Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 11 nr. 96
novembre 1981


Rivista Anarchica Online

Anarchismo ottanta: dalla classe alla cultura
di John Clark

Tra le voci più interessanti dell'anarchismo contemporaneo negli Stati Uniti, registriamo su questo numero quella di John Clark. Dal numero 7 della rivista Black Rose ("Rosa Nera") edita a Boston, pubblichiamo (nella traduzione di Michele Buzzi) il saggio The politics of liberation: from class to culture ("Le politiche della liberazione: dalla classe alla cultura"). Come a suo tempo quando pubblicammo la nostra intervista con Murray Bookchin ("A" 93), è necessario sottolineare che il contesto nel quale si sta sviluppando questa nuova cultura anarchica nordamericana è per tanti aspetti profondamente diverso dal nostro, per la sua storia passata come per il presente. Vogliamo comunque rilevare un punto di profondo dissenso con le tesi di Clark, laddove egli auspica una partecipazione degli anarchici ad elezioni su scala locale e ai referendum: attualmente, infatti, entrambe queste forme di "partecipazione" rientrano appieno nel sistema e vengono utilizzate per accrescere il consenso intorno alle istituzioni. Contrariamente a Clark, non riteniamo possibile alcun utilizzo "alternativo" delle urne.

Fino a poco tempo fa porre la questione della natura della "problematica libertaria" sarebbe sembrata un'impresa piuttosto donchisciottesca. In quale ambito la si poteva collocare? Tra i sogni dei sopravvissuti ai movimenti dei lavoratori, ormai morti e sepolti? Tra le fantasie degli utopisti? Se, da una parte, la pratica libertaria non era mai stata del tutto abbandonata, dall'altra era evidente che il movimento, seppure storicamente importante, si era ridotto a una pratica insignificante. L'ideale eroico che un tempo aveva infiammato le masse sembrava destinato ad essere relegato nel regno della nostalgia, o della fantascienza. Nulla e nessuno, neppure quei regimi dittatoriali che avevano combattuto con ogni mezzo le sue idee e i suoi seguaci, era mai riuscito ad avere ragione dell'anarchismo: eppure, per colmo d'ironia, esso pareva irrimediabilmente avviato alla fine. D'altro canto, vi è sempre un luogo nel quale le forze che agiscono nella storia ristagnano e si assopiscono e forse era giusto che l'anarchismo avesse eletto a propria temporanea dimora la sfera dell'immaginazione. Non v'è dubbio che l'immaginazione, senza un movimento, sia comunque preferibile a un movimento privo di immaginazione, ma ora è forse giusto il momento di poterli riavere entrambi. Verso la fine degli anni '60, cogliendo quasi tutti alla sprovvista (ad eccezione dei pochi idealisti e visionari di sicura fede ancora rimasti) il movimento fece nuovamente la sua comparsa alla ribalta della storia. Oggi è dunque nuovamente possibile sperare che l'anarchismo sia qualcosa di più che un bel sogno e che in futuro la sua funzione storica sia tale da farne apparire il passato solo come i primi passi vacillanti, una parentesi di secondaria importanza. Su quali basi può fondarsi questa speranza?

