Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 11 nr. 90
marzo 1981


Rivista Anarchica Online

Carceri, bierre, lotta armata, ecc.
di Roberto Ambrosoli

Come a suo tempo il rapimento Sossi, e in seguito il rapimento Moro, anche il rapimento D'Urso ha funzionato, a molti livelli, come analizzatore della nostra classe dirigente e dei suoi modi di gestire il potere. Si pensi, tanto per fare un unico esempio, alla richiesta di black out delle notizie sul terrorismo, che ha rivelato (una volta di più) quanto manipolata e manipolabile sia la stampa, lasciando intravvedere per un attimo quale funzione lo stato intenda attribuire all'"informazione", nell'immediato futuro.
Il rapimento D'Urso, però, assai più efficacemente degli altri, ha funzionato anche come analizzatore delle Brigate Rosse, cosa, questa, di non modesto interesse, sia per l'esiguità dei dati normalmente disponibili al riguardo, sia per la peculiarità del momento, che vede il progetto lottarmatista obiettivamente scosso dall'efficienza repressiva del contrattacco statale. Per la prima volta, le BR hanno sentito il bisogno di "esprimersi", in modo diffuso ed esauriente, attraverso un canale capace di garantire una risonanza ben maggiore dei ciclostilati lasciati nelle cabine telefoniche, regolarmente censurati e misconosciuti ai più. Ci riferiamo, è chiaro, all'intervista pubblicata dall'Espresso insieme all'interrogatorio di Giovanni D'Urso, col seguito delle note disavventure giudiziarie. Già in questo bisogno di "pubblicità" si può leggere qualcosa, tenendo presente che, fino a questo momento, le BR, nella loro logica di lotta esclusivamente militare, avevano dimostrato un sommo disprezzo per la propaganda verbale: c'è l'implicita ammissione della necessità di farsi conoscere, di motivare meglio la propria esistenza, e quindi l'implicita ammissione di una situazione di isolamento, di difficoltà. Il che è confermato, al di là del linguaggio trionfalistico, da "bollettino di guerra", dai contenuti del documento, nel quale si nota lo sforzo di ricostruire una immagine di efficienza delle BR, di indurre nel lettore l'idea di una continuità d'azione, autonoma e indipendente dagli attacchi del nemico. La classica "coda di paglia". Ed anche la "grazia" della vita, concessa a D'Urso a conclusione dell'operazione, nonostante il potere non abbia accolto, se non parzialmente e in modo ambiguo, le richieste avanzate, fa ritenere che le BR non abbiano voluto compromettere con un'esecuzione capitale le possibilità di un qualche consenso, di cui, evidentemente, hanno deciso di tenere conto.
Insomma, la punta del lottarmatismo nostrano ha coscienza del vuoto sempre più ampio che si va facendo intorno, e si preoccupa di colmarlo. Ma come? Anche qui, il caso D'Urso è stato illuminante. Sia per il ruolo ricoperto dal rapito nell'ordinamento del sistema carcerario, sia per la natura del "riscatto" richiesto, tutto volto ad attirare l'attenzione sulle galere, speciali e no, e sulle lotte che vi si svolgono, sia per il collegamento logistico del rapimento con alcuni episodi specifici di queste lotte, è risultata evidente l'intenzione delle BR di utilizzare il problema del carcere come trampolino per la propria riscossa. Ciò è leggibile abbastanza chiaramente anche tra le righe della famosa intervista.
È probabile che a favore di questa scelta abbia giocato, oltre alla consapevolezza di egemonizzare (brutalmente, come sappiamo) le lotte del "proletariato prigioniero", proprio la speranza di poter ramazzare quei consensi di cui si diceva prima, sull'onda dell'indignazione e dello sgomento che le condizioni d'esistenza dei reclusi potrebbero provocare nella coscienza di chi è fuori. Il caso D'Urso ha, infatti, sia pur per brevissimo tempo, aperto uno spiraglio pubblico sull'abominio delle carceri speciali, mettendolo sotto gli occhi di tutti, non solo dei pochi "addetti ai lavori" che normalmente se ne occupano. Abbiamo visto le BR farsi interpreti (a modo loro) di tematiche (le torture, la distruzione della personalità) che in altra epoca loro avrebbero definito "garantiste" e "da partito radicale", ma non è strano se, come pensiamo, esse sono strumentalmente finalizzate alla ricostruzione di un'area di simpatizzanti, che ha bisogno di essere emotivamente stimolata. Tutta la manovra, comunque, è stata certamente diretta al consolidamento dell'egemonia nelle lotte interne, presentando le BR come principale punto di riferimento della protesta carceraria. Ciò dimostra una volta di più che l'interesse strategico dei brigatisti si è spostato sul carcere.
Anche senza conoscere i dettagli programmatici di tale "nuovo corso", la miopia del progetto appare ugualmente evidente. Per la sua natura separata, per il suo istituzionale isolamento, per la sua "extraterritorialità", il carcere è un luogo ben poco adatto per funzionare come centro di diffusione della lotta armata. Al suo interno è, sì, possibile registrare una volontà di lotta decisa, ma tale "livello più elevato di scontro" non è necessariamente sintomatico dell'esistenza di una simile volontà all'esterno, perché è legato alla caratteristica di eccezionalità della condizione del carcerato. Per tale motivo, non è automaticamente "esportabile", senza il supporto di convenienti motivazioni ideologiche, né tali motivazioni possono essere rappresentate dalla necessità della lotta armata, cioè dallo scontro medesimo, che è (o dovrebbe essere) un mezzo e non un fine.
