Rivista Anarchica Online
Le lotte abortite
di Maria Teresa Romiti
"D'ora in poi decido io - anticoncezionali per non abortire - aborto libero per non morire";
"Aborto libero, gratuito e assistito"; solo qualche anno fa questi erano alcuni degli slogan su cui
si riunivano le donne, non solo le "femministe arrabbiate", ma anche le casalinghe, le donne che
di politica non parlavano mai, che però avevano vissuto sulla propria pelle la dilaniante
contraddizione tra un'educazione cattolica, il ruolo materno obbligato e la necessità di abortire,
spesso in condizioni a dir poco rischiose. Oggi c'è solo il silenzio a fare da cornice al problema
dell'aborto, rimesso sul tappeto, si fa per dire, da due referendum. L'aborto è stato il problema centrale
intorno al quale si è riunito il movimento femminista e non
solo quello. È stata la partenza verso altri temi che hanno coinvolto molte donne e uomini. È
parlando di aborto, cercando di riappropriarsi del proprio corpo e della propria salute che le
donne si sono rese conto di alcune contraddizioni che vivevano, del ruolo in cui erano costrette.
Parlare di aborto voleva dire parlare di contraccezione, di maternità cosciente, di sessualità
più
libera, meno frustrante, di educazione libertaria. Era capire che anche sul corpo delle donne
passava il potere, l'autorità, cercare di far saltare le contraddizioni che venivano alla luce. Era
scoprire la scienza come mito e potere, cercare di socializzare le proprie conoscenze.
Naturalmente non voglio mitizzare, non intendo dire che tutto fosse bello o perfetto, anzi le
esperienze erano diverse e contraddittorie, spesso settarie e in tutte si accumulavano diversi
errori. Ciò che voglio ribadire è l'importanza che risiede nelle esperienze stesse, nel fatto che
alcune persone sentivano il bisogno di agire direttamente, di non delegare, di discutere insieme
ciò che via via facevano. Nascevano con queste esperienze, con tutti i loro errori, esigenze di
libertà e autogestione. Donne che non avevano deciso nulla fino ad allora cercavano di capire,
toglievano al potere medico il suo alone magico per riappropriarsi della gestione della propria
salute, per non delegare ad altri la loro vita. Imparavano a socializzare le proprie conoscenze ed
esperienze, scoprivano la dimensione del collettivo. Per quanto queste esperienze oggi siano, per la maggior
parte, fallite, in esse c'era ansia di libertà,
autogestione, ribellione spontanea. Oggi cosa resta di quelle esperienze: dei consultori
autogestiti, delle pratiche di Self-help, del C.I.S.A., degli aborti con il metodo Karman? Nulla,
solo il silenzio e la risposta ad una legge che va avanti zoppicando, attraverso strutture fatiscenti.
L'operazione viene vissuta nelle corsie degli ospedali, ridelegando al medico la decisione sui
tempi e metodi, mentre la donna ritornata oggetto, spesso umiliata dai tecnici, perde la possibilità
di decidere in prima persona, perde il diritto di avere la solidarietà, l'aiuto degli altri in un
momento difficile della propria vita. Questa è la parte importante di una storia che sa quasi di
mistero; come mai un movimento spontaneo, vivo, che si era coagulato intorno ad un problema
coinvolgente sia riuscito a morire di morte naturale in pochi anni. Se in parte il problema va inserito in un'analisi
più generale, in un cambiamento del clima sociale
che ha molteplici cause, nondimeno la morte di tutte le esperienze nate con l'aborto ha, secondo
me, una sua causa primaria. Le forze di chi in quel periodo si è mosso sul problema dell'aborto,
sono state deviate verso il referendum, verso la richiesta istituzionale. Invece di continuare
pratiche difficoltose e contraddittorie, le donne si sono buttate sulla lotta istituzionale: richiedere
il referendum o una legge sull'aborto. Cancellato il referendum, ottenuta la legge ci si è
considerate soddisfatte o al massimo si è continuata la lotta per cambiare la legge, non si
è
cercato di continuare le proprie esperienze. La lotta istituzionale può essere eclatante, certamente
è più facile da gestire, non fa continuamente esplodere contraddizioni, non richiede, a differenza
dell'autogestione, di risolvere problemi e difficoltà sempre nuove. Ecco perché, per forza di cose,
la lotta istituzionale uccide le esperienze autogestite: le forze che si muovevano in queste
esperienze vengono riassorbite nel letto istituzionale eliminando le problematiche, la cultura che
stava nascendo da quelle esperienze; morte lenta per auto-soffocamento che non fa storia e non
crea problemi.
Oggi, dove, tanto per gradire, i referendum sull'aborto sono due, noi non possiamo che ribadire la
nostra estraneità a questa lotta, non perché siamo fautori del tanto peggio, tanto meglio o
perché
non c'importi della legge, (anche se siamo contro lo Stato i conti con le leggi dobbiamo farli tutti
i giorni, non fosse che per opporci) ma perché siamo profondamente convinti che questo tipo di
lotte, puntando sulla forza spettacolare delle istituzioni e sul coinvolgimento acritico e emotivo è
in definitiva funzionale allo Stato. Finché la gente sprecherà le proprie forze per poter ottenere il
diritto di dire sì o no su una scheda, l'istituzione sarà salva. Se è vero che non è una
legge che
elimina o meno una pratica, è vero anche che tutto il tessuto nato insieme dalla ricerca dei centri
autogestiti è morto. Era quella la parte più importante: la decisione di non delegare ad un tecnico
la propria salute, di agire in prima persona, di cercare la strada da soli tra mille difficoltà. Questa
area che faceva esperienza autogestita, che incideva nel tessuto dell'istituzione era quella che
andava chiusa, possibilmente cancellata dalla memoria collettiva; perché questa era il vero
pericolo con la sua spinta autogestionaria, la sua carica di libertà.
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