fanatismo o ribellione

Se è vero che anche solo una generazione fa l'anarchismo era stato - per usare un'espressione cara ai burocrati - "cancellato dall'agenda" della storia, potrebbe essere vicino il tempo in cui esso sarà in grado di riconquistare lo spazio perduto e magari di modificare radicalmente l'"agenda" stessa, o addirittura di farla a pezzi. Siamo infatti a un punto cruciale, nel quale i problemi più importanti si impongono all'attenzione di tutti, nel quale inizia a prendere forma un progetto storico concreto e dunque la "problematica" può finalmente collocarsi nella realtà. Le due ideologie dominanti si sono dimostrate fallimentari e la fiducia delle masse, soggette al sistema di dominazione, capitalista o socialista, è duramente scossa. Il cinismo e la disillusione, sentimenti letali per quelle ideologie che si fondano sul mito di un progresso illimitato e sul messianesimo mondiale, sono sempre più diffusi. Ciò non significa che la gente non sia più disposta ad accettare; significa però che lo fa con forzata rassegnazione e malcelato risentimento. Sempre più ci ci avviciniamo al punto di una scelta diversa e radicale: non più tra capitalismo e socialismo, ma tra fanatismo o ribellione. Bisognerà rassegnarsi a toccare il fondo della malafede e dell'ipocrisia o riconoscere il fallimento delle vecchie strutture simboliche; accettare lo sterile dogmatismo necessario alla sopravvivenza di una religione ormai defunta o la negatività creativa delle illusioni rivelatesi null'altro che tali. Per la prima volta, forse, gli esseri umani (e non solo i teorici) si rendono conto che ciò che conta non è il contrasto tra due ideologie ugualmente aberranti, bensì quello tra l'ideologia e la realtà. Come Nietzsche aveva profetizzato, stanno finalmente venendo alla luce i rapporti di potere che costituiscono la caratteristica fondamentale comune a tutte le ideologie, per quanto "democratiche", "umanistiche" o "socialiste" esse siano, e ci troviamo di fronte alla terrificante prospettiva di una scelta cosciente e consapevole.
La disgregazione delle ideologie tradizionali, sia di destra che di sinistra, pone con drammatica urgenza il problema della formulazione della problematica libertaria. Si tratta, in sostanza, di stabilire se il movimento libertario sarà in grado di tagliare i ponti con le ideologie agonizzanti e saprà fornire una indicazione cosciente e consapevole per la costruzione di una nuova realtà sociale, oppure se perderà l'occasione di contribuire alla rottura definitiva con le forme di dominazione del passato. Se è facile individuare i fattori "oggettivi" e "soggettivi" che costituiscono le cause materiali, sociali e psicologiche, dell'attuale crisi dei sistemi dominanti (depauperamento delle risorse, disastro ecologico, ristagno dell'economia, resistenza al neocolonialismo, disgregazione sociale interna, declino delle strutture motivazionali repressive, indebolimento delle legittimazioni istituzionali, ecc.), non per questo bisogna sottovalutare l'impegno che la lotta richiederà. Non c'è sicurezza che le possibilità alternative libertarie si svilupperanno, a meno che non si creino adeguati agenti di trasformazione sociale sia pratica che teorica. Non possiamo fare assegnamento su una qualche inesorabile marcia della storia che ci salvi anche se la nostra trasformazione storica è un fallimento.
Inoltre, più le strutture dominanti si sentiranno minacciate dalle forze di disgregazione interne e dagli agenti esterni, maggiore sarà la pressione fisica e psicologica per garantirsi la sopravvivenza. Ecco perché crediamo ci sia una buona dose di verità nel vecchio slogan, secondo il quale la nuova società deve essere creata nel guscio della vecchia - sia perché la vecchia deve essere tramutata il più rapidamente possibile in un guscio vuoto, tale per cui la si consideri sempre più un impedimento, un fattore puramente meccanico, un ostacolo allo sviluppo; sia perché questa irrealtà relativa deve essere posta in contrasto con la pienezza e le realtà crescenti della nuova società. Se ciò non avvenisse, ricadremmo negli errori del passato, con conseguenze forse più gravi. Da un lato, un radicalismo criticamente inconsapevole e non pienamente sviluppato, cioè una pura e semplice reazione, favorirebbe uno strenuo dogmatismo reazionario, che saprebbe imporsi ricorrendo a una repressione ancora maggiore dell'attuale. Dall'altro lato, se un radicalismo di tal fatta riuscisse a scatenare le energie alimentate dalla paura e dalla frustrazione, saremmo testimoni di nuove "rivoluzioni", le quali a loro volta si rivelerebbero soltanto più recenti trasformazioni delle vecchie forme di dominazione. La storia di questo secolo dovrebbe averci insegnato che l'attività "rivoluzionaria" settaria e non pienamente sviluppata può essere un mezzo efficacissimo per la conquista del potere ad opera delle forze autoritarie sia della destra che della sinistra. Chi può negare, infatti, che nel feticismo rivoluzionario risieda uno dei più possenti meccanismi della dominazione?

