Rivista Anarchica Online
Annotazioni cliniche: agitato, aggressivo, tranquillo, inquieto
di Pasquale Masciotra
Anche in campo sanitario e psichiatrico, il decentramento va di moda: la riforma
sanitaria (la
famosa legge 833) l'ha istituzionalizzato, creando le Unità sanitarie locali. Anche l'assistenza
psichiatrica, una volta cancellati i vecchi manicomi, viene oggi effettuata in maniera decentrata:
ma si tratta proprio di un progresso sostanziale? È davvero finita un'era, quella della
repressione della "follia" mascherata come cura? Nella relazione presentata ad un recente
convegno del settore psichiatrico, il compagno Pasquale Masciotra - operatore dei servizi
psichiatrici provinciali a Isernia - fornisce una risposta negativa. A margine della sua relazione
abbiamo posto alcune citazioni tratte da varie opere di Ronald
Laing, il "padre" dell'antipsichiatria.
Forse è utile partire dall'analisi di uno schema terapeutico (psicofarmacologico e fisico) al quale
è stato sottoposto un paziente diagnosticato come "schizofrenico" e ricoverato dal 1961 al 1975
nell'Ospedale Psichiatrico di Trieste. Dalle cartelle cliniche risulta che al suddetto paziente,
durante i 15 anni del suo ricovero, sono stati somministrati complessivamente: 60 comi
insulinici; 30 applicazioni di elettroshock in 3 cicli; 162.254 mg di Aloperidolo (Serenase);
147.250 mg di Clorpromazine (Largactil); 106.800 mg di Tioridazina (Melleril); 13.015 mg di
Clopentixolo (Sordinol). Si potrebbe ritenere che il suddetto schema terapeutico sia un caso
eccezionale, ma chiunque abbia esperienza diretta o indiretta della pratica manicomiale potrà
confermare che esso è, per entità e durata, abbastanza rappresentativo del tipo di terapie usate
nelle istituzioni manicomiali. Il primo elemento da considerare è il fatto che lo stesso
prolungamento per tanti anni di una terapia sta a testimoniare il mancato raggiungimento degli
effetti terapeutici desiderati. Ed allora dobbiamo chiederci: a che scopo si è continuato per anni a
somministrare migliaia di milligrammi di neurolettici e decine di elettroshock e di comi insulinici
ad un paziente evidentemente insensibile a questi tipi di terapia? Una risposta ci viene fornita da
un più attento esame delle cartelle cliniche, correlando le annotazioni riportate sul diario clinico e
le relative prescrizioni terapeutiche: (vedi la scheda). A prescindere dalle stereotipie delle
annotazioni cliniche ("aggressivo", "agitato", "inquieto",
"tranquillo"), dalle quali nulla è possibile comprendere non solo dei problemi reali del paziente,
ma anche della sua stessa psicopatologia, appare subito evidente come ad ogni episodio di
comportamento violento o di semplice "inquietudine" abbia puntualmente fatto seguito un
drastico aumento del già generoso dosaggio di psicofarmaci, talvolta associato ad elettroshock od
a misure di contenzione. Essendo evidente che i provvedimenti terapeutici adottati non hanno
avuto efficacia nemmeno per una sufficiente e duratura sedazione del paziente, dobbiamo
concludere che il "senso" della suddetta terapia debba essere cercato solo all'interno di una logica
punitiva. Tale logica punitiva oltre ad essere tutt'altro che terapeutica, ha impedito anche di
comprendere che il comportamento violento del paziente avrebbe potuto rappresentare non tanto
una "manifestazione di malattia", quanto una sua inevitabile risposta alla violenza istituzionale
somministratagli quotidianamente con gli psicofarmaci, gli elettroshock, i comi insulinici,
l'isolamento, la contenzione e con la stessa reclusione manicomiale. Non a caso un diverso
atteggiamento nei confronti del paziente, reso possibile dal processo di deistituzionalizzazione
dell'Ospedale Psichiatrico di Trieste, ne ha consentito non solo le dimissioni, ma anche la
sospensione graduale della terapia psicofarmacologica. L'uso degli psicofarmaci, anche quando non sia un vero
e proprio abuso come nel caso illustrato,
dovrebbe essere costantemente riportato all'interno della consapevolezza del fatto che a tutt'oggi
nessuno è riuscito a documentare in termini rigorosamente scientifici l'ipotesi che il disagio
