Rivista Anarchica Online
Bukowsky's business
di Franco Garnero
Fragoroso è scoppiato anche in Italia il fenomeno Bukowsky. È la solita vecchia storia:
il
maledetto, l'alternativo che viene sfruttato a fondo dal sistema, sino a diventarne parte. Come
era già accaduto in passato per Hemingway, per Miller, per Dylan, lo stratagemma ha
funzionato anche questa volta per Bukowsky: è nelle classifiche di vendita da parecchie
settimane con due edizioni dello stesso libro; tutte le vetrine dei librai espongono la copertina
con la foto di una donna, ovviamente nuda, della sua opera più fortunata. La Feltrinelli ha
puntato tutto su di lui, e sul suo equivoco pornografico, per rifarsi delle batoste precedenti e per
incrementare le grasse vendite natalizie. Tutti ne parlano, tutti ne approfittano per farsi un po' di
soldi e un po' di spazio al sole. Ma questo toccasana delle crisi del libro chi è? e quando è
arrivato? Per l'Italia Bukowsky viene battezzato in San Pietro - "La Repubblica" - dal santo Padre
degli
americanisti italiani, Beniamino Placido, il 18 maggio 1978. Prima di questa data è uscita, da
Feltrinelli, nel '75, solamente "Storie di Ordinaria Follia", una selezione dell'edizione
americana di "Erections, Ejaculations, Exibitions and General Tales of Ordinay Madness",
selezione completata in seguito, sempre da Feltrinelli, nel '79, con il volume intitolato
"Compagno di Sbronze". A proposito dell'operazione-speculazione Bukowsky guidata appunto
da Feltrinelli, può essere
curioso ed interessante considerare queste cifre: la quarta edizione di "Storie di Ordinaria
Follia", del '79, va al pubblico a L. 3.000 ed è un volume di 340 pagine; "Compagno di
Sbronze", invece, prima edizione a L. 6.000 è di appena 127 pagine. Nell'81 abbiamo due
edizioni di "Storie di ordinaria follia", a L. 5.500 nell'universale economica, e a L. 10.000
(quella della donna nuda), in una veste tipografica migliore. Ogni commento è
superfluo. Dopo la molto solenne celebrazione della "Repubblica" giunge, travolgente, il successo
di
pubblico. Quello di critica è stato sancito appena un attimo prima dall'articolo e
dall'introduzione di Beniamino Placido a "Factotum", della SugarCo, in cui l'esperto,
coscienziosamente, si scusa per il ritardo con cui ha informato la popolazione della bomba in
arrivo e scomoda tutti i grandi della letteratura americana e non, per inquadrare Bukowsky, per
descriverlo, cioè per circondarlo di parole, sino a renderlo una categoria. Un pizzico di filosofia
non guasta mai, e, come spesso accade da un po' di tempo a questa parte, viene chiamato in
causa anche Nietzsche. Il successo si estende a macchia d'olio, in città come in provincia,
e diventa un trionfo: a
Caserta, mi raccontano, i liceali un po' snob hanno fondato qualcosa di simile ad una società
"Amici di Bukowsky", per soli uomini, ovviamente, è abbordano il gentil sesso unicamente
secondo il suo stile. Pare che il metodo funzioni a meraviglia. Viene tradotto tutto il traducibile,
a furor di popolo. Un anno dopo, nel '79, abbiamo il
commiato da parte dei critici. Con "Taccuino di un vecchio porco", per l'ultima volta i critici si
occupano di lui, con l'introduzione di Carlo A. Corsi, in cui, però, non troviamo più lo stile
accattivante di Placido: gli elogi diventano più smaccati, ma lo stile del saggio comincia a
prendere le distanze dal narrato, cominciano a occhieggiare le citazioni in latino, e lo sforzo di
ingabbiare Bukowsky si fa più evidente ed intenso. Promoveat ut amoveat, insomma. A
mano a mano che il nome si diffonde, i dotti pigiano sul freno e tirano i remi in barca,
abbandonando il Buk al suo destino di oggetto di consumo e gli ritirano la patente culturale.
Noioso e scontato, affermano. Non si vuole qui negare che abbiano ragione, almeno in parte.
Alla lunga tutti quei cazzi e quelle fighe vengono a noia, le tiratine moralistiche dello scrittore
sono davvero micidiali, "Donne" è onestamente un romanzo bruttissimo ed asfissiante, ma, si sa,
in certi ambienti si va a caccia soltanto di primizie e di quanto di più sconosciuto offra la piazza.