la tradizione libertaria negli Stati Uniti

Cerchiamo allora di capire quale potrà essere, tenendo conto dell'esperienza storica, la risposta del movimento libertario. Esistono, io credo, nell'ambito della sinistra libertaria, o, più specificatamente, del movimento sociale anarchico, due linee di sviluppo storicamente rilevanti e attualmente riemergenti. Da un lato, quella di chi pensa ancora all'emancipazione sociale soprattutto in termini di modi di produzione, di analisi economica e di lotta di classe. Dall'altro, quella di coloro i quali perseguono un tipo di approccio multidimensionale, che potremmo definire caratterizzato in senso culturale. Entrambe queste tendenze godono di largo seguito, oggi, all'interno dei movimenti politici libertari sia americani che europei, anche se la forza relativa di una o dell'altra varia considerevolmente da paese a paese.
Negli Stati Uniti la tradizione libertaria ispirata alle strategie e alle organizzazioni con matrice di classe si può far risalire ai movimenti dei lavoratori immigrati della fine dello scorso secolo, oltre che a larga parte del sindacalismo rivoluzionario degli IWW, di origine prevalentemente americana. Nelle linee fondamentali, le idee proprie di questi movimenti coincidevano con quelle dei movimenti anarcosindacalisti e sindacalisti rivoluzionari europei dei secoli XIX e XX. Le radici della dominazione affondavano soprattutto nel sistema capitalistico e nello stato. L'obiettivo era quello di organizzare la classe lavoratrice in una forza capace di rovesciare lo stato, cioè il potere sul quale si reggeva lo sfruttamento economico, paradigma e fondamento di ogni forma di dominazione. Il perseguimento di questo obiettivo, anche attraverso l'insurrezione ("rivoluzione") o l'azione economica di classe ("sciopero generale") avrebbe consentito l'instaurazione di un nuovo ordine economico fondato sull'autogestione e la creazione di una società fondata sull'uguaglianza, sulla libertà e sulla giustizia. In definitiva, nulla di nuovo, dal momento che queste stesse idee erano state ampiamente diffuse sia in America Latina, sia nell'Europa meridionale, prima che i movimenti operai di quei paesi cedessero al comunismo e al riformismo, o fossero annientati dal fascismo. L'unico contributo originale americano fu quello dei Wobblies (Industrial Workers of the World, o IWW), i quali cercarono di elaborare un programma ancor più radicalmente economicistico e interamente basato sull'analisi economica di classe, che irrealisticamente (ma coerentemente al carattere americano del movimento) relegava nella sfera del "privato" quei problemi religiosi e politici che tanta parte avevano nell'anarcosindacalismo europeo. I Wobblies immaginavano una società futura organizzata economicamente dai lavoratori secondo il modello dei sindacati industriali degli IWW. Non rifiutavano, perciò, lo stato in quanto tale - i membri del movimento erano liberi di prendere parte all'attività politica, di astenersene, di avversarla, purché ciò non interferisse con il progetto della One Big Union, il grande sindacato unico. Gli IWW cercarono dunque di realizzare un'alleanza di classe su vasta scala, una sorta di versione radicale del pragmatismo americano, a scapito della coerenza e della comprensibilità a livello teorico e strategico. Tuttavia, nonostante i problemi e le ambiguità che ciò comportava, molti libertari scelsero (e, in una certa misura, ancora oggi scelgono) di militare nelle file dei Wobblies, soprattutto dopo che i tentativi di organizzare stabilmente e su larga base un movimento anarcosindacalista tra i lavoratori immigrati fallì.

