Rivista Anarchica Online
Yugoslavia- I padroni dell'autogestione
intervista a Slobodan Drakulic
"Gli abiti nuovi del presidente Tito" è il titolo dell'ultimo numero (n. 6) della rivista trimestrale
francese Autogestions, dedicato appunto alla Yugoslavia. Ne abbiamo tratto due articoli, che
pubblichiamo nella traduzione del compagno Andrea Chersi. Il primo è un'intervista a Slobodan
Drakulic, giovane professore di sociologia all'università di Zagabria, a proposito della rivista
Argumenti. Drakulic è già noto ai nostri lettori, avendone noi pubblicato la relazione
("Burocrazia e autogestione", "A" 78) presentata alla Conferenza internazionale di studi
sull'autogestione (Venezia, 28-30 settembre 1979), nonché l'articolo "Senzatito" ("A" 84)
all'indomani della morte del presidente yugoslavo. Va sottolineato il fatto che, in seguito alla
pubblicazione di quest'intervista su Autogestions, Drakulic ha avuto qualche fastidio
dall'apparato repressivo "autogestionario". Autore del secondo articolo è il francese Albert
Meister, docente di sociologia all'Ecole pratique des hautes études di Parigi, autore di numerosi
saggi (l'ultimo, L'autogestion en uniforme, Ed. Privat, Parigi 1980, si occupa del Perù): sul n.
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di "A" abbiamo pubblicato un suo saggio su "L'inflazione creatrice", tratto dalla prefazione del
suo omonimo volume.
'Argumenti' vietati
Quali sono le disposizioni di legge riguardo ai periodici e come nasce una rivista?
Perché nasca una rivista, occorre un editore che può essere un'università, un'associazione
professionale, ad esempio quella dei sociologi, oppure quella che viene definita una comunità
socio-politica: una comune, la Lega Comunista, l'Alleanza socialista, ecc.. La decisione di tale
organismo vien presa sulla base di un progetto del periodico, di un programma per i primi due o
tre anni. Se accetta il progetto, è obbligata a finanziarlo almeno in parte ed è responsabile della
pubblicazione in generale (si tratta quindi di un editore vero e proprio, non di uno "sponsor").
Una volta superato questo, l'editore deve costituire il consiglio di orientamento, composto da una
ventina di persone "che contano" nel campo, in grado di sovraintendere a quel che si farà nella
rivista. Questo consiglio affida poi un mandato a colui che diverrà redattore capo e che sceglierà
la redazione; quest'ultima dovrà essere approvata dal consiglio di orientamento. Poi c'è la fase
della richiesta di finanziamento rivolta alle comunità autogestionarie d'interesse (CAI) cui si
comunica il contenuto previsto: per avere denaro da una CAI per la cultura, è necessario fare
comparire tra gli argomenti che saranno trattati la sociologia della cultura o la culturologia.... Ciò
può esser fatto ai due livelli insieme: la repubblica e la comune (dove esistono delle CAI).
L'esperienza pratica insegna che si deve richiedere sempre il doppio di ciò di cui si ha bisogno
per ottenere forse i due terzi della somma. Questo lo schema generale. Avuto il denaro, non resta
che prendere accordi con una tipografia e cominciare.
Queste fasi preliminari hanno preso parecchio tempo per "Argumenti" o no?
"Argumenti" fu proposta due volte, la prima nel 1976 senza successo, perché senza appoggi;
venne accettata come progetto ma non si andò oltre. Poi, un progetto molto simile venne
presentato nel 1977, stavolta col sostegno di persone che avevano nella gerarchia politica una
posizione più elevata del resto di noi e ottenne una risposta positiva da parte dell'organizzazione
regionale della Lega Comunista (la L.C.I. ha dei livelli comunali e regionali). C'era un Centro di
ricerche marxiste fondato e finanziato dalla Lega comunista ma indipendente, con tutti i diritti
autogestionari. "Argumenti" divenne la rivista di tale istituto. Per tutti questi passi preliminari ci
vollero sette o otto mesi perché si aggiunsero le pratiche legali: dichiarazione della nuova
pubblicazione alla Corte, registrazione del titolo, fabbricazione dei timbri, tutte cose complicate
non per ragioni politiche, ma a causa della lentezza propria della burocrazia, qui come altrove.
