seguito delle note
disavventure giudiziarie. Già in questo bisogno di "pubblicità" si può leggere qualcosa,
tenendo
presente che, fino a questo momento, le BR, nella loro logica di lotta esclusivamente militare,
avevano dimostrato un sommo disprezzo per la propaganda verbale: c'è l'implicita ammissione
della necessità di farsi conoscere, di motivare meglio la propria esistenza, e quindi l'implicita
ammissione di una situazione di isolamento, di difficoltà. Il che è confermato, al di là del
linguaggio trionfalistico, da "bollettino di guerra", dai contenuti del documento, nel quale si nota
lo sforzo di ricostruire una immagine di efficienza delle BR, di indurre nel lettore l'idea di una
continuità d'azione, autonoma e indipendente dagli attacchi del nemico. La classica "coda di
paglia". Ed anche la "grazia" della vita, concessa a D'Urso a conclusione dell'operazione,
nonostante il potere non abbia accolto, se non parzialmente e in modo ambiguo, le richieste
avanzate, fa ritenere che le BR non abbiano voluto compromettere con un'esecuzione capitale le
possibilità di un qualche consenso, di cui, evidentemente, hanno deciso di tenere conto. Insomma, la
punta del lottarmatismo nostrano ha coscienza del vuoto sempre più ampio che si va
facendo intorno, e si preoccupa di colmarlo. Ma come? Anche qui, il caso D'Urso è stato
illuminante. Sia per il ruolo ricoperto dal rapito nell'ordinamento del sistema carcerario, sia per la
natura del "riscatto" richiesto, tutto volto ad attirare l'attenzione sulle galere, speciali e no, e sulle
lotte che vi si svolgono, sia per il collegamento logistico del rapimento con alcuni episodi
specifici di queste lotte, è risultata evidente l'intenzione delle BR di utilizzare il problema del
carcere come trampolino per la propria riscossa. Ciò è leggibile abbastanza chiaramente anche tra
le righe della famosa intervista. È probabile che a favore di questa scelta abbia giocato, oltre alla
consapevolezza di
egemonizzare (brutalmente, come sappiamo) le lotte del "proletariato prigioniero", proprio la
speranza di poter ramazzare quei consensi di cui si diceva prima, sull'onda dell'indignazione e
dello sgomento che le condizioni d'esistenza dei reclusi potrebbero provocare nella coscienza di
chi è fuori. Il caso D'Urso ha, infatti, sia pur per brevissimo tempo, aperto uno spiraglio pubblico
sull'abominio delle carceri speciali, mettendolo sotto gli occhi di tutti, non solo dei pochi "addetti
ai lavori" che normalmente se ne occupano. Abbiamo visto le BR farsi interpreti (a modo loro) di
tematiche (le torture, la distruzione della personalità) che in altra epoca loro avrebbero definito
"garantiste" e "da partito radicale", ma non è strano se, come pensiamo, esse sono
strumentalmente finalizzate alla ricostruzione di un'area di simpatizzanti, che ha bisogno di
essere emotivamente stimolata. Tutta la manovra, comunque, è stata certamente diretta al
consolidamento dell'egemonia nelle lotte interne, presentando le BR come principale punto di
riferimento della protesta carceraria. Ciò dimostra una volta di più che l'interesse strategico dei
brigatisti si è spostato sul carcere. Anche senza conoscere i dettagli programmatici di tale "nuovo corso",
la miopia del progetto
appare ugualmente evidente. Per la sua natura separata, per il suo istituzionale isolamento, per la
sua "extraterritorialità", il carcere è un luogo ben poco adatto per funzionare come centro di
diffusione della lotta armata. Al suo interno è, sì, possibile registrare una volontà di lotta
decisa,
ma tale "livello più elevato di scontro" non è necessariamente sintomatico dell'esistenza di una
simile volontà all'esterno, perché è legato alla caratteristica di eccezionalità della
condizione del
carcerato. Per tale motivo, non è automaticamente "esportabile", senza il supporto di convenienti
motivazioni ideologiche, né tali motivazioni possono essere rappresentate dalla necessità della
lotta armata, cioè dallo scontro medesimo, che è (o dovrebbe essere) un mezzo e non un
fine. Aver privilegiato questo terreno per il proprio intervento, da parte delle BR, indica a quale livello
di arretramento sia giunta, ormai, la lotta armata, costretta a ghettizzarsi là dove è ancora
possibile coltivare l'illusione della propria vitalità, sfuggendo le dolorose verifiche del mondo
esterno, per non dover rinunciare alla propria immagine di strategia vincente. E la già ricordata
brutalità con cui, per mantenere tale immagine, viene soffocata ogni altra componente del
movimento di opposizione carceraria (di ciò, sulle colonne della stampa anarchica, abbiamo