controcultura e offensiva restauratrice

La seconda tendenza, quella che ho definito culturalmente orientata, è sempre esistita come parte integrante della tradizione libertaria americana e, data la relativa debolezza delle organizzazioni di classe negli Stati Uniti, ha avuto nel nostro paese una forza proporzionalmente assai superiore a quella di cui godette in Europa. Nel diciannovesimo secolo il movimento comunitario concentrò in sé una parte importante delle attività libertarie e sviscerò una miriade di problemi attinenti alla vita di tutti i giorni, ivi compresi quelli relativi alla sessualità, all'educazione dell'infanzia, all'autonomia decisionale dei piccoli gruppi sociali. Benché le comuni del diciannovesimo secolo siano rimaste sempre un fenomeno marginale nella società americana, esse costituirono una fonte continua di ispirazione e contribuirono perciò a mantenere vivo e a rinnovare l'ideale comunitario. Nel ventesimo secolo la tradizione è stata ripresa da un certo numero di gruppi che hanno posto l'accento sulla produzione cooperativa, sulla decentralizzazione e, spesso, su un modo di vita non violento. Valori come questi sono stati fatti propri da movimenti quali il Catholic Worker ("Lavoratore cattolico") e il School of Living ("Scuola di vita"). Fu però negli anni '60, con l'ondata della controcultura, che questa tendenza divenne nuovamente il punto focale dell'attività creativa libertaria. La nuova, esplosiva diffusione del comunitarismo fu soltanto uno dei fenomeni innescati dallo sviluppo culturale libertario. Anche le attività dei movimenti di liberazione che proliferarono in quegli anni - i movimenti per una scuola libera e un'educazione alternativa, i movimenti per la liberazione del bambino, della donna, degli omosessuali, la psichiatria radicale, i movimenti ecologici, i movimenti per la liberazione dei neri e degli indiani d'America, i movimenti pacifisti e studenteschi, i movimenti cooperativistici, i mezzi di comunicazione alternativi e le organizzazioni di quartiere - erano cariche di impulsi libertari. Differenti nelle manifestazioni esteriori, tutti questi movimenti ponevano l'accento sulla partecipazione, sulla decentralizzazione, sui rapporti di cooperazione reciproca e sulla liberazione dagli schemi della dominazione. Inoltre, la stessa "controcultura" fenomeno che potrebbe essere considerato alla stregua di un movimento a carattere generale, con l'obiettivo della ricreazione sociale e solo parzialmente coincidente con i movimenti citati più sopra) contribuì alla creazione di una dimensione culturale fortemente caratterizzata, attribuendo grande importanza e consapevolezza, valori e personalità e indagando sulle implicazioni repressive/liberatorie delle forme di linguaggio, di comunicazione, musicali, artistiche e sulla dimensione simbolica in generale.
In breve, cominciò a svilupparsi una sorta di proto-cultural libertaria, che per molti versi costituì una delle più avanzate anticipazioni di ciò che avrebbe potuto essere una futura società libertaria. E tuttavia fu, purtroppo, soltanto un'anticipazione - più una rivelazione di possibilità che una realizzazione di attualità. Le sue radici affondavano troppo poco profondamente nella società americana. Era il prodotto di eventi fortuiti e di condizioni effimere. In un certo senso conteneva una visione positiva, ma nel complesso era ancora troppo caratterizzata da una negatività immediata, da una reazione alla cultura dominante ancora irriflessiva e non pienamente sviluppata ("viscerale", come si diceva). A tal punto le mancava il senso della storia, da non riuscire neppure a discernere le stesse forze che l'avevano creata, né quelle con le quali doveva misurarsi. Non comprese quanto sia potente la forza della mercificazione né l'importanza del codice dei valori dello spettacolo. Perciò, fu facile preda del sistema, che la fagocitò. Come esempio della totale appropriazione dei temi della controcultura da parte del sistema consumistico, basti citare il deprimente film Hair. In questa parodia della controcultura datata 1980 non v'è più traccia alcuna di una "nuova sensibilità" liberatoria, né tanto meno una ricerca comunitaria, ma solo e unicamente l'immagine della più egoistica intemperanza. La ribellione viene presentata come conformismo radicale - per il divertimento degli spettatori.
Il fenomeno della controcultura fu contrassegnato da povertà e incoerenza a livello teorico, ma ciò non sorprende, vista la sua natura frammentaria e nient'affatto complessiva. Produsse illuminanti visioni e consentì audaci sperimentazioni, ma non raggiunse mai quel grado di sintesi necessario a darle forza e a farla durare nel tempo. Insomma, contribuì a sviluppare molti elementi utili alla creazione di una cultura libertaria, senza mai riuscire ad esserlo essa stessa. Il risultato di tutto ciò furono gli anni '70, cioè disintegrazione e recupero. È pur vero che molte delle conquiste degli anni '60 non andarono perdute e che alcuni dei valori emersi allora si consolidarono e svilupparono nel decennio successivo. È anche vero che l'evoluzione storica non si può giudicare dal contenuto dei mezzi di comunicazione e dell'informazione. Tuttavia, a coloro i quali avevano creduto di vedere i segni di un movimento in direzione di una cultura fondata su valori libertari e comunitari, gli anni '70 lasciarono in bocca il sapore amaro delle occasioni mancate: il periodo dell'umanizzazione del lavoro, i sindaci neri (e persino i sindaci neri repubblicani!), le donne dirigenti, la depenalizzazione della marijuana, i locali porno, il governatore Jerry Brown, i cereali naturali e gli Amici della Terra; insomma, lo scontro tra la vecchia realtà e quella che è stata efficacemente definita la "negatività artificiale". Se saremo abbastanza fortunati da rintuzzare l'offensiva, che si preannuncia possente, dei vecchi valori della dominazione - nazionalismo, razzismo, sessismo, eterosessismo, ecc. - l'alternativa che ci si pone è quella di una società consumistica perfezionata al massimo grado - una società, cioè, nella quale ciascuno abbia ugual diritto di essere consumatore e a candidarsi come oggetto da consumare.

ma il proletariato è rivoluzionario?

