Rivista Anarchica Online
Anarchismo ottanta: dalla classe alla cultura
di John Clark
Tra le voci più interessanti dell'anarchismo contemporaneo negli Stati Uniti, registriamo su
questo numero quella di John Clark. Dal numero 7 della rivista Black Rose ("Rosa Nera") edita
a Boston, pubblichiamo (nella traduzione di Michele Buzzi) il saggio The politics of liberation:
from class to culture ("Le politiche della liberazione: dalla classe alla cultura"). Come a suo
tempo quando pubblicammo la nostra intervista con Murray Bookchin ("A" 93), è necessario
sottolineare che il contesto nel quale si sta sviluppando questa nuova cultura anarchica
nordamericana è per tanti aspetti profondamente diverso dal nostro, per la sua storia passata
come per il presente. Vogliamo comunque rilevare un punto di profondo dissenso con le tesi di
Clark, laddove egli auspica una partecipazione degli anarchici ad elezioni su scala locale e ai
referendum: attualmente, infatti, entrambe queste forme di "partecipazione" rientrano appieno
nel sistema e vengono utilizzate per accrescere il consenso intorno alle istituzioni.
Contrariamente a Clark, non riteniamo possibile alcun utilizzo "alternativo" delle urne.
Fino a poco tempo fa porre la questione della natura della "problematica libertaria" sarebbe
sembrata un'impresa piuttosto donchisciottesca. In quale ambito la si poteva collocare? Tra i
sogni dei sopravvissuti ai movimenti dei lavoratori, ormai morti e sepolti? Tra le fantasie degli
utopisti? Se, da una parte, la pratica libertaria non era mai stata del tutto abbandonata, dall'altra
era evidente che il movimento, seppure storicamente importante, si era ridotto a una pratica
insignificante. L'ideale eroico che un tempo aveva infiammato le masse sembrava destinato ad
essere relegato nel regno della nostalgia, o della fantascienza. Nulla e nessuno, neppure quei
regimi dittatoriali che avevano combattuto con ogni mezzo le sue idee e i suoi seguaci, era mai
riuscito ad avere ragione dell'anarchismo: eppure, per colmo d'ironia, esso pareva
irrimediabilmente avviato alla fine. D'altro canto, vi è sempre un luogo nel quale le forze che
agiscono nella storia ristagnano e si assopiscono e forse era giusto che l'anarchismo avesse eletto
a propria temporanea dimora la sfera dell'immaginazione. Non v'è dubbio che l'immaginazione,
senza un movimento, sia comunque preferibile a un movimento privo di immaginazione, ma ora
è forse giusto il momento di poterli riavere entrambi. Verso la fine degli anni '60, cogliendo quasi
tutti alla sprovvista (ad eccezione dei pochi idealisti e visionari di sicura fede ancora rimasti) il
movimento fece nuovamente la sua comparsa alla ribalta della storia. Oggi è dunque nuovamente
possibile sperare che l'anarchismo sia qualcosa di più che un bel sogno e che in futuro la sua
funzione storica sia tale da farne apparire il passato solo come i primi passi vacillanti, una
parentesi di secondaria importanza. Su quali basi può fondarsi questa speranza?
fanatismo o ribellione
Se è vero che anche solo una generazione fa l'anarchismo era stato - per usare un'espressione cara
ai burocrati - "cancellato dall'agenda" della storia, potrebbe essere vicino il tempo in cui esso sarà
in grado di riconquistare lo spazio perduto e magari di modificare radicalmente l'"agenda" stessa,
o addirittura di farla a pezzi. Siamo infatti a un punto cruciale, nel quale i problemi più
importanti si impongono all'attenzione di tutti, nel quale inizia a prendere forma un progetto
storico concreto e dunque la "problematica" può finalmente collocarsi nella realtà. Le due
ideologie dominanti si sono dimostrate fallimentari e la fiducia delle masse, soggette al sistema
di dominazione, capitalista o socialista, è duramente scossa. Il cinismo e la disillusione,
sentimenti letali per quelle ideologie che si fondano sul mito di un progresso illimitato e sul
messianesimo mondiale, sono sempre più diffusi. Ciò non significa che la gente non sia più
disposta ad accettare; significa però che lo fa con forzata rassegnazione e malcelato
risentimento.