Così, abbiamo cominciato davvero la raccolta degli articoli verso la fine del 1977. Il primo
numero è comparso sei mesi dopo, con un tempo ragionevole quindi per una nuova rivista con
una redazione che si conosceva solo in parte e tenuto conto delle discussioni seguitene.
C'era l'accordo di tutti sulla concezione dell'informazione che sarebbe prevalsa in questa
rivista?
Sì e no. C'erano per utilizzare l'espressione di Kardelj, parecchi "gruppi d'interesse". Uno di
questi era costituito dai professori di marxismo, di "socialismo nella teoria e nella pratica" (due
materie che vengono definite "materie di Stato"). Essi avevano bisogno di un punto d'appoggio
per pubblicare le loro opinioni, i loro testi, di una tribuna professionale. Quantitativamente, era il
gruppo più importante: all'incirca 15 persone compresi degli insegnanti della nostra piccola
università e alcuni della scuola secondaria. Un secondo gruppo, anch'esso di universitari o para-universitari,
era composto da "comunisti iugoslavi di sinistra", cioè più favorevoli
all'autogestione della maggioranza dei membri della Lega, più favorevoli pure a dei rapporti
ugualitari, ad una democratizzazione. C'erano anche altri che consideravano qualificante far parte
di una rivista, ma questi erano pochi. Il consenso generale, seppur presente, era fragile e
superficiale. Tutti volevano una rivista progressista, intellettualmente e teoricamente
indipendente, pressoché radicale ma, essendo ognuno su posizioni socio-politiche differenti,
interpretava tale volontà secondo propri canoni e aveva la propria opinione sulla portata da dare a
questa concezione. Quando abbiamo cominciato le pubblicazioni, abbiamo compreso quanto le
idee condivise sulla libertà si traducessero in atteggiamenti divergenti e quanto fosse debole il
consenso.
L'avete scoperto in parte durante la realizzazione del primo numero?
Sì. Chiamiamo "blocchi" i temi principali di un numero. Il nostro primo blocco doveva essere
"anarchismo e terrorismo" perché pensavamo, come altri intellettuali, che fosse un argomento
molto mistificato e falsificato nella stampa iugoslava. Nelle riviste scientifiche era ignorato (ad
eccezione di "Pintanja", mensile di Zagabria che fece un altro magnifico dossier sul terrorismo
alla fine del 1977). Quanto ai giornali e agli altri mass-media, i loro giornalisti definivano il
terrorismo come un fenomeno a priori anarchico, il che è particolarmente buffo se si parla della
Baader-Meinhof e delle Brigate Rosse. Volevamo quindi chiarire il problema coi mezzi di cui
dispone una rivista (maggiore spazio che in un quotidiano per permettere una trattazione
pluralistica). Era stata, all'inizio, l'idea di un professore di marxismo, ma tutti l'avevano
appoggiata. Uno dei contributi principali fu quello di W. Dedijer: secondo lui, il terrorismo non è
che una risposta individuale o collettiva al terrore dello Stato. Rovesciava pertanto la prospettiva.
Nel suo caso, è tanto più significativo che fosse rispettato come storico (partigiano amico intimo
e biografo di Tito - n.d.r.) e che la sua opinione fosse sostenuta da una conoscenza del problema;
infatti ha dedicato un libro molto documentato a Gavrilo Princip, che uccise l'arciduca
Ferdinando e al suo movimento "giovane Bosnia". Si trattava quindi di una opinione autorevole.