Quale dev'essere la risposta dei libertari a questo problema? Un ritorno alla politica di classe, un nuovo tentativo di trasformazione culturale, o una sintesi di entrambi?
Innanzitutto, non bisogna dimenticare che la tradizione politica della lotta di classe non era priva di una dimensione culturale e anzi era portatrice di una concezione implicita dell'umanità e della natura. Secondo questa concezione, la persona è prima di tutto un lavoratore, un produttore. Di conseguenza, il dramma della storia consiste nel fatto che i lavoratori, i quali producono tutti i beni necessari alla vita e al benessere, e dalla cui attività dipende il progresso futuro dell'umanità, sono derubati dei frutti del loro lavoro e dei benefici che ne derivano. Il lavoro è lo strumento fondamentale del progresso sociale, per la liberazione dell'umanità dal bisogno dal legame con la natura. Essere un lavoratore è dunque una virtù, mentre non esserlo è una colpa inscindibile da quella dello sfruttamento. Il problema è quello di trasformare tutte le persone in lavoratori e quello di conquistare ai lavoratori il controllo sulla produzione - di instaurare, cioè, l'autogestione universale. Quando ciò si verificherà, l'utopia produttiva sarà realizzata e, come dicevano gli IWW, "tutte le cose buone della vita" - cioè i prodotti e i servizi, i "beni" - non saranno più monopolizzati dai capitalisti, ma equamente spartiti tra tutti.
Questa ideologia, che critica duramente il capitalismo e coloro i quali traggono vantaggio dal suo sistema di sfruttamento, è, ciò nonostante, né più né meno che una variante particolare dell'ideologia produttivista dello sviluppo del capitalismo - ovvero la versione della stessa formulata dalla parte della classe lavoratrice (e non bisogna dimenticare che il proletariato, così come la borghesia, è una classe capitalista per eccellenza). Essa coincide infatti quasi perfettamente, nei suoi punti essenziali, con la primitiva teoria capitalista del riscatto attraverso la produzione materiale. In un certo senso, è la versione protestante della religione della produzione - si sovvertono le gerarchie, ma la fede resta saldamente radicata nelle menti, nelle coscienze e persino nell'inconscio dei credenti. La fede, infatti, sopravvive ancora, nonostante lo stesso sistema capitalista stia mano a mano abbandonando la vecchia ideologia. Non c'è da stupirsi, perciò, se la versione proletaria della medesima viene sempre più spesso accolta con sbadigli da parte dei lavoratori privi di coscienza di classe e con fischi da parte dei collaborazionisti di classe. Infatti la società caratterizzata dal capitalismo avanzato ha ormai superato la fase del consumismo come valore, per approdare a quella del dominio dei beni di consumo. Il culto della classe operaia e del riscatto tramite un onesto lavoro appare sempre meno attraente in una società nella quale il lavoro ha un carattere sempre più frammentario e astratto, dove l'appartenenza a una classe è sempre meno definibile e importante ai fini dell'identità sociale e il consumo privato diviene l'ultimo rifugio dell'individuo desocializzato. In una società nella quale la volontà di potenza è sempre più incanalata verso il consumo di beni, non solamente le vecchie politiche di classe, ma anche le teorie sociali apparentemente più radicali si sono rivelate impotenti. Wilhelm Reich, ad esempio, ha dimostrato come il capitalismo sia responsabile della repressione degli istinti ed ha chiamato in causa non solo il sistema economico attuale, ma anche lo stato e l'istituto del patriarcato. Tuttavia, soprattutto a partire dagli anni '70 si è constatato come il capitale sia in grado di superare, almeno per quanto lo concerne, la fase della repressione degli istinti per giungere a quella che Marcuse ha chiamato "desublimazione repressiva". È perciò in grado di promuovere una "sua" rivoluzione sessuale, per non parlare delle "sue" particolari versioni dei movimenti femministi, per la tutela delle minoranze, ecc.. Liberazione assume il significato di ribellione a tutte le forme sociali obsolete che ostacolano il processo di diffusione consumistica. Portata all'estremo, in questa accezione, presuppone l'uguaglianza - il diritto di consumare e di essere consumati senza discriminazioni.
Il sistema dominante sembra avere capacità pressoché infinite di fagocitare o recuperare idee e attività critiche. Dobbiamo per questo abbandonarci alla disperazione e alla rassegnazione che oggi vanno tanto di moda? Dobbiamo cercare di trarre profitto dal valore attuale di mercato di quel particolare idealismo in versione castigata, che si può anche far passare per "nuova filosofia"? Credo invece che prima di farci prendere dallo sconforto e prima di svendere le illusioni perdute dobbiamo considerare la possibilità che la nostra critica non sia stata abbastanza profonda e che le nostre azioni non siano state sviluppate a sufficienza. Infatti, la maggior parte della sinistra, mentre si dava da fare per lottare in vari modi contro il sistema di dominazione definiva ancora la propria problematica nei termini politici della lotta di classe, accettando di conseguenza molti presupposti della società autoritaria. Così, anche nei suoi momenti storici migliori la sua critica al sistema industriale tecnologico e al dominio dell'uomo sulla natura è stata gravemente limitata.