psichico sia causato dall'alterazione di meccanismi neuro-fisiologici, biochimici o endocrino-metabolici, e che le
terapie fisiche e psicofarmacologiche siano in grado di correggere tale
alterazione. Pertanto gli psicofarmaci, quando anche abbiano una utilità d'impiego, hanno
un'azione - i cui meccanismi sono solo parzialmente noti - esclusivamente sintomatica. Se il
disagio psichico non è un mero insieme di sintomi, ma è una condizione di profonda sofferenza
legata alla crisi di equilibri individuali e collettivi, è evidente che ogni atteggiamento rispetto ad
esso non possa che partire dalla persona in crisi nella sua globalità, piuttosto che dal metabolismo
delle sue cellule nervose. Ritenere che la sofferenza psichica sia un semplice susseguirsi di
sintomi può compromettere irrimediabilmente la stessa possibilità di giungere ad una
comprensione adeguata del disagio psichico. A questo proposito è illuminante l'esperienza
condotta da dodici operatori psichiatrici americani che si sono volontariamente ricoverati in
altrettanti ospedali psichiatrici simulando esclusivamente all'atto del ricovero alcuni sintomi
psichiatrici. Durante la degenza i falsi pazienti cessarono ogni simulazione e si comportarono in
modo assolutamente sincero, al punto che gli stessi codegenti si resero conto della assenza in loro
di disturbi psichici. Nonostante ciò tutti i dodici falsi pazienti furono etichettati come "pazzi",
undici con la diagnosi di "schizofrenia" ed uno con la diagnosi di "psicosi maniaco-depressiva". Il modello
medico dominante ha messo a punto un metodo di intervento che si articola nel modo
seguente: anamnesi, esame obiettivo, ricerche strumentali, diagnosi, prognosi e terapia. Tale
metodo consiste essenzialmente nel trasformare processi dinamici complessi ed integrati (quali
sono tutti i fenomeni fisici, emozionali e mentali) in dati statistici, isolati dal loro contesto ed
arbitrariamente oggettivizzati rispetto alla soggettività che li sottende, cioè in sintomi.
L'atteggiamento del medico che si ispira al suddetto metodo è pertanto un atteggiamento
"reificante", che cioè tende a trasformare in "cose" fenomeni legati inestricabilmente all'"essere
uomini". È da questa operazione che derivano la definizione e la iscrizione di fenomeni umani
(trasformati in "sintomi-cose") all'interno dell'area della "normalità" e della "follia". Nel contesto
della follia che attualmente ci circonda - ha scritto lo psichiatra inglese R.D. Laing -, che
chiamiamo normalità, salute, libertà, tutti i nostri sistemi di riferimento sono destinati a restare
ambigui ed equivoci. Un uomo che preferisce la morte al comunismo è normale; ma uno che dice
di aver perduto la sua anima è matto. Un uomo che dice di essere lui stesso una macchina è, nel
gergo psichiatrico, "spersonalizzato". Un uomo che dice che i negri sono una razza inferiore
può ottenere stima e rispetto! ma uno che dice che la bianchezza della sua pelle è una forma di
cancro perde i diritti civili. Una ricoverata, una ragazzina di diciassette anni, mi disse una volta
di essere in preda al terrore perché aveva dentro di sé la bomba atomica. Questo è un delirio:
ma gli uomini di stato che vantano minacciosamente il possesso dell'arma finale sono di gran
lunga i più pericolosi ed i più estraniati dalla "realtà" di molti ai quali è stata
applicata
l'etichetta di "psicotico". Pur non intendendo sviluppare in questa sede una discussione su
"normalità" e "follia", si deve
sottolineare quanto siano in realtà arbitrarie tante "certezze" diagnostiche e terapeutiche. È
possibilissimo - scrive ancora Laing - avere una conoscenza completa di tutto ciò che è
noto
sull'incidenza ereditaria o familiare delle psicosi maniaco-depressive o della schizofrenia;
imparare a riconoscere facilmente le deformazioni schizoidi e i difetti schizofrenici dell'Io, oltre
a tutti i vari disturbi del pensiero, della memoria, della percezione, ecc.; insomma sapere
pressappoco tutto quello che si può sapere sulla psicopatologia della schizofrenia, cioè sulla
schizofrenia come malattia, senza per questo essere in grado di capire un solo schizofrenico.