Sempre più ci ci avviciniamo al punto di una scelta diversa e radicale: non più tra capitalismo e
socialismo, ma tra fanatismo o ribellione. Bisognerà rassegnarsi a toccare il fondo della malafede
e dell'ipocrisia o riconoscere il fallimento delle vecchie strutture simboliche; accettare lo sterile
dogmatismo necessario alla sopravvivenza di una religione ormai defunta o la negatività creativa
delle illusioni rivelatesi null'altro che tali. Per la prima volta, forse, gli esseri umani (e non solo i
teorici) si rendono conto che ciò che conta non è il contrasto tra due ideologie ugualmente
aberranti, bensì quello tra l'ideologia e la realtà. Come Nietzsche aveva profetizzato, stanno
finalmente venendo alla luce i rapporti di potere che costituiscono la caratteristica fondamentale
comune a tutte le ideologie, per quanto "democratiche", "umanistiche" o "socialiste" esse siano, e
ci troviamo di fronte alla terrificante prospettiva di una scelta cosciente e consapevole. La disgregazione delle
ideologie tradizionali, sia di destra che di sinistra, pone con drammatica
urgenza il problema della formulazione della problematica libertaria. Si tratta, in sostanza, di
stabilire se il movimento libertario sarà in grado di tagliare i ponti con le ideologie agonizzanti e
saprà fornire una indicazione cosciente e consapevole per la costruzione di una nuova realtà
sociale, oppure se perderà l'occasione di contribuire alla rottura definitiva con le forme di
dominazione del passato. Se è facile individuare i fattori "oggettivi" e "soggettivi" che
costituiscono le cause materiali, sociali e psicologiche, dell'attuale crisi dei sistemi dominanti
(depauperamento delle risorse, disastro ecologico, ristagno dell'economia, resistenza al
neocolonialismo, disgregazione sociale interna, declino delle strutture motivazionali repressive,
indebolimento delle legittimazioni istituzionali, ecc.), non per questo bisogna sottovalutare
l'impegno che la lotta richiederà. Non c'è sicurezza che le possibilità alternative libertarie
si
svilupperanno, a meno che non si creino adeguati agenti di trasformazione sociale sia pratica che
teorica. Non possiamo fare assegnamento su una qualche inesorabile marcia della storia che ci
salvi anche se la nostra trasformazione storica è un fallimento. Inoltre, più le strutture dominanti
si sentiranno minacciate dalle forze di disgregazione interne e
dagli agenti esterni, maggiore sarà la pressione fisica e psicologica per garantirsi la
sopravvivenza. Ecco perché crediamo ci sia una buona dose di verità nel vecchio slogan, secondo
il quale la nuova società deve essere creata nel guscio della vecchia - sia perché la vecchia deve
essere tramutata il più rapidamente possibile in un guscio vuoto, tale per cui la si consideri
sempre più un impedimento, un fattore puramente meccanico, un ostacolo allo sviluppo; sia
perché questa irrealtà relativa deve essere posta in contrasto con la pienezza e le realtà
crescenti
della nuova società. Se ciò non avvenisse, ricadremmo negli errori del passato, con conseguenze
forse più gravi. Da un lato, un radicalismo criticamente inconsapevole e non pienamente
sviluppato, cioè una pura e semplice reazione, favorirebbe uno strenuo dogmatismo reazionario,
che saprebbe imporsi ricorrendo a una repressione ancora maggiore dell'attuale. Dall'altro lato, se
un radicalismo di tal fatta riuscisse a scatenare le energie alimentate dalla paura e dalla
frustrazione, saremmo testimoni di nuove "rivoluzioni", le quali a loro volta si rivelerebbero
soltanto più recenti trasformazioni delle vecchie forme di dominazione. La storia di questo secolo
dovrebbe averci insegnato che l'attività "rivoluzionaria" settaria e non pienamente sviluppata può
essere un mezzo efficacissimo per la conquista del potere ad opera delle forze autoritarie sia della
destra che della sinistra. Chi può negare, infatti, che nel feticismo rivoluzionario risieda uno dei
più possenti meccanismi della dominazione?