verso una comunità di comunità

La problematica libertaria consiste naturalmente, oggi, nella elaborazione di una concezione coerente, sistematica e profondamente critica della realtà e di una pratica adeguata alla necessità di trasformare la società conformemente a questa concezione. Se vogliamo riuscire nell'intento di cambiare il sistema della dominazione, dobbiamo acquisire una conoscenza e una comprensione globali della realtà, ivi compreso l'universo simbiotico mediante il quale interpretiamo e costruiamo l'ambiente. Di conseguenza, dobbiamo risolvere una infinità di problemi ontologici, sociali e psicologici. Fortunatamente, negli ultimi anni il movimento libertario ha compiuto passi lenti ma significativi verso questo obiettivo di concezione globale, particolarmente in quanto è giunto ad assumere la prospettiva ecologica come termine di correlazione macroscopico (di filosofia della natura) della concezione libertaria di una società cooperativa organizzata su basi volontarie. Si è mosso anche verso una teoria complessiva e organica della realtà, una teoria che propone una visione distinta della natura, della società umana, del gruppo e dell'individuo o della persona. Inoltre, il movimento ha aperto la strada verso una pratica coerente per la fondazione di una nuova cultura libertaria in grado di contrastare il predominio sociale, politico, economico e psicologico della cultura ufficiale, con i suoi valori fondati sull'individualismo atomistico, sul consumo egoistico e sulla volontà del potere. A questa visione del mondo come una collezione di parti frammentarie e contrastanti (di cui la metafisica, l'etica e la filosofia sociale coincidono sommariamente con la teoria dei deterrenti usata dai giuristi criminali) si contrappone la concezione organica ed ecologica, che prospetta una realtà nella quale la globalità risulta dall'unità nella diversità e nella quale lo sviluppo e la piena realizzazione del particolare dipendono da complessi rapporti di interrelazione reciproca nell'ambito della sfera totale. L'universo non è inteso come un meccanismo privo di vita bensì come un tutto organico, come una globalità formata da processi espliciti e compenetrati gli uni negli altri. Anche la società deve tramutarsi, al pari della natura stessa, in una comunità organica e integrata. Solo attraverso una interazione non viziata dalla dominazione, o - per dirla con Martin Buber - in una società che sia comunità di comunità, gli esseri umani potranno realizzarsi come persone, come individui.
L'esistenza di una siffatta società dipende dallo sviluppo di una moltitudine di piccoli gruppi personali, che costituiscono il tessuto organico della società organica. Questi gruppi devono, da un lato, essere fondati sugli istinti sociali e sui bisogni dell'uomo; dall'altro, devono offrire una struttura adatta allo sviluppo del desiderio creativo e della immaginazione sociale. Ma alla base di tutto ciò dovrà essere una nuova concezione dell'"io" - un "io" intrinsecamente organico, che abbia la natura di un processo; un "io" non ridotto ad oggetto, o diviso e contrapposto a se stesso, bensì sintesi armoniosa di passione, razionalità e immaginazione. Questo "io" è una creazione sociale, una personificazione della natura umana nel suo processo storico di sviluppo, ma al tempo stesso anche l'espressione autonoma più individualizzata e peculiare della realtà e perciò processo creativo nella sua forma più estrema.