Quei dati di conoscenza, infatti, sono in realtà tutti modo di non capirlo. Guardare ed ascoltare
un paziente e vedere in lui i "segni" della schizofrenia come "malattia", e guardarlo e ascoltarlo
semplicemente come essere umano, sono due cose radicalmente diverse (...). Da questo punto di
vista può essere più difficile capire uno psicotico, che sta qui con noi adesso, che non capire
l'autore di un geroglifico, morto migliaia di anni fa. Dunqu il problema di fondo della
"diagnosi/terapia" in campo psichiatrico è e rimane un problema di comprensione di uomini
e di
situazioni umane e di interazione in-con essi. Comprensione ed interazione rese possibili dalla
continuità ontologica fra i modi dell'esperienza umana, derivata da quella che Sartre definisce
"comprensione pre-ontologica", cioè dalla capacità originaria di ciascun essere umano di
comprendere la verità di un altro essere umano, di sperimentarla e di interagire con essa. Alla luce delle
suesposte considerazioni è possibile comprendere come la ricerca e la pratica di
alternative agli psicofarmaci abbia assunto, al di là delle impostazioni dottrinali delle singole
esperienze, un valore di rottura non solo con la tradizione organicistico-positivista della
psichiatria, ma anche con tutto il "sistema psichiatrico" pubblico e privato, così come si è
configurato nei manicomi, nelle cliniche private e negli studi privati dei libero-professionisti
dispensatori di psicofarmaci o di "tecniche terapeutiche" più o meno raffinate, ma sempre
incassatori di milioni sulla pelle di chi soffre. Una delle esperienze più note è quella delle
comunità anti-psichiatriche inglesi. Un primo
esperimento di anti-psichiatria iniziò nel 1962 in un padiglione, denominato "Villa 21", di un
ospedale psichiatrico inglese. Tale esperimento fu condotto per iniziativa dello psichiatra David
Cooper che ne riferì le modalità ed i contenuti nel suo libro "Psichiatria ed anti-psichiatria".
Sapevo per esperienza - scrive Cooper - che nei padiglioni psichiatrici tradizionali
predominavano l'alienazione, l'estraneamento e la violenza nascosta. I pazienti in tali padiglioni
si trovavano di fronte ad un massiccio rinforzo del processo di invalidazione iniziato prima del
loro ricovero. Scopo di questa iniziativa fu quello di avere un'unità con una struttura meno
ritualistica e meno rigida, dove i pazienti avrebbero potuto ritrovare se stessi mediante i
rapporti con gli altri e venire a patti con i loro conflitti con più successo, piuttosto di sbucare
facilmente nella stretta e stereotipata auto-definizione, che è fin troppo disponibile nei
padiglioni più convenzionali. Villa 21 fu organizzata a "Comunità terapeutica": vi furono
ospitati
contemporaneamente 15 giovani pazienti psicotici, quasi al loro primo ricovero, ed il personale
infermieristico fu costituito anch'esso da elementi giovani con minima anzianità di servizio nel
manicomio. Elementi qualificanti dell'esperienza furono: - il rifiuto di usare indiscriminatamente le terapie
psicofarmacologiche, limitandole solo a casi
eccezionali e comunque sempre dopo averne discusso con il paziente e dopo averne ottenuto il
consenso; - le riunioni quotidiane tenute da tutte le persone presenti a Villa 21, pazienti, medici ed
infermieri, in cui venivano discussi tutti i problemi relativi alla vita comunitaria ed individuale di
ciascuno; - il progressivo superamento dei ruoli ("malato", "medico", "infermiere") a favore di un recupero
della essenza umana di ciascuno, fino a sottoporre a critica le stesse categorie di "malattia" e di
"cura"; - la scoperta che ad una verifica più attenta e reale i concetti di "normalità" e "follia"
perdevano
quei confini che sembravano essere tanto netti e definiti, nella misura in cui fu sempre più
evidente che il "normale" ha tanta più difficoltà a comprendere il "folle", quanto più ha
paura
della propria "follia". L'esperienza di Villa 21 trovò un limite insormontabile nelle mura
del manicomio al cui interno
