Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 11 nr. 97
dicembre 1981 - gennaio 1982


Rivista Anarchica Online

il recinto c.p. 17120

Cari compagni di "A",
leggevo l'articolo di Gabriele R. sul numero di settembre. Bene. Solleva dei problemi, induce a riflettere. Io vorrei fare emergere un punto di vista diverso, il mio, sull'argomento dei mezzi di comunicazione marginali al sistema e, in particolare, su A-Rivista anarchica, lettura di cui mi cibo da anni. "...Infine si può analizzare la società perché investiti del ruolo di analizzatori generici o specializzati. Questo ruolo (qui il discorso riguarda soprattutto la stampa) è spesso frutto di una delega: - Te che sei il più intelligente, che sei il più preparato, che sei il più... anarchico -. Resta però il fatto che quasi mai vi è un rifiuto, da parte di chi ne è investito, di vestire questi panni. Per cui, per esempio, la stampa anarchica rischia di diventare un piccolo mass-media, in parte per la delega da parte di chi la legge, in parte per l'investitura di analizzatore che riveste chi la fa...". Ecco, io non sono d'accordo, in questo con Gabriele; o piuttosto la vedo, tutta la faccenda, da un altro punto di vista. Non credo affatto che l'intellettuale salti dallo stagno al suo trono di canne perché la semplice, gratificante folla di rane gli deleghi l'onore e la gloria. No, io penso che ognuno abbia i suoi pensieri, un suo personale formicolare d'immagini, di sogni, di paure, e che ognuno, inoltre, in qualche modo lo esprima, questo suo mondo; solo in tante forme differenti che spesso non arrivano a comprendersi l'un l'altro. Non mi sembra cosa giusta parlare di delega in questo senso. Io leggo questi fogli, ma non vi scrivo: eppure non lascio a voi il compito di pensare, di cercare e trovare, per me. Potrebbe forse farmi piacere, liberarmi da questa pressione alle meningi e fidarmi della vostra intelligenza, ecco; ma non posso riuscirci.
Nessuno mai a questo mondo si dona del tutto a una causa, a un'idea preparata da altri: neppure il fanatico religioso, neppure il galoppino di partito; ciascuno d'essi, semmai, si serve di una fede per farsi accompagnare, per strada, da una lampada che rischiari le equivoche ombre, che sono tante e dai difficili contorni, ci si può smarrire tutta una vita, nel buio. Come potrei allora io che, anarchico