Che cosa comporta tutto ciò a livello pratico? Significa che la problematica libertaria, per quanto riguarda il campo dell'azione e dell'organizzazione, è soprattutto una problematica di rigenerazione sociale. Posto di fronte alle verità ultime della civiltà occidentale - disintegrazione, atomizzazione, egoismo e dominazione - il movimento deve prima di tutto creare modelli di interazione libertaria (anzi, di più: comunitaria) a livello di base, cioè di gruppi di affinità. Significa anche che, nel migliore dei casi, organizzazioni quali i gruppi anarcosindacalisti e le federazioni anarchiche non saranno in grado di innescare una trasformazione sociale, quando, nel caso peggiore, non saranno addirittura veicoli per la riproduzione del sistema di dominazione, a meno che non operino sulla base di una cultura libertaria saldamente consolidata e diffusa, nell'ambito di rapporti umani libertari e con una visione libertaria della realtà.
In un certo senso, il problema è quello di riprendere l'opera iniziata dalla controcultura degli anni '60, ma questa volta con l'apporto di un movimento libertario culturale conscio di se stesso. Nessuno dei temi e dei problemi che erano venuti alla luce in quegli anni ha perso valore. Il movimento, perciò, non dovrà solamente avere solide radici nei gruppi di affinità e cercare di sviluppare i rapporti libertari fondamentali, ma dovrà anche tendere alla realizzazione di una più ampia struttura culturale e organizzativa. Senza lasciarsi ingannare dall'idea che una qualsiasi forma di organizzazione sia sufficiente per giungere alla trasformazione sociale, il movimento dovrà offrire sempre nuovi stimoli alla istituzione di cooperative, collettivi e comuni, fattori essenziali all'evoluzione di una cultura libertaria. Allo stesso modo, dovrà favorire lo sviluppo e l'applicazione di una tecnologia decentralizzata e libertaria, e dovrà riscoprire la centralità dell'educazione libertaria, area nella quale hanno operato le tendenze più avanzate del libertarismo, da Tolstoj alle sperimentazioni più mature e consapevoli degli anni '60. Infine, il movimento non dovrà dimenticare l'importanza della dimensione estetica, portando avanti la ricca tradizione libertaria di espressione individuale, poiché l'anarchismo è, se mai ve ne furono, sintesi tra arte e vita e - per dirla con Murray Bookchin - l'idea stessa della comunità come opera d'arte.
La contrapposizione tra i valori dell'egoismo, della mercificazione e della dominazione con quelli del comunitarismo libertario non dà luogo a una lotta di classe in senso tradizionale, ma è piuttosto la lotta della comunità contro la società di classe, la società della divisione e della dominazione. Di conseguenza, non si tratta più della lotta del lavoratore socialista, che vuole subentrare all'individuo borghese come soggetto della storia, ma dell'emergere della persona, dell'individuo sociale organico, che attraverso la realizzazione sociale e comunitaria di sé deve combattere quelle forze e quelle ideologie che lo costringono all'asocialità (individualismo, privatismo) o al semplice ruolo di produttore (produttivismo).