si era sviluppata. L'"esperimento" della unità - conclude Cooper - ha avuto un "risultato"
assai
certo ed una "conclusione" altrettanto certa. Il risultato è l'aver stabilito i limiti del mutamento
istituzionale e questi limiti sono davvero ben ristretti, persino in un manicomio progressista. La
conclusione è che, se tale unità dovrà svilupparsi ulteriormente, ciò dovrà
avvenire al di fuori
della istituzione psichiatrica la quale si estraniata anche fisicamente dalla società, matrice di
quei mondi famigliari dai quali i suoi problemi reali sorgono e nei quali si trovano le risposte
(...). In un libro scritto fra il 1965 ed il 1967 Laing aveva affermato: Invece dell'ospedale
psichiatrico,
sorta di officina di riparazione per guasti agli uomini, c'è bisogno di un luogo dove coloro che si
sono spinti più in là nel viaggio e, di conseguenza, può darsi siano più sperduti degli
psichiatri e
delle altre persone sane, possano trovare la via per proseguire oltre nello spazio e nel tempo
interiori, e per tornare indietro. Questa idea di uno "spazio adeguato" dove ciascuno fosse libero
di "attraversare la propria follia" senza dover subire la repressione violenta o mascherata della
società, della famiglia o degli ospedali, in qualche modo rappresenta la conseguenza diretta della
esperienza condotta da Cooper a Villa 21. In Inghilterra nel 1955 un gruppo di operatori
psichiatrici costituì la Philadelphia Association con lo scopo di creare dei luoghi come quello
descritto da Laing. Circa due mesi dopo ebbe inizio la esperienza di Kingsley Hall, un vecchio
edificio di tre piani dell'East End di Londra, che poteva ospitare contemporaneamente circa 14
persone. Dal 1965 al 1969 a Kingsley Hall hanno vissuto 113 persone (75 uomini e 38 donne) di
cui 70 erano state classificate in precedenza come pazienti psichiatrici e, di queste 39 erano state
ricoverate in ospedali psichiatrici. Kingsley Hall fu la prima di quelle strutture alternative a
quelle strutture tradizionali, create per permettere agli individui di riuscire ad essere, se lo
vogliono, profondamente diversi dai loro simili pazzi di normalità, di riuscire a gestire, da soli o
con l'aiuto di altri, questa diversità (la devianza mentale) e le contraddizioni che essa fa
inevitabilmente esplodere dentro e intorno a loro. Questa esperienza dimostrò come fosse
possibile una organizzazione comunitaria che consentisse il massimo di libertà individuale. Non
si deve ritenere che non esistessero regole comuni, ma ciascuna regola era stabilita con il
consenso di tutti, poteva essere modificata o revocata in qualunque momento e non era
obbligatoria per chi non la condividesse.Una delle caratteristiche di Kingsley Hall - ha riferito
uno dei suoi ospiti -, che distingue una situazione di libertà da una situazione di costrizione, è
che qui una persona può fare qualcosa e non deve adattare il suo comportamento al modello di
ciò che è ritenuto giusto o sbagliato da altri. È per questo che Kingsley Hall esiste -
ha riferito
un altro dei suoi ospiti -: un luogo, semplicemente, dove alcuni possono incontrare il proprio sé
a lungo dimenticato o distorto. È in questo ambiente che fu possibile lo sviluppo e la conclusione
di un'esperienza eccezionale quale fu quella di Mary Barnes, in passato diagnosticata come
"schizofrenica", che ebbe modo di regredire nel proprio "tempo/spazio" interno, fino a prima
della nascita, di ritrovare se stessa e di riemergere alla conclusione del proprio "viaggio". Nel
1970 si è conclusa la esperienza di Kingsley Hall e si è formata la Arbours Housing Association
che si è impegnata ad estendere quella esperienza, creando nuovi luoghi simili a Kingsley Hall. Un'altra
esperienza significativa è quella condotta negli U.S.A. da J.W. Perry. In uno studio a
"doppio cieco" su 103 pazienti psicotici "acuti" ospedalizzati, ad un gruppo furono somministrati
psicofarmaci (Tioridazina) ed un gruppo fu trattato senza farmaci. Si vide che il primo gruppo
presentò una reimmissione dei "sintomi" più rapida rispetto al secondo gruppo, ma nei tre anni