Per far conoscere l'anarchismo, ignorato o deformato nei paesi in cui il partito comunista ha il
potere, un giovane professore sloveno, Rudi Riznan, scrittore e membro del Tribunale Russell, ha
descritto l'evoluzione dei rapporti tra anarchismo e marxismo. Citiamo ancora, tra l'altro, delle
traduzioni di scritti di Emma Goldman e Alexander Berkman (che venne egli stesso tacciato di
terrorista) e il mio articolo sulla nuova sinistra che ricordava l'analisi marxista-leninista
rivendicata da numerosi gruppi armati e che difendono il punto di vista di Dedijer mostrando che,
negli anni '70, lo scoppio della violenza, che non abbiamo mai ammesso di approvare, fu il frutto
della politica delle classi dominanti. Tutto ciò fu bene accolto dalla comunità intellettuale e dal
pubblico in generale. Il numero andò
esaurito in breve tempo ma la reazione dei responsabili politici non fu dello stesso avviso. Alcuni
ritenevano, credo, che noi compromettevamo le loro posizioni diplomatiche nei riguardi
dell'Italia con cui le relazioni sono tanto amichevoli quanto delicate, tenuti presenti tutti i
problemi di confine, e nei riguardi della Germania in cui abbiamo tanti nostri lavoratori. Inoltre,
il dogmatismo emerse sotto differenti forme, quali: "Perché scrivono sugli anarchici che sono dei
traditori della rivoluzione?" oppure: "i terroristi sono cattivi (il che è sicuramente vero per ogni
potere) e se sono cattivi, perché non lo dicono?" ecc.. Così, abbiamo avuto un grande successo
sociale ma delle reticenze politiche ed è così che i disaccordi cominciarono a sorgere nella
redazione. Una parte era soddisfatta di aver avuto una tale accoglienza popolare mentre l'altra
parte era preoccupata per l'atteggiamento freddo e critico delle autorità. La situazione cominciò a
degradarsi e i contrasti divennero sempre più aperti.
Avevate preparato il secondo numero tenendo presenti questi problemi?
Per il secondo numero, l'opinione della maggioranza era di essere più prudenti per evitare
reazioni negative nella sfera politica. Si doveva essere più "calmi" per placare le tensioni. Ci fu
però un'eccezione: un testo contrario alla riforma della scuola in Iugoslavia, di cui io ero l'autore.
Alcune personalità nel mondo dell'educazione e della cultura se la presero. Il peggio era che il
redattore capo aveva cambiato lavoro ed era diventato vice-presidente incaricato della cultura e
dell'educazione in Croazia. Quell'articolo criticava ciò che egli avrebbe dovuto mettere in pratica
e il ministro riteneva "Argumenti" vicino a lui e progressista e pensava anche che quella rivista
avrebbe dovuto sostenerlo. Fui biasimato per aver scritto quel testo, ancor più perché, come in
moltissime riviste, i compiti reali vengono effettuati da tre o quattro persone e, pertanto, la
maggioranza non aveva letto il mio testo prima della pubblicazione ed era considerato
manipolato. Si decise di modificare lo stile di lavoro e aumentò lo scarto tra i diversi gruppi. Così
preparammo il terzo numero che doveva di nuovo attirare l'interesse. Il secondo numero avrebbe
dovuto essere tranquillo e non lo fu. Il terzo non doveva essere tranquillo e non lo fu. Ancora una
volta, i politici si mostrarono insoddisfatti.
Andò anch'esso esaurito?
Sì, andò meglio del secondo: all'incirca come il primo. Era dedicato ai problemi delle donne,
giacché la maggior parte degli articoli provenivano dalla Conferenza Internazionale di Belgrado
(1977). Il secondo blocco trattava dell'educazione. Il testo che avevo preparato venne respinto
perché menzionavo il Ministro, e il redattore capo non voleva pubblicare più nulla contro il suo
padrone! Venne accolto molto bene dal pubblico ma, nel Partito, dei personaggi politici
importanti cambiarono e, nella comune, arrivarono due capi niente affatto favorevoli a una rivista
radicale che, formalmente, era della Lega dei comunisti. La concepivano in modo ben diverso!
Venimmo a sapere della loro intenzione di sciogliere il centro marxista e la redazione perché
eravamo andati troppo oltre. Il fatto era che quella prospettiva di scioglimento del centro trovò
un'eco favorevole, persino tra i membri della redazione e le opposizioni divennero davvero molto
rigide, rendendo impossibile il lavoro. Non eravamo più d'accordo che su un punto: avevamo
bisogno di denaro per continuare la pubblicazione. Per il resto, su chi, che cosa, quando, perché
pubblicare, era impossibile mettersi d'accordo. Mira Oklobdzija fu la prima ad andarsene l'anno
scorso in febbraio. Io me ne sono andato in giugno. Prima, siamo stati controllati due o tre volte,
per quel che portavamo. Le cose finirono come si poteva temere: il centro e la redazione vennero
sciolti e il consiglio di orientamento in pratica non esistette più. Nessuno ne parlò. Il nuovo
centro non fu più, come il precedente, una emanazione della Lega comunista regionale, ma
collegata al comitato locale. Questo comitato nominò un nuovo redattore capo ed anche una
diversa redazione che venne approvata dall'editore. Secondo alcuni, tutto ciò non fu del tutto
legale in quanto alcune fasi, formali ma pur sempre necessarie, vennero saltate. Pare che i
detentori del potere non rispettino neppure le loro stesse leggi. Lo fanno per gli altri, non per
loro. Abbiamo fatto il quarto numero perché l'avevamo promesso. Il quinto invece uscì
più ridotto e
molto diverso con un testo sulla riforma della scuola, stavolta favorevole. Certi problemi trattati
nei primi due anni, vennero affrontati di nuovo. Furono ritirati fuori dei problemi locali. In
effetti, siamo stati criticati per aver scritto su argomenti generali o di altre società e non
abbastanza sulla Iugoslavia, il che, naturalmente, era un pretesto per attaccare un'analisi politica
non troppo conformista. Adesso "Argumenti" è un periodico della Lega comunista in senso
stretto e, da quanto vedo nelle librerie, non si vende. È normale: perché mai leggere quel che
sentite già alla televisione, alla radio, ripreso in maniera "scientifica"?