avuto più d'una convincente testimonianza) indica quanto antitetico sia, comunque, un simile
progetto a quello che a noi, come anarchici, più dovrebbe stare a cuore, quanto a lotte nelle
galere: una presa di coscienza della natura oppressiva, violenta, ingiusta, disumana, del potere e
dello stato. Una presa di coscienza di chi sta dentro e, soprattutto, di chi sta fuori, costretto a
vedere il rovescio della medaglia della pace e dell'ordine che gli vengono presentati come bene
supremo. Ma non sono certo le BR che intendono farsi carico di ciò: per loro il problema
carcerario è solo uno strumento attraverso cui sperano di riconquistare popolarità al loro
velleitario disegno di destabilizzazione militare. E proprio per questa dipendenza del problema
carcerario dalla lotta armata, per questa sottomissione alle esigenze di quella, succede che
qualunque lotta, qualunque conflitto all'interno del carcere, perde ogni possibilità di influenzare
con i suoi contenuti quello che succede all'esterno, perché i suoi contenuti non sono quelli
dell'uguaglianza e della libertà, ma quelli dell'egemonia delle BR e del loro progetto militare. In
questi contenuti, ormai, solo una ristrettissima area è disposta riconoscersi. Per dirla in altro
modo, il problema carcerario non potrà diventare veicolo di alcuna presa di coscienza libertaria,
finché sarà "inquinato" dalla strumentalizzazione lottarmatista. Al contrario, proprio giocando
sulla presenza maggioritaria di tale componente, lo stato potrà giustificare senza imbarazzo
l'esistenza delle galere e della loro micidiale funzione. Non possiamo certo pretendere che tali preoccupazioni
alberghino nell'animo dei militanti BR,
che ancor oggi, nel 1981, dichiarano di trovare i propri riferimenti ideologici nel marxleninismo
e nella rivoluzione culturale cinese (v. intervista Espresso). È chiaro anche, però, che la
situazione precedentemente descritta, se condanna al fallimento e alla ghettizzazione la lotta
armata, impone anche un coraggioso ripensamento, un'analisi critica del proprio operare, a tutti
quei compagni anarchici che oggi si occupano, con grande entusiasmo, del problema carcerario.
È un fatto che le lotte del "proletariato prigioniero" rappresentano, attualmente, per diversi gruppi
anarchici, l'unico argomento cui dedicare la propria attenzione e la propria attività. E questo, è
doveroso dirlo, senza che tali gruppi, attraverso le pubblicazioni "specializzate", mostrino di
sentire il bisogno di una qualsiasi riflessione sulle motivazioni strategiche di tali lotte, sui loro
promotori, sulla natura dei contenuti che esprimono. Senza che nessuno si soffermi a definire
esaurientemente qual è il loro interesse da un punto di vista libertario, come se non fossero fatte
segno di tentativi di strumentalizzazione, di gestione autoritaria, come se le pretese egemoniche
delle BR manco esistessero. Certo, le lotte del proletariato prigioniero sembrano essere l'ultima
spiaggia della conflittualità sociale, ma proprio per questo è necessario prendere le distanze dalle
altre forze che su questa stessa spiaggia lavorano per finalità che sono estranee e antitetiche.
Invece, su questo tema, gli esperti del "carcerario" sembrano tutti quanti quantomai reticenti.
Perché? Per fedeltà alla consegna di non spezzare il fronte del conflitto? In questo caso sarebbe
una fedeltà sospetta e mal riposta, che in diverse occasioni ha già dato agli anarchici crudeli
delusioni. Oppure, perché prendere le distanze dalle BR significherebbe anche prendere le
distanze dalla lotta armata e, più precisamente, dal progetto che tenta di procrastinarne la fine
attraverso le lotte nelle prigioni? Se così fosse, questi compagni si troverebbero a dover
condividere con i brigatisti le medesime responsabilità di autoritaria follia.
Comunque stiano le cose, è ragionevole pretendere una risposta onesta e inequivoca, a questi
interrogativi. Perché, nell'attuale situazione, il perdurare nell'ambiguità delle motivazioni e delle
scelte strategiche non solo significa, di fatto, quand'anche le intenzioni di fondo fossero le più
limpide possibili, lavorare per qualcosa che nulla ha a che vedere con la rivoluzione libertaria!
Significa anche (e questo non è meno grave di quello) rischiare di coinvolgere il movimento
anarchico nel crollo, ideologico, propagandistico, fisico, che sta seppellendo la sinistra
rivoluzionaria sotto lo strapotere dello stato. Mentre, dentro, i detenuti ribelli sputano sangue
sotto la repressione, fuori la gente va a firmare per la pena di morte, e plaude a Dalla Chiesa
salvatore delle libere istituzioni.
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