successivi si rilevò che il 72% dei pazienti del primo gruppo ebbero ricadute, mentre solo l'8%
dei pazienti del secondo gruppo ebbero nuove crisi. Inoltre si vide che mentre questi ultimi
avevano migliorato le proprie capacità psichiche, valutate secondo tests psicodiagnostici, i primi
non presentavano alcun miglioramento rispetto a tre anni prima. Sempre il dottor Perry, in
un'esperienza successiva condotta in un appartamento con 13 pazienti "psicotici acuti" trattati
senza psicofarmaci, notò che 11 superarono la loro crisi ed ebbero una totale regressione dei
"sintomi" in tre mesi. Tale esperienza ha dimostrato come sia possibile rispondere in modo
diverso anche a crisi "acute", accettando l'esperienza del soggetto, comprendendola ed
interagendo con essa, all'interno di un ambiente umano che sappia aiutarlo nel percorso
regressione-progressione-emancipazione. Tutto ciò a conferma di quanto afferma Laing: Anni
di esperienza mi hanno mostrato che la sola
cosa importante per le persone in crisi è incontrare un essere umano che sia realmente presente
e disponibile. Un'altra considerazione che ci è suggerita dall'esperienza del dottor Perry è
che
l'uso degli psicofarmaci, anche quando consenta una rapida remissione dei "sintomi", può
limitare le risorse di cui un individuo in crisi può disporre per reintegrare la propria personalità e
per ricostruire su nuovi livelli il proprio equilibrio. Ciò si spiega proprio alla luce di quella che è
l'azione preminente degli psico-farmaci (neurolettici): essi riducono tutte le attività psichiche
superiori, sia quelle ritenute "patologiche", che quelle ritenute "normali", con conseguente
compromissione della possibilità che il soggetto le possa impegnare adeguatamente per vivere la
propria regressione, gestirla e superarla. I trattamenti prevalenti in casi di questo genere (cioè gli
psicofarmaci in forti dosi ed il ricovero) - ha scritto lo psichiatra italiano Giovanni Jervis -
reprimono ulteriormente le residue possibilità del soggetto di dare un senso e una storicità
alle
proprie esperienze (...). In questi casi la "cura" è solo la repressione rozza e superficiale delle
manifestazioni esteriori della crisi, è il ricondizionamento forzoso a un livello degradato di
rapporti quotidiani. Essa è quindi anche un impedimento attivo a gestire la crisi, a
comprenderne il significato, ad agirla, ad esprimere in essa i contenuti di sentimenti, di odio e di
amore, di pensieri e di parole, che il paziente invece dovrebbe riuscire a vivere in modo
legittimo. I rapporti fra l'anti-psichiatria inglese e la psichiatria alternativa italiana sono stati
schematicamente definiti da Basaglia nel modo seguente: In questi ultimi anni ci siamo trovati ad
agire su piani diversi ed insieme analoghi con Ronald Laing - entrambi impegnati, se pure con
modalità e strumenti diversi, in una lotta concreta per questa trasformazione. La pratica e la
teoria di Laing tendono a mettere a fuoco e a privilegiare - pur mantenendo presenti gli altri
piani del discorso - il momento della trasformazione soggettiva; così come noi tendiamo a
privilegiare, pur mantenendo presenti gli altri piani del discorso, quello della trasformazione
sociale. La pratica e la teoria di Laing tendono cioè a smuovere dall'interno l'inerzia dell'uomo,
nel rapporto con se stesso e con l'altro; così come noi tendiamo a smuovere, attraverso la nostra
azione in uno specifico particolare, l'inerzia del mondo sociale. Ma privilegiare non deve
significare assolutizzare, perché questi due momenti - il soggettivo e il sociale - sono due facce
di una sola realtà, dato che nell'uomo esse coesistono e da esse egli è contemporaneamente
determinato. La psichiatria alternativa italiana, forse più per ragioni storico-socio-politiche che
per ragioni
teorico-dottrinali, ha fin dal primo momento privilegiato l'intervento all'interno dei manicomi e
contro di essi, e all'interno delle situazioni sociali di massa e con esse. Tuttavia va sottolineato