Puoi inquadrare un po' il numero di persone toccate da questa esperienza, in modo da
evidenziare le dimensioni e i limiti della diffusione della rivista?
Non è una cosa importante. Soltanto tre o quattro numeri di quella che, penso, era una bella
rivista. Non è trascurabile perché non abbiamo molte buone riviste di scienze sociali, ma questa
non ha evidentemente una grande portata storica come "Praxis". Ciò dimostra proprio che forme
di autogestione sono possibili se la gente lotta per ottenerle. A questo riguardo è significativo che
anche tentativi fatti su piccola scala provocano una reazione ostile del potere. Dimostra anche la
posizione del gruppo dirigente nei riguardi della libertà intellettuale. Noi volevamo dare accesso
a dei documenti su temi un po' tabù e, proprio per questo, abbiamo avuto una funzione nella
società. Abbiamo avuto prove dell'interesse suscitato, persino in luoghi lontanissimi: da
Belgrado, da Lubiana dove la lingua è pure differente, abbiamo ricevuto moltissime lettere dopo
il dissolvimento del gruppo da gente che voleva acquistare delle copie, ma queste erano bloccate
al centro marxista e non sono state messe in commercio che dopo un anno. È quindi possibile
lottare e fare passare un'informazione conforme a ciò che pensiamo, spiegando certi fenomeni
sociali e politici, ma soltanto per un breve periodo.
Ci sono stati problemi materiali, nella distribuzione dei ruoli e degli incarichi, all'interno di
quella che voleva essere una rivista autogestita?
Abbiamo avuto moltissimi problemi. Quelli che ci lavoravano erano brillanti e intelligenti, ma
non del tutto esperti organizzatori e abbiamo agito in modo estremamente caotico, con numerose
difficoltà pratiche. A volte, si telefonava alla tipografia per dire: "fermate tutto! aspettate quindici
giorni". Poteva essere uno della rivista che preferiva attendere che i nostri disaccordi interni si
appianassero, oppure qualcuno che non doveva essere sicuro di volere che la rivista uscisse. Ci
son stati problemi finanziari. Ogni numero significava all'incirca 450 pagine dattiloscritte, quindi
moltissimo materiale da raccogliere. Così, quando non han più saputo di che cosa accusarci, han
detto che gettavamo via i soldi che ci avevano affidato, senza vedere le spese che comporta la
confezione di una rivista ponderosa, facendo appello ad autori di differenti paesi. Hanno persino
avanzato l'accusa che privatizzavamo la rivista, servendocene per esprimere le nostre opinioni
personali e trascurando le cosidette "opinioni sociali", come se fossimo in una società senza
classi: una posizione, una classe, un partito, un popolo; e ciò che è diverso, non è sociale,
è
privato. Ma tutto questo si sarebbe evitato se ci fosse stata unità in seno alla redazione. Ma
questa unità è difficile da mantenere quando ci sono pressioni politiche. Quando si ha famiglia,
non è agevole mettere in pericolo la propria posizione per qualche pagina stampata! La divisione
è stata anche generazionale: i giovani erano, nell'insieme, più radicali.
Che ne pensi dell'opinione secondo cui, dopo la morte di Tito, esistono tutte le condizioni
per un aumento della libertà? Credi che sia solo un augurio o una possibilità riguardo al
campo dell'informazione?