È chiaro però che a questo punto l'apparato si appresta allo sfruttamento sistematico. Il vecchio
porco è ormai lanciatissimo, è diventato una buona macchina per far soldi, e "zampa d'elefante,
il fallito" che non è uno stupido, e nemmeno un puro, l'ha capito e lascia fare. Nella
primavera dell'81, contemporaneamente all'annuncio-anticipazione del film di Ferreri,
gira l'Italia la riduzione teatrale di "Donne", della cooperativa Granserraglio di Torino. E
siamo alla prima miope ed ottusa contraffazione. Donne nude e variazioni sul tema coito e poco
più. Certo in Bukowsky c'è molto di questo, ma c'è anche dell'altro. Guido Davico Bonino,
sulla
"Stampa" recensisce lo spettacolo scandalizzato e lo dileggia (più tenero è il commento di
"Repubblica"), confrontando le scenacce zozze di Meli con quelle da poco ammirate nel teatro
polacco itinerante di Wajda. In Bukowsky carne cruda a volontà, in Wajda sesso surreale. Se è
vero che Meli, il regista del Granserraglio, non si è molto sforzato di cogliere il senso del testo
che andava rappresentando, nemmeno G.D.B. dal canto suo ha tentato di capire la diversa
ispirazione dei due registi. E la riduzione teatrale è la prima grossa carognata, la prima
feroce coltellata nel corpaccione
di Chinasky. Ridotto e smembrato, castrato e umiliato, gira le piazze in versione "realista".
Nella rigorosa lettura integrale di alcuni racconti che gli attori fanno sulla scena, si perde tutto:
lo stile, l'atmosfera, l'ambiente, la profondità e la varietà del testo del vecchio
ubriacone. Allo stesso modo è imbarazzante, se non scoraggiante il paternalistico ed
intimista incedere del
Buk di Ferreri. Oltre ai numerosi ed evidenti stravolgimenti testuali operati dal regista, (pur
tralasciando per un attimo le tre scene peggiori del film: la prima, l'ultima è quella nella camera
ardente), la riduzione cinematografica è ancora più delittuosa e colpevole di quella teatrale,
più
colpevole se si tien conto delle capacità, dei mezzi e dell'esperienza di Ferreri. Oltre alla poco
felice scelta dei brani, il "personaggio bukowsky", quello che lo scrittore tenta instancabilmente
di tratteggiare, è completamente assente. Nel film sono stati cancellati la molteplicità delle sue
rappresentazioni, la indomabile vitalità, le sofisticate citazioni e raffinatezze verbali, le
oltraggiose e ripugnanti trasgressioni, e soprattutto, il suo impagabile senso dell'umorismo. Il
personaggio di Ferreri è sorprendentemente mite, un onest'uomo fortunato con le donne, che
però purtroppo è sempre un po' sbronzo. Ferreri ha forse voluto rappresentare un
Bukowsky poetico, dolce, al di fuori degli schemi in cui
solitamente viene inserito. Lodevole e giusta intenzione, ma non ha proprio colto nel segno.
Bastano alcune considerazioni per mostrare come sia inadeguata la "poesia" di questo film. Nel
testo di Bukowsky, è vero, vi è della poesia, molta secondo alcuni, e di un genere particolare.
Uno dei brani più belli e struggenti del libro, per esempio, è, senza dubbio, quello che ha come
protagonista la grassona, "Un'amabile storia d'amore". Anche Ferreri lo utilizza, riducendolo
però ad una scenetta da commedia all'italiana, mentre riserva tutta la poesia al personaggio di
Cass, interpretato da Ornella Muti, la bona di turno. Inutile sottolineare che anche questo
personaggio ha nel testo una ben diversa profondità e bellezza. In occasione del Festival
di Venezia, Ferreri ha affermato in un'intervista, di aver puntato tutto,
che il significato di tutto, è negli occhi di Ben Gazzara. I suoi occhi, non c'è dubbio, sono
bellissimi, ma la forza di Bukowsky sta piuttosto nella bocca e nella parola. È soltanto lì che egli
ritrova la forza per sopravvivere, la sua rivincita: "a scuola brutti voti ma lingua lunga", dice da
qualche parte. È grazie all'ironia, al suo funambolico potere sulla parola che esce
vincente. Non si vuole comunque difendere qui ad ogni costo un autore che non ne ha proprio
bisogno,
uno scrittore tutto sommato modesto, che non può essere considerato nulla di più che un
fortunato caso editoriale. Ciò che più di ogni altra cosa impressiona e stupisce è l'incessante
tentativo di imbrigliarlo, di parcellizzarlo, di rinchiuderlo, di darne una lettura il più parziale
possibile, che finisce inevitabilmente con l'annientarlo. È ovvio che chiunque ha il diritto di
leggere e di interpretare Bukowsky a suo modo, ma nessuna delle letture sin qui apparse gli
rende interamente giustizia, nessuna di queste interpretazioni rimanda ad altro, apre a sua volta
nuovi spiragli interpretativi o scioglie dei nodi. Le due proposte, quella cinematografica e quella
teatrale sono dei cimiteri. Permettetemi, per concludere, un consiglio d'amico: se comprate le opere
di Bukowsky
(possibilmente in lingua originale, è meglio), non dimenticate assolutamente i versi. Leggete
tutto con attenzione e, soprattutto... silenzio! non parlatene mai con nessuno.
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