la tradizione libertaria negli Stati Uniti
Cerchiamo allora di capire quale potrà essere, tenendo conto dell'esperienza storica, la risposta
del movimento libertario. Esistono, io credo, nell'ambito della sinistra libertaria, o, più
specificatamente, del movimento sociale anarchico, due linee di sviluppo storicamente rilevanti e
attualmente riemergenti. Da un lato, quella di chi pensa ancora all'emancipazione sociale
soprattutto in termini di modi di produzione, di analisi economica e di lotta di classe. Dall'altro,
quella di coloro i quali perseguono un tipo di approccio multidimensionale, che potremmo
definire caratterizzato in senso culturale. Entrambe queste tendenze godono di largo seguito,
oggi, all'interno dei movimenti politici libertari sia americani che europei, anche se la forza
relativa di una o dell'altra varia considerevolmente da paese a paese. Negli Stati Uniti la tradizione libertaria ispirata alle strategie e alle organizzazioni con matrice di
classe si può far risalire ai movimenti dei lavoratori immigrati della fine dello scorso secolo, oltre
che a larga parte del sindacalismo rivoluzionario degli IWW, di origine prevalentemente
americana. Nelle linee fondamentali, le idee proprie di questi movimenti coincidevano con quelle
dei movimenti anarcosindacalisti e sindacalisti rivoluzionari europei dei secoli XIX e XX. Le
radici della dominazione affondavano soprattutto nel sistema capitalistico e nello stato.
L'obiettivo era quello di organizzare la classe lavoratrice in una forza capace di rovesciare lo
stato, cioè il potere sul quale si reggeva lo sfruttamento economico, paradigma e fondamento di
ogni forma di dominazione. Il perseguimento di questo obiettivo, anche attraverso l'insurrezione
("rivoluzione") o l'azione economica di classe ("sciopero generale") avrebbe consentito
l'instaurazione di un nuovo ordine economico fondato sull'autogestione e la creazione di una
società fondata sull'uguaglianza, sulla libertà e sulla giustizia. In definitiva, nulla di nuovo, dal
momento che queste stesse idee erano state ampiamente diffuse sia in America Latina, sia
nell'Europa meridionale, prima che i movimenti operai di quei paesi cedessero al comunismo e al
riformismo, o fossero annientati dal fascismo. L'unico contributo originale americano fu quello
dei Wobblies (Industrial Workers of the World, o IWW), i quali cercarono di elaborare un
programma ancor più radicalmente economicistico e interamente basato sull'analisi economica di
classe, che irrealisticamente (ma coerentemente al carattere americano del movimento) relegava
nella sfera del "privato" quei problemi religiosi e politici che tanta parte avevano
nell'anarcosindacalismo europeo. I Wobblies immaginavano una società futura organizzata
economicamente dai lavoratori secondo il modello dei sindacati industriali degli IWW. Non
rifiutavano, perciò, lo stato in quanto tale - i membri del movimento erano liberi di prendere
parte all'attività politica, di astenersene, di avversarla, purché ciò non interferisse con il
progetto
della One Big Union, il grande sindacato unico. Gli IWW cercarono dunque di realizzare
un'alleanza di classe su vasta scala, una sorta di versione radicale del pragmatismo americano, a
scapito della coerenza e della comprensibilità a livello teorico e strategico. Tuttavia, nonostante i
problemi e le ambiguità che ciò comportava, molti libertari scelsero (e, in una certa misura,
ancora oggi scelgono) di militare nelle file dei Wobblies, soprattutto dopo che i tentativi di
organizzare stabilmente e su larga base un movimento anarcosindacalista tra i lavoratori
immigrati fallì.
controcultura e offensiva restauratrice
La seconda tendenza, quella che ho definito culturalmente orientata, è sempre esistita come parte
integrante della tradizione libertaria americana e, data la relativa debolezza delle organizzazioni
di classe negli Stati Uniti, ha avuto nel nostro paese una forza proporzionalmente assai superiore
a quella di cui godette in Europa. Nel diciannovesimo secolo il movimento comunitario
concentrò in sé una parte importante delle attività libertarie e sviscerò una miriade
di problemi
attinenti alla vita di tutti i giorni, ivi compresi quelli relativi alla sessualità, all'educazione
dell'infanzia, all'autonomia decisionale dei piccoli gruppi sociali. Benché le comuni del
diciannovesimo secolo siano rimaste sempre un fenomeno marginale nella società americana,
esse costituirono una fonte continua di ispirazione e contribuirono perciò a mantenere vivo e a
rinnovare l'ideale comunitario. Nel ventesimo secolo la tradizione è stata ripresa da un certo
numero di gruppi che hanno posto l'accento sulla produzione cooperativa, sulla
decentralizzazione e, spesso, su un modo di vita non violento. Valori come questi sono stati fatti
propri da movimenti quali il Catholic Worker ("Lavoratore cattolico") e il School of Living
("Scuola di vita"). Fu però negli anni '60, con l'ondata della controcultura, che questa tendenza
divenne nuovamente il punto focale dell'attività creativa libertaria. La nuova, esplosiva diffusione
del comunitarismo fu soltanto uno dei fenomeni innescati dallo sviluppo culturale libertario.