come buona parte delle esperienze della psichiatria alternativa italiana, forse le più significative,
si sono in parte ispirate alle esperienze dell'anti-psichiatria inglese. Ci riferiamo, in particolare, al
valore avuto dalle assemblee all'interno del processo di demanicomializzazione dei pazienti
psichiatrici, la maggior parte dei quali costituita da lungodegenti, che, attraverso il confronto, il
rapporto umano, la discussione collettiva, sono riusciti in moltissimi casi a risalire la china della
regressione istituzionale. La psichiatria alternativa italiana, a differenza di quella inglese che solo
marginalmente è riuscita a scalfire il sistema psichiatrico istituzionale, ha saputo collegarsi a più
ampi strati sociali (operai, studenti, ecc.) che da anni nel nostro Paese si battono per un
cambiamento reale della società. Questa è una delle ragioni principali per cui alcuni dei contenuti
delle esperienze della psichiatria alternativa italiana sono stati recepiti dalla recente legislazione
sanitaria (Legge n° 180 prima e n° 833 dopo). Tuttavia la regolamentazione giuridica delle esperienze
anti-manicomiali deve sollecitare non
solo facili entusiasmi, ma anche delle considerazioni critiche alle quali sarà bene riflettere. Come
hanno ben dimostrato nelle loro opere Foucault e Dörner, assetto sociale, organizzazione dello
Stato, "follia" e psichiatria presentano nella loro evoluzione storica una stretta rete di rapporti e
connessioni all'interno della quale alla mancata soddisfazione dei bisogni dell'uomo corrisponde
puntualmente la repressione della "follia". La società moderna nel momento stesso in cui stabilisce le
libertà, i diritti ed i doveri dei
cittadini, attribuisce allo Stato il compito della loro regolamentazione. Da ciò deriva il fatto che
la sofferenza psichica prima ancora di essere un problema "medico" è un problema "giuridico-normativo".
Ma la regolamentazione giuridica della "follia" non è mai andata oltre la
enunciazione di sanzioni e provvedimenti esclusivamente punitivi (inabilitazione, interdizione e
reclusione nei manicomi giudiziari). Per il resto la "follia" non ha trovato una sua sistemazione
giuridica essendo il "folle", per definizione, privo della "imputabilità", e cioè di quella
"capacità
di intendere e volere" che è alla base dell'ordinamento giuridico dello stato di diritto. Di
conseguenza lo Stato ha delegato la scienza medica e le strutture sanitarie al controllo della
"follia". Tale controllo assolve al duplice compito di difendere la società dalla "follia" (e dalle
"paure" che essa genera nella collettività) e dal potenziale turbativo dell'ordine costituito che ad
esse si accompagna. L'attuale decentramento della assistenza sanitaria e psichiatrica è parte
integrante del più ampio decentramento burocratico-amministrativo dello Stato e ad esso - inteso
come apparato per l'esercizio del potere in una società divisa in classi - è tanto più
funzionale
quanto più precocemente consente di individuare, controllare e spesso reprimere in modo
"medicalizzato" quei comportamenti che si esprimono come "follia". Tuttavia bisogna dire che accanto e in
antagonismo a questa prospettiva di una espansione e
capillarizzazione dei sistemi di controllo e di repressione della "devianza sociale", esiste la
possibilità di una diffusione degli spazi agibili per la gestione collettiva e dal basso del disagio
umano e della salute. Di qui la necessità di impegnarsi a fondo onde impedire che la Riforma
Sanitaria dia impulso alle tendenze, ben presenti in larga parte della classe medica, di sostituire i
vecchi manicomi con un "neo-manicomialismo diffuso" che rimpiazza le celle di isolamento con
i "repartini psichiatrici" negli ospedali civili e le camicie di forza con l'uso massiccio ed
indiscriminato degli psicofarmaci. La lotta, dunque, è ben lungi dall'essere conclusa e dovranno
essere compiuti altri passi in avanti, laddove... passo avanti significa in definitiva un passo fuori
dall'ospedale verso la comunità.
