Rivista Anarchica Online
Fabbrica, scuola di potere
di Murray Bookchin (da "Interrogations", n.17/18, 1979)
La fabbrica è una scuola gerarchica, di obbedienza e di comando, non è rivoluzionaria e
liberatoria. Riproduce in ogni momento, in ogni ora, il servilismo del proletariato, e non il suo
slancio rivoluzionario di portata storica. Non impedisce certo che venga ridotto ad oggetto, ma
anzi attenta alla sua individualità, alla sua capacità di trascendere i bisogni. Di conseguenza,
visto che l'autodeterminazione, l'iniziativa autonoma e l'individualità sono l'essenza stessa della
"dimensione della libertà", esse devono essere negate alla "base materiale" della società, per
trovare presumibilmente un'affermazione solo nelle sue "sovrastrutture" - almeno fino a quando
la fabbrica e le tecniche della produzione capitalista saranno concepite esclusivamente
dal punto
di vista tecnico, come elementi connaturali alla produzione. Dobbiamo presumere, poi, che questo regno
disumanizzante dei bisogni - vagliato da un'"autorità
imperiosa" - possa in qualche modo elevare e accrescere la coscienza di classe del lavoratore
disumanizzato, trasformandola in una coscienza sociale universale; e che questo operaio,
spogliato e privato di ogni individualità da una vita di quotidiano lavoro, possa in qualche modo
recuperare l'impegno e la competenza sociali necessari ad un processo rivoluzionario su vasta
scala e alla costruzione di una società veramente libera, fondata sull'autodeterminazione nel
senso più vero del termine. Infine, dobbiamo pensare che questa società libera possa eliminare la
gerarchia da una parte, mentre la conserva "imperiosa" da un'altra. Portato alla sua logica
estrema, il paradosso assume proporzioni assurde. La gerarchia, come una tuta da lavoro, diventa
un indumento di cui ci si veste nel "regno della libertà" per tornare ad indossarlo nel "regno dei
bisogni". Come un'altalena, la libertà oscilla nel punto in cui poniamo il fulcro sociale - magari al
centro della tavola, in una determinata "fase" della storia, o più spostata verso l'una o l'altra
estremità in un'altra "fase", ma sempre in modo che la misura sia sempre rapportabile alla
"giornata lavorativa". Questo fatale paradosso è comune al comunismo non meno che al sindacalismo.
Ciò che redime
quest'ultimo è l'implicita consapevolezza - assai esplicita, invece, nelle opere di Charles Fourier -
della necessità di privare la tecnologia del suo carattere gerarchico e grigio, monotono, per poter
creare una società libera. Nelle dottrine sindacaliste, tuttavia, questa consapevolezza è spesso
distorta dall'accettazione della fabbrica come infrastruttura della nuova società all'interno della
vecchia, come paradigma dell'organizzazione della classe operaia e come scuola per
l'umanizzazione del proletariato e per la sua mobilitazione come forza sociale rivoluzionaria. (...)
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