Anche le attività dei movimenti di liberazione che proliferarono in quegli anni - i movimenti per
una scuola libera e un'educazione alternativa, i movimenti per la liberazione del bambino, della
donna, degli omosessuali, la psichiatria radicale, i movimenti ecologici, i movimenti per la
liberazione dei neri e degli indiani d'America, i movimenti pacifisti e studenteschi, i movimenti
cooperativistici, i mezzi di comunicazione alternativi e le organizzazioni di quartiere - erano
cariche di impulsi libertari. Differenti nelle manifestazioni esteriori, tutti questi movimenti
ponevano l'accento sulla partecipazione, sulla decentralizzazione, sui rapporti di cooperazione
reciproca e sulla liberazione dagli schemi della dominazione. Inoltre, la stessa "controcultura"
fenomeno che potrebbe essere considerato alla stregua di un movimento a carattere generale, con
l'obiettivo della ricreazione sociale e solo parzialmente coincidente con i movimenti citati più
sopra) contribuì alla creazione di una dimensione culturale fortemente caratterizzata, attribuendo
grande importanza e consapevolezza, valori e personalità e indagando sulle implicazioni
repressive/liberatorie delle forme di linguaggio, di comunicazione, musicali, artistiche e sulla
dimensione simbolica in generale. In breve, cominciò a svilupparsi una sorta di proto-cultural libertaria,
che per molti versi costituì
una delle più avanzate anticipazioni di ciò che avrebbe potuto essere una futura società
libertaria.
E tuttavia fu, purtroppo, soltanto un'anticipazione - più una rivelazione di possibilità che una
realizzazione di attualità. Le sue radici affondavano troppo poco profondamente nella società
americana. Era il prodotto di eventi fortuiti e di condizioni effimere. In un certo senso conteneva
una visione positiva, ma nel complesso era ancora troppo caratterizzata da una negatività
immediata, da una reazione alla cultura dominante ancora irriflessiva e non pienamente
sviluppata ("viscerale", come si diceva). A tal punto le mancava il senso della storia, da non
riuscire neppure a discernere le stesse forze che l'avevano creata, né quelle con le quali doveva
misurarsi. Non comprese quanto sia potente la forza della mercificazione né l'importanza del
codice dei valori dello spettacolo. Perciò, fu facile preda del sistema, che la fagocitò. Come
esempio della totale appropriazione dei temi della controcultura da parte del sistema
consumistico, basti citare il deprimente film Hair. In questa parodia della controcultura datata
1980 non v'è più traccia alcuna di una "nuova sensibilità" liberatoria, né tanto meno
una ricerca
comunitaria, ma solo e unicamente l'immagine della più egoistica intemperanza. La ribellione
viene presentata come conformismo radicale - per il divertimento degli spettatori. Il fenomeno della
controcultura fu contrassegnato da povertà e incoerenza a livello teorico, ma
ciò non sorprende, vista la sua natura frammentaria e nient'affatto complessiva. Produsse
illuminanti visioni e consentì audaci sperimentazioni, ma non raggiunse mai quel grado di sintesi
necessario a darle forza e a farla durare nel tempo. Insomma, contribuì a sviluppare molti
elementi utili alla creazione di una cultura libertaria, senza mai riuscire ad esserlo essa stessa. Il
risultato di tutto ciò furono gli anni '70, cioè disintegrazione e recupero. È pur vero che
molte
delle conquiste degli anni '60 non andarono perdute e che alcuni dei valori emersi allora si
consolidarono e svilupparono nel decennio successivo. È anche vero che l'evoluzione storica non
si può giudicare dal contenuto dei mezzi di comunicazione e dell'informazione. Tuttavia, a coloro
i quali avevano creduto di vedere i segni di un movimento in direzione di una cultura fondata su
valori libertari e comunitari, gli anni '70 lasciarono in bocca il sapore amaro delle occasioni
mancate: il periodo dell'umanizzazione del lavoro, i sindaci neri (e persino i sindaci neri
repubblicani!), le donne dirigenti, la depenalizzazione della marijuana, i locali porno, il
governatore Jerry Brown, i cereali naturali e gli Amici della Terra; insomma, lo scontro tra la
vecchia realtà e quella che è stata efficacemente definita la "negatività artificiale". Se saremo
abbastanza fortunati da rintuzzare l'offensiva, che si preannuncia possente, dei vecchi valori della
dominazione - nazionalismo, razzismo, sessismo, eterosessismo, ecc. - l'alternativa che ci si pone
è quella di una società consumistica perfezionata al massimo grado - una società,
cioè, nella
quale ciascuno abbia ugual diritto di essere consumatore e a candidarsi come oggetto da
consumare.
ma il proletariato è rivoluzionario?