DATA |
DIARIO CLINICO |
TERAPIA |
1 AGO. 1961 |
Paziente tranquillo |
Serenase 10 gtx2 (2 mg) |
2 SET. 1962 |
Paziente dimesso |
|
3 DIC. 1963 |
Nuovo ricovero |
Serenase 1 fl. x2 (4 mg) |
1 MAR. 1964 |
Paziente agitato |
Serenase 1 gt.x3 (6 mg)
Largactil 25 gt.x3 (150 mg) |
APR. 1965 |
Paziente tranquillo |
Serenase 20 gt. x3 (6 mg) |
AGO. 1965 |
Paziente agitato, trasferito nel reparto di
vigilanza |
Elettroshock: 16 appl. in 3 gg. Serenase 2 fl. x2 (8 mg) |
DIC. 1965 |
Paziente tranquillo |
Serenase 20 gt. x3 (6 mg) |
MAR. 1966 |
Paziente aggressivo trasferito nel reparto di
vigilanza |
Serenase 20 gt. x3 (6 mg) Largactil 50 mg.x3 (150 mg) |
NOV. 1966 |
Idem |
Serenase 1 fl. x4 (8 mg) |
GEN. 1967 |
Paziente inquieto |
Elettroshock: 10 appl. in 3 gg. Serenase 20 gt. x3 (6 mg) |
GIU-LUG. 1968 |
Paziente aggressivo isolato e contenuto |
Elettroshock: 10 appl. in 3 gg. Serenase 2 fl. x2 (8 mg) Melleril 200
mg |
15 SET. 1968 |
Collasso |
|
16 SET. 1968 |
Aggressivo, isolato |
Serenase 1 fl. x3 (6 mg) |
22 SET. 1968 |
Aggressivo, isolato |
Serenase 1 fl. x4 (8 mg) |
26 SET. 1968 |
Aggressivo |
Serenase 20 gt. x3 (6 mg) Largactil 100 mg.x3 (300 mg) |
1 DIC. 1970 |
Inquieto |
Serenase 20 gt. x3 (6 mg) Entumin (Clotiapina) 60
mg Psicoperidol 10 gt. x2 (2mg) |
GEN. 1971 |
Inquieto |
Serenase 40 gt. x3 (12 mg) Melleril 200 mg |
OTT. 1971 |
Inquieto |
Serenase 100 gt. (10 mg) Nozinam 1 fl. x3 (75
mg) |
GEN. 1974 |
Agitato |
Serenase 60 gt. x3 (18 mg) Largactil 50 gt.x3 (300 mg) |
16 APR. 1974
dalle ore 4,30 alle ore 23 |
Aggressivo |
Serenase 6 fl. (12 mg) Largactil 1 fl. (50 mg) Nozinam 7 fl. (175
mg) Tolofen 1 fl. (100 mg) |
AGO. 1974 |
Aggressivo |
Serenase 2 fl. x3 (12 mg) Nozinam 2 fl. x3 (150 mg) |
GEN. 1975 |
Inquieto |
Serenase 30 gt. x3 (9 mg) Nozinam 25 mg. x3 (75 mg) |
... Non ho mai pensato che tutti quelli che stanno nel casino sono in uno stato di illuminazione
superiore alla media delle persone normali. Di solito io tendo a perdere la pazienza con quelli
che quando vanno nel pallone dicono di vedere che tutti si divorano e si scannano uno con
l'altro, mentre loro pensano di essere diversi. In verità mi piacerebbe molto incontrare
qualcuno di questi personaggi straordinari che sembrano perfettamente sotto controllo... |
"Non vedo nessun modo di prendere il potere
senza sopraffare quelli che già ce l'hanno con un
potere maggiore. Così, con lo stesso criterio secondo cui uno pensa che il loro potere è un
male, il nostro dovrebbe essere un male più grande. E non credo che sia una questione di
opinioni. Ogni genere di potere corrompe, e il potere assoluto corrompe in modo assoluto". |
... Mi balzò quindi agli occhi il fatto
che praticamente tutte le osservazioni dei cosiddetti
schizofrenici hanno luogo entro le mura di una clinica psichiatrica. E divenni sempre più
consapevole (...) che il modo di vedere e il modo di conoscere ch'è parte integrante ed
essenziale della clinica europea in quanto istituzione comporta una certa maniera di guardare
l'altro. E che si tratta proprio di quella maniera di guardare all'altro che sembra contribuire da
un lato a farlo impazzire e dall'altro a farlo vedere come pazzo. |
... E il potere è semplicemente
l'esercizio del terrore. E più sottile è il potere, più celato è il
terrore. Nelle persone che vedo come più impaurite, il tratto più impressionante è che a
spaventarle non sono gli spazi aperti o chiusi, il cielo che gli cade addosso o la terra che gli si
apre sotto i piedi, o gli uccelli o le api o che so io. Primariamente, ciò di cui queste persone
hanno paura sono altre persone (se stesse od altri). Gli esseri umani sono spaventati dagli
esseri umani. |
|