Aver privilegiato questo terreno per il proprio intervento, da parte delle BR, indica a quale livello di arretramento sia giunta, ormai, la lotta armata, costretta a ghettizzarsi là dove è ancora possibile coltivare l'illusione della propria vitalità, sfuggendo le dolorose verifiche del mondo esterno, per non dover rinunciare alla propria immagine di strategia vincente. E la già ricordata brutalità con cui, per mantenere tale immagine, viene soffocata ogni altra componente del movimento di opposizione carceraria (di ciò, sulle colonne della stampa anarchica, abbiamo avuto più d'una convincente testimonianza) indica quanto antitetico sia, comunque, un simile progetto a quello che a noi, come anarchici, più dovrebbe stare a cuore, quanto a lotte nelle galere: una presa di coscienza della natura oppressiva, violenta, ingiusta, disumana, del potere e dello stato. Una presa di coscienza di chi sta dentro e, soprattutto, di chi sta fuori, costretto a vedere il rovescio della medaglia della pace e dell'ordine che gli vengono presentati come bene supremo. Ma non sono certo le BR che intendono farsi carico di ciò: per loro il problema carcerario è solo uno strumento attraverso cui sperano di riconquistare popolarità al loro velleitario disegno di destabilizzazione militare. E proprio per questa dipendenza del problema carcerario dalla lotta armata, per questa sottomissione alle esigenze di quella, succede che qualunque lotta, qualunque conflitto all'interno del carcere, perde ogni possibilità di influenzare con i suoi contenuti quello che succede all'esterno, perché i suoi contenuti non sono quelli dell'uguaglianza e della libertà, ma quelli dell'egemonia delle BR e del loro progetto militare. In questi contenuti, ormai, solo una ristrettissima area è disposta riconoscersi. Per dirla in altro modo, il problema carcerario non potrà diventare veicolo di alcuna presa di coscienza libertaria, finché sarà "inquinato" dalla strumentalizzazione lottarmatista. Al contrario, proprio giocando sulla presenza maggioritaria di tale componente, lo stato potrà giustificare senza imbarazzo l'esistenza delle galere e della loro micidiale funzione.
Non possiamo certo pretendere che tali preoccupazioni alberghino nell'animo dei militanti BR, che ancor oggi, nel 1981, dichiarano di trovare i propri riferimenti ideologici nel marxleninismo e nella rivoluzione culturale cinese (v. intervista Espresso). È chiaro anche, però, che la situazione precedentemente descritta, se condanna al fallimento e alla ghettizzazione la lotta armata, impone anche un coraggioso ripensamento, un'analisi critica del proprio operare, a tutti quei compagni anarchici che oggi si occupano, con grande entusiasmo, del problema carcerario. È un fatto che le lotte del "proletariato prigioniero" rappresentano, attualmente, per diversi gruppi anarchici, l'unico argomento cui dedicare la propria attenzione e la propria attività. E questo, è doveroso dirlo, senza che tali gruppi, attraverso le pubblicazioni "specializzate", mostrino di sentire il bisogno di una qualsiasi riflessione sulle motivazioni strategiche di tali lotte, sui loro promotori, sulla natura dei contenuti che esprimono. Senza che nessuno si soffermi a definire esaurientemente qual è il loro interesse da un punto di vista libertario, come se non fossero fatte segno di tentativi di strumentalizzazione, di gestione autoritaria, come se le pretese egemoniche delle BR manco esistessero. Certo, le lotte del proletariato prigioniero sembrano essere l'ultima spiaggia della conflittualità sociale, ma proprio per questo è necessario prendere le distanze dalle altre forze che su questa stessa spiaggia lavorano per finalità che sono estranee e antitetiche. Invece, su questo tema, gli esperti del "carcerario" sembrano tutti quanti quantomai reticenti. Perché? Per fedeltà alla consegna di non spezzare il fronte del conflitto? In questo caso sarebbe una fedeltà sospetta e mal riposta, che in diverse occasioni ha già dato agli anarchici crudeli delusioni. Oppure, perché prendere le distanze dalle BR significherebbe anche prendere le distanze dalla lotta armata e, più precisamente, dal progetto che tenta di procrastinarne la fine attraverso le lotte nelle prigioni? Se così fosse, questi compagni si troverebbero a dover condividere con i brigatisti le medesime responsabilità di autoritaria follia.

Comunque stiano le cose, è ragionevole pretendere una risposta onesta e inequivoca, a questi interrogativi. Perché, nell'attuale situazione, il perdurare nell'ambiguità delle motivazioni e delle scelte strategiche non solo significa, di fatto, quand'anche le intenzioni di fondo fossero le più limpide possibili, lavorare per qualcosa che nulla ha a che vedere con la rivoluzione libertaria! Significa anche (e questo non è meno grave di quello) rischiare di coinvolgere il movimento anarchico nel crollo, ideologico, propagandistico, fisico, che sta seppellendo la sinistra rivoluzionaria sotto lo strapotere dello stato. Mentre, dentro, i detenuti ribelli sputano sangue sotto la repressione, fuori la gente va a firmare per la pena di morte, e plaude a Dalla Chiesa salvatore delle libere istituzioni.