Quale dev'essere la risposta dei libertari a questo problema? Un ritorno alla politica di classe, un
nuovo tentativo di trasformazione culturale, o una sintesi di entrambi? Innanzitutto, non bisogna dimenticare
che la tradizione politica della lotta di classe non era priva
di una dimensione culturale e anzi era portatrice di una concezione implicita dell'umanità e della
natura. Secondo questa concezione, la persona è prima di tutto un lavoratore, un produttore. Di
conseguenza, il dramma della storia consiste nel fatto che i lavoratori, i quali producono tutti i
beni necessari alla vita e al benessere, e dalla cui attività dipende il progresso futuro dell'umanità,
sono derubati dei frutti del loro lavoro e dei benefici che ne derivano. Il lavoro è lo strumento
fondamentale del progresso sociale, per la liberazione dell'umanità dal bisogno dal legame con la
natura. Essere un lavoratore è dunque una virtù, mentre non esserlo è una colpa inscindibile
da
quella dello sfruttamento. Il problema è quello di trasformare tutte le persone in lavoratori e
quello di conquistare ai lavoratori il controllo sulla produzione - di instaurare, cioè, l'autogestione
universale. Quando ciò si verificherà, l'utopia produttiva sarà realizzata e, come dicevano
gli
IWW, "tutte le cose buone della vita" - cioè i prodotti e i servizi, i "beni" - non saranno più
monopolizzati dai capitalisti, ma equamente spartiti tra tutti. Questa ideologia, che critica duramente il
capitalismo e coloro i quali traggono vantaggio dal suo
sistema di sfruttamento, è, ciò nonostante, né più né meno che una variante
particolare
dell'ideologia produttivista dello sviluppo del capitalismo - ovvero la versione della stessa
formulata dalla parte della classe lavoratrice (e non bisogna dimenticare che il proletariato, così
come la borghesia, è una classe capitalista per eccellenza). Essa coincide infatti quasi
perfettamente, nei suoi punti essenziali, con la primitiva teoria capitalista del riscatto attraverso
la produzione materiale. In un certo senso, è la versione protestante della religione della
produzione - si sovvertono le gerarchie, ma la fede resta saldamente radicata nelle menti, nelle
coscienze e persino nell'inconscio dei credenti. La fede, infatti, sopravvive ancora, nonostante lo
stesso sistema capitalista stia mano a mano abbandonando la vecchia ideologia. Non c'è da
stupirsi, perciò, se la versione proletaria della medesima viene sempre più spesso accolta con
sbadigli da parte dei lavoratori privi di coscienza di classe e con fischi da parte dei
collaborazionisti di classe. Infatti la società caratterizzata dal capitalismo avanzato ha ormai
superato la fase del consumismo come valore, per approdare a quella del dominio dei beni di
consumo. Il culto della classe operaia e del riscatto tramite un onesto lavoro appare sempre meno
attraente in una società nella quale il lavoro ha un carattere sempre più frammentario e astratto,
dove l'appartenenza a una classe è sempre meno definibile e importante ai fini dell'identità
sociale e il consumo privato diviene l'ultimo rifugio dell'individuo desocializzato. In una società
nella quale la volontà di potenza è sempre più incanalata verso il consumo di beni, non
solamente
le vecchie politiche di classe, ma anche le teorie sociali apparentemente più radicali si sono
rivelate impotenti. Wilhelm Reich, ad esempio, ha dimostrato come il capitalismo sia
responsabile della repressione degli istinti ed ha chiamato in causa non solo il sistema economico
attuale, ma anche lo stato e l'istituto del patriarcato. Tuttavia, soprattutto a partire dagli anni '70 si
è constatato come il capitale sia in grado di superare, almeno per quanto lo concerne, la fase della
repressione degli istinti per giungere a quella che Marcuse ha chiamato "desublimazione
repressiva". È perciò in grado di promuovere una "sua" rivoluzione sessuale, per non parlare
delle "sue" particolari versioni dei movimenti femministi, per la tutela delle minoranze, ecc..