Non so se sia un augurio oppure no, perché sarebbe come esprimere un'opinione personale.... Ma
se automaticamente noi aspettiamo una liberalizzazione, ciò significa che Tito era un ostacolo a
ciò. È il culto della personalità al contrario: è una tesi e elitaria che esagera il ruolo
di una
persona nella storia. Tito è stato un catalizzatore per l'affermazione ed il mantenimento
dell'identità iugoslava (in condizioni differenti, è paragonabile ad Ataturk) ed ha avuto un ruolo
ambivalente, per non citare che due esempi: contemporaneamente pilastro dell'introduzione della
autogestione e sostegno per i gruppi sociali dominanti. La sua morte non ha modificato gli
interessi dei gruppi sociali privilegiati ma soltanto i rapporti di potere. La elite dirigente
probabilmente tenterà di coagulare di nuovo un consenso, di definire la situazione come se egli ci
fosse ancora con una sua presenza in modo simbolico, quasi mistico o religioso: mostrando alla
televisione delle sequenze sulla sua vita, stampando libri, ecc.. Sono dei politicanti che son
sempre stati subordinati e che, all'improvviso, si trovano lasciati a se stessi. Hanno bisogno di un
periodo di adattamento. Non scorgo motivi per aspettarmi da parte loro un'evoluzione immediata
verso una maggiore democrazia. Questa non può arrivare a meno che la pesantissima crisi
economica che stiamo vivendo ora mantenga ed aumenti l'insoddisfazione della classe operaia.
Parlo qui della vera classe operaia costituita da quelli che non hanno terre, altre risorse che non
siano la loro forza-lavoro e le cui condizioni di vita si degradano. Allora, i detentori del potere,
per evitare fatti come quelli di Polonia, potrebbero consentire una liberalizzazione, ma è difficile
fissare delle scadenze nel tempo.
Nel caso che le condizioni dei lavoratori continuino a deteriorarsi, non si porrebbe forse
con maggiore forza il problema del tipo di legame esistente tra intellettuali ed operai?
Abbiamo gli occhi fissi su ciò che accade in Polonia, ma dobbiamo anche essere coscienti delle
differenze tra le due società. Innanzitutto, la Iugoslavia è un paese indipendente, per quanto lo
possa essere un piccolo paese. Inoltre, è composta da molte nazionalità. Due punti che non si
ritrovano in Polonia. Le coscienze politiche sono dunque molto diverse: in Polonia,
un'insoddisfazione sociale si accompagna ad un'insoddisfazione politica, nazionale, da parte di
un popolo che è stato attaccato dai tedeschi e dai russi per secoli. È l'unico paese che
storicamente si è esteso dal Mar Nero a quello che era il centro della Germania. Hanno quindi
parecchie ragioni per lottare contro l'URSS. Allo stesso tempo, questa opposizione obbligata
definisce a priori la loro azione. Qui, la maggioranza della gente non si rappresenta la Iugoslavia
come membro di un blocco, quindi la lotta contro l'Unione Sovietica o gli Stati Uniti è pressoché
ridicola, sul piano politico naturalmente, giacché la dipendenza economiche esiste, eccome. Il
popolo iugoslavo è molto attento a non far nulla per compromettere questa posizione non
allineata; le culture sono considerate importanti: siamo l'unico paese chiamato socialista con una
libertà elementare. Abbiamo una società dei consumi, il che è molto apprezzato (sopratutto
da
quelli che hanno denaro!) e inoltre ci sono sei repubbliche e due province che, salvo la polizia e
l'esercito, hanno tutte le caratteristiche di stati. Quindi, ogni movimento sociale che voglia essere
iugoslavo, deve agire a livello internazionale. Dubito che, anche coi problemi economici attuali,
potranno avvenire reazioni simili a quelle polacche, principalmente perché i dirigenti saranno più
sensibili a quanto i lavoratori hanno da dire. Non vogliono rischiare di perdere l'indipendenza di
cui gode il paese, il che significherebbe anche la perdita del loro stesso posto. Tutti i gruppi
sociali sono ben coscienti della precarietà della posizione iugoslava. Un aumento degli scioperi
appare più verosimile che uno scontro così frontale come in Polonia; in effetti, qui l'elite
dirigente dovrà rispondere più presto alle rivendicazioni, sentendosi essa stessa altrettanto
indipendente quanto vulnerabile.
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