contro il sistema di dominazione

Non vorrei aver dato, con quanto detto finora, l'impressione che l'analisi di classe e la lotta di classe, intese nel senso più ampio, abbiano perduto valore e significato. Al contrario, uno degli elementi chiave della problematica libertaria è la necessità di elaborare una analisi più adeguata delle strutture di classe, sia per quanto concerne la società contemporanea, sia per ciò che attiene al passato. Già alcuni passi promettenti in questa direzione sono stati fatti.
Immune dal mito della classe operaia, la teoria libertaria può evidenziare il ruolo creativo che le società contadine e le culture tribali hanno esercitato nella storia e persino nella preistoria e il potenziale, di cui diedero ampia manifestazione, per lo sviluppo di forme sociali libertarie e comunitarie. Inoltre, può continuare a documentare il fatto che la stessa classe lavoratrice si è rivelata più rivoluzionaria, più libertaria, più critica e più socialmente creativa nelle sue fasi di transizione e non in quelle durante le quali ebbe un carattere "proletario" e "industriale" nel senso più classico del termine. Nel passato se ne ha un esempio in quei gruppi che erano stati strappati alla società tradizionale e comunitaria e cominciavano appena a socializzarsi nel sistema industriale. Nel futuro, ciò potrà verificarsi di nuovo solo a condizione che la classe lavoratrice tradizionale continui a disintegrarsi e un numero sempre maggiore dei suoi membri risenta dell'influenza, o inizi a partecipare allo sviluppo di una cultura libertaria e comunitaria post-industriale.
Ancora, la teoria libertaria, riconoscendo l'irriducibile realtà del potere politico, può chiarire la funzione della nuova classe tecnoburocratica nella società del capitalismo di stato e corporativo. Infine, sostituendo all'economicismo riduzionista ormai obsoleto il concetto più appropriato del sistema di dominazione, può contribuire all'analisi e alla comprensione del rapporto tra forme di dominazione quali il patriarcato, il potere politico, la dominazione tecnologica, il razzismo e lo sfruttamento economico, evidenziando così l'interazione - e perciò sia le contraddizioni che il reciproco rafforzamento - all'interno del sistema totale tra classe economica, classe sessuale, classe politica e classe etnica. Ciò è particolarmente utile al fine di stabilire un collegamento tra le strutture della dominazione nella società capitalista classica e quelle della società pre-capitalista, tardo-capitalista e post-capitalista.
A questa analisi di classe in senso più ampio deve accompagnarsi una pratica della lotta di classe ugualmente più ampia, anche se certamente non nel senso di trovare le strategie per il momento presente più confacenti a una classe lavoratrice di tipo messianico. Compito del movimento libertario dovrà essere invece combattere il potere materiale e ideologico di tutte le classi dominanti, sia economiche che politiche, razziali, religiose o sessuali, tramite una pratica libertaria multidimensionale. Questa pratica dovrà integrare tra loro, nell'ambito della lotta sui vari fronti della dominazione, le attività più diverse. Vi saranno comprese, naturalmente, azioni sul piano economico, e cioè scioperi, boicottaggio, occupazioni, organizzazione di gruppi di azione diretta, federazioni di gruppi di lavoratori libertari, organizzazione di assemblee, collettivi e cooperative; azioni sul piano politico, e cioè non solo attività anti-elettorale, ma in alcuni casi votazioni strategiche, specialmente nei referendum e nelle elezioni locali, oltre a iniziative volte a contrastare attivamente l'incremento delle forze repressive di polizia, a manifestare opposizione e resistenza all'irreggimentazione e alla burocratizzazione della società e al controllo della popolazione con mezzi tecnologici e infine collaborazione attiva con i movimenti che operano per accrescere il grado di partecipazione al potere decisionale e di controllo nelle comunità locali; attività di tipo ideologico, cioè attività miranti a realizzare nel campo delle arti, dei mezzi di comunicazione e a livello simbolico la possibilità di individuare le forze della dominazione, per contrapporvi un sistema di valori fondato sulla libertà e sulla comunità. Infine, a tutto ciò dovrà accompagnarsi una pratica continua di trasformazione psicologica, tale, per cui tutti i gruppi impegnati nella lotta contro la dominazione si sforzino coscientemente di tener fede ai principi dei rapporti umani e personali, della partecipazione diretta, più una struttura interna non gerarchica, del rispetto per l'integrità e l'individualità di ciascun membro. Gli anni '60 ci hanno insegnato quanto sia futile tentare di inserire, o meglio sommergere, la presenza libertaria nelle organizzazioni di massa fondamentalmente non libertarie o in "movimenti" vagamente ecumenici. Se il movimento libertario vuole crescere e svilupparsi in modo organico, deve difendere ferocemente il carattere libertario dei gruppi primari e convincersi che la natura essenziale di ogni organizzazione libertaria non è quella di pura e semplice forma di lotta contro una o anche "tutte" le forme della dominazione, bensì quella di elemento di un processo globale di ricreazione culturale.
La problematica libertaria porta in sé il concetto di negazione: negazione della dominazione, dell'alienazione e della disgregazione sociale. Tuttavia, un movimento che degeneri nella negatività fine a se stessa - nel puro e semplice risentimento collettivo degli alienati - è condannato all'impotenza, all'assenza di energia creativa. Ci fu chi definì il soggetto rivoluzionario come una classe con catene radicali - che affermi, cioè: "Sono nulla, dovrei essere tutto". Eppure questa aspirazione al passaggio dal nulla assoluto alla pienezza dell'essere potrebbe essere realizzata da un'Idea Assoluta, forse anche dal Proletariato, ma è fuori dalla portata e dalle capacità dei semplici mortali. Ciò di cui abbiamo bisogno, dunque, non è una classe con catene radicali, ma una cultura con radicale libertà.
I vincoli più radicali non sono quelli dell'oppressione di classe, ma quelli di una comunità libera.