Liberazione assume il significato di ribellione a tutte le forme sociali obsolete che ostacolano il
processo di diffusione consumistica. Portata all'estremo, in questa accezione, presuppone
l'uguaglianza - il diritto di consumare e di essere consumati senza discriminazioni. Il sistema dominante sembra
avere capacità pressoché infinite di fagocitare o recuperare idee e
attività critiche. Dobbiamo per questo abbandonarci alla disperazione e alla rassegnazione che
oggi vanno tanto di moda? Dobbiamo cercare di trarre profitto dal valore attuale di mercato di
quel particolare idealismo in versione castigata, che si può anche far passare per "nuova
filosofia"? Credo invece che prima di farci prendere dallo sconforto e prima di svendere le
illusioni perdute dobbiamo considerare la possibilità che la nostra critica non sia stata abbastanza
profonda e che le nostre azioni non siano state sviluppate a sufficienza. Infatti, la maggior parte
della sinistra, mentre si dava da fare per lottare in vari modi contro il sistema di dominazione
definiva ancora la propria problematica nei termini politici della lotta di classe, accettando di
conseguenza molti presupposti della società autoritaria. Così, anche nei suoi momenti storici
migliori la sua critica al sistema industriale tecnologico e al dominio dell'uomo sulla natura è
stata gravemente limitata.
verso una comunità di comunità
La problematica libertaria consiste naturalmente, oggi, nella elaborazione di una concezione
coerente, sistematica e profondamente critica della realtà e di una pratica adeguata alla necessità
di trasformare la società conformemente a questa concezione. Se vogliamo riuscire nell'intento di
cambiare il sistema della dominazione, dobbiamo acquisire una conoscenza e una comprensione
globali della realtà, ivi compreso l'universo simbiotico mediante il quale interpretiamo e
costruiamo l'ambiente. Di conseguenza, dobbiamo risolvere una infinità di problemi ontologici,
sociali e psicologici. Fortunatamente, negli ultimi anni il movimento libertario ha compiuto passi
lenti ma significativi verso questo obiettivo di concezione globale, particolarmente in quanto è
giunto ad assumere la prospettiva ecologica come termine di correlazione macroscopico (di
filosofia della natura) della concezione libertaria di una società cooperativa organizzata su basi
volontarie. Si è mosso anche verso una teoria complessiva e organica della realtà, una teoria che
propone una visione distinta della natura, della società umana, del gruppo e dell'individuo o della
persona. Inoltre, il movimento ha aperto la strada verso una pratica coerente per la fondazione di
una nuova cultura libertaria in grado di contrastare il predominio sociale, politico, economico e
psicologico della cultura ufficiale, con i suoi valori fondati sull'individualismo atomistico, sul
consumo egoistico e sulla volontà del potere. A questa visione del mondo come una collezione di
parti frammentarie e contrastanti (di cui la metafisica, l'etica e la filosofia sociale coincidono
sommariamente con la teoria dei deterrenti usata dai giuristi criminali) si contrappone la
concezione organica ed ecologica, che prospetta una realtà nella quale la globalità risulta
dall'unità nella diversità e nella quale lo sviluppo e la piena realizzazione del particolare
dipendono da complessi rapporti di interrelazione reciproca nell'ambito della sfera totale.
L'universo non è inteso come un meccanismo privo di vita bensì come un tutto organico, come
una globalità formata da processi espliciti e compenetrati gli uni negli altri. Anche la società deve
tramutarsi, al pari della natura stessa, in una comunità organica e integrata. Solo attraverso una
interazione non viziata dalla dominazione, o - per dirla con Martin Buber - in una società che sia
comunità di comunità, gli esseri umani potranno realizzarsi come persone, come
individui. L'esistenza di una siffatta società dipende dallo sviluppo di una moltitudine di piccoli gruppi
personali, che costituiscono il tessuto organico della società organica. Questi gruppi devono, da
un lato, essere fondati sugli istinti sociali e sui bisogni dell'uomo; dall'altro, devono offrire una
struttura adatta allo sviluppo del desiderio creativo e della immaginazione sociale. Ma alla base
di tutto ciò dovrà essere una nuova concezione dell'"io" - un "io" intrinsecamente organico, che
abbia la natura di un processo; un "io" non ridotto ad oggetto, o diviso e contrapposto a se stesso,
bensì sintesi armoniosa di passione, razionalità e immaginazione. Questo "io" è una
creazione
sociale, una personificazione della natura umana nel suo processo storico di sviluppo, ma al
tempo stesso anche l'espressione autonoma più individualizzata e peculiare della realtà e
perciò
processo creativo nella sua forma più estrema. Che cosa comporta tutto ciò a livello pratico?
Significa che la problematica libertaria, per quanto
riguarda il campo dell'azione e dell'organizzazione, è soprattutto una problematica di
rigenerazione sociale. Posto di fronte alle verità ultime della civiltà occidentale - disintegrazione,
atomizzazione, egoismo e dominazione - il movimento deve prima di tutto creare modelli di
interazione libertaria (anzi, di più: comunitaria) a livello di base, cioè di gruppi di affinità.
Significa anche che, nel migliore dei casi, organizzazioni quali i gruppi anarcosindacalisti e le
federazioni anarchiche non saranno in grado di innescare una trasformazione sociale, quando, nel
caso peggiore, non saranno addirittura veicoli per la riproduzione del sistema di dominazione, a
meno che non operino sulla base di una cultura libertaria saldamente consolidata e diffusa,
nell'ambito di rapporti umani libertari e con una visione libertaria della realtà. In un certo senso, il
problema è quello di riprendere l'opera iniziata dalla controcultura degli anni
'60, ma questa volta con l'apporto di un movimento libertario culturale conscio di se stesso.
Nessuno dei temi e dei problemi che erano venuti alla luce in quegli anni ha perso valore. Il
movimento, perciò, non dovrà solamente avere solide radici nei gruppi di affinità e cercare
di
sviluppare i rapporti libertari fondamentali, ma dovrà anche tendere alla realizzazione di una più
ampia struttura culturale e organizzativa. Senza lasciarsi ingannare dall'idea che una qualsiasi
forma di organizzazione sia sufficiente per giungere alla trasformazione sociale, il movimento
dovrà offrire sempre nuovi stimoli alla istituzione di cooperative, collettivi e comuni, fattori
essenziali all'evoluzione di una cultura libertaria. Allo stesso modo, dovrà favorire lo sviluppo e
l'applicazione di una tecnologia decentralizzata e libertaria, e dovrà riscoprire la centralità
dell'educazione libertaria, area nella quale hanno operato le tendenze più avanzate del
libertarismo, da Tolstoj alle sperimentazioni più mature e consapevoli degli anni '60. Infine, il
movimento non dovrà dimenticare l'importanza della dimensione estetica, portando avanti la
ricca tradizione libertaria di espressione individuale, poiché l'anarchismo è, se mai ve ne furono,
sintesi tra arte e vita e - per dirla con Murray Bookchin - l'idea stessa della comunità come opera
d'arte. La contrapposizione tra i valori dell'egoismo, della mercificazione e della dominazione con quelli
del comunitarismo libertario non dà luogo a una lotta di classe in senso tradizionale, ma è
piuttosto la lotta della comunità contro la società di classe, la società della
divisione e della
dominazione. Di conseguenza, non si tratta più della lotta del lavoratore socialista, che vuole
subentrare all'individuo borghese come soggetto della storia, ma dell'emergere della
persona,
dell'individuo sociale organico, che attraverso la realizzazione sociale e comunitaria di sé deve
combattere quelle forze e quelle ideologie che lo costringono all'asocialità (individualismo,
privatismo) o al semplice ruolo di produttore (produttivismo).
contro il sistema di dominazione
Non vorrei aver dato, con quanto detto finora, l'impressione che l'analisi di classe e la lotta di
classe, intese nel senso più ampio, abbiano perduto valore e significato. Al contrario, uno degli
elementi chiave della problematica libertaria è la necessità di elaborare una analisi più
adeguata
delle strutture di classe, sia per quanto concerne la società contemporanea, sia per ciò che attiene
al passato. Già alcuni passi promettenti in questa direzione sono stati fatti. Immune dal mito della classe
operaia, la teoria libertaria può evidenziare il ruolo creativo che le
società contadine e le culture tribali hanno esercitato nella storia e persino nella preistoria e il
potenziale, di cui diedero ampia manifestazione, per lo sviluppo di forme sociali libertarie e
comunitarie. Inoltre, può continuare a documentare il fatto che la stessa classe lavoratrice si è
rivelata più rivoluzionaria, più libertaria, più critica e più socialmente creativa nelle
sue fasi di
transizione e non in quelle durante le quali ebbe un carattere "proletario" e "industriale" nel senso
più classico del termine. Nel passato se ne ha un esempio in quei gruppi che erano stati strappati
alla società tradizionale e comunitaria e cominciavano appena a socializzarsi nel sistema
industriale. Nel futuro, ciò potrà verificarsi di nuovo solo a condizione che la classe lavoratrice
tradizionale continui a disintegrarsi e un numero sempre maggiore dei suoi membri risenta
dell'influenza, o inizi a partecipare allo sviluppo di una cultura libertaria e comunitaria post-industriale. Ancora,
la teoria libertaria, riconoscendo l'irriducibile realtà del potere politico, può chiarire la
funzione della nuova classe tecnoburocratica nella società del capitalismo di stato e corporativo.
Infine, sostituendo all'economicismo riduzionista ormai obsoleto il concetto più appropriato del
sistema di dominazione, può contribuire all'analisi e alla comprensione del rapporto tra forme
di
dominazione quali il patriarcato, il potere politico, la dominazione tecnologica, il razzismo e lo
sfruttamento economico, evidenziando così l'interazione - e perciò sia le contraddizioni che il
reciproco rafforzamento - all'interno del sistema totale tra classe economica, classe sessuale,
classe politica e classe etnica. Ciò è particolarmente utile al fine di stabilire un collegamento tra
le strutture della dominazione nella società capitalista classica e quelle della società pre-capitalista,
tardo-capitalista e post-capitalista. A questa analisi di classe in senso più ampio deve accompagnarsi
una pratica della lotta di classe
ugualmente più ampia, anche se certamente non nel senso di trovare le strategie per il momento
presente più confacenti a una classe lavoratrice di tipo messianico. Compito del movimento
libertario dovrà essere invece combattere il potere materiale e ideologico di tutte le classi
dominanti, sia economiche che politiche, razziali, religiose o sessuali, tramite una pratica
libertaria multidimensionale. Questa pratica dovrà integrare tra loro, nell'ambito della lotta sui
vari fronti della dominazione, le attività più diverse. Vi saranno comprese, naturalmente, azioni
sul piano economico, e cioè scioperi, boicottaggio, occupazioni, organizzazione di gruppi di
azione diretta, federazioni di gruppi di lavoratori libertari, organizzazione di assemblee, collettivi
e cooperative; azioni sul piano politico, e cioè non solo attività anti-elettorale, ma in
alcuni casi
votazioni strategiche, specialmente nei referendum e nelle elezioni locali, oltre a iniziative volte
a contrastare attivamente l'incremento delle forze repressive di polizia, a manifestare opposizione
e resistenza all'irreggimentazione e alla burocratizzazione della società e al controllo della
popolazione con mezzi tecnologici e infine collaborazione attiva con i movimenti che operano
per accrescere il grado di partecipazione al potere decisionale e di controllo nelle comunità
locali; attività di tipo ideologico, cioè attività miranti a realizzare nel campo
delle arti, dei mezzi
di comunicazione e a livello simbolico la possibilità di individuare le forze della dominazione,
per contrapporvi un sistema di valori fondato sulla libertà e sulla comunità. Infine, a tutto ciò
dovrà accompagnarsi una pratica continua di trasformazione psicologica, tale, per cui tutti i
gruppi impegnati nella lotta contro la dominazione si sforzino coscientemente di tener fede ai
principi dei rapporti umani e personali, della partecipazione diretta, più una struttura interna non
gerarchica, del rispetto per l'integrità e l'individualità di ciascun membro. Gli anni '60 ci hanno
insegnato quanto sia futile tentare di inserire, o meglio sommergere, la presenza libertaria nelle
organizzazioni di massa fondamentalmente non libertarie o in "movimenti" vagamente
ecumenici. Se il movimento libertario vuole crescere e svilupparsi in modo organico, deve
difendere ferocemente il carattere libertario dei gruppi primari e convincersi che la natura
essenziale di ogni organizzazione libertaria non è quella di pura e semplice forma di lotta contro
una o anche "tutte" le forme della dominazione, bensì quella di elemento di un processo globale
di ricreazione culturale. La problematica libertaria porta in sé il concetto di negazione: negazione della
dominazione,
dell'alienazione e della disgregazione sociale. Tuttavia, un movimento che degeneri nella
negatività fine a se stessa - nel puro e semplice risentimento collettivo degli alienati - è
condannato all'impotenza, all'assenza di energia creativa. Ci fu chi definì il soggetto
rivoluzionario come una classe con catene radicali - che affermi, cioè: "Sono nulla, dovrei essere
tutto". Eppure questa aspirazione al passaggio dal nulla assoluto alla pienezza dell'essere
potrebbe essere realizzata da un'Idea Assoluta, forse anche dal Proletariato, ma è fuori dalla
portata e dalle capacità dei semplici mortali. Ciò di cui abbiamo bisogno, dunque, non è
una
classe con catene radicali, ma una cultura con radicale libertà. I vincoli più
radicali non sono quelli dell'oppressione di classe, ma quelli di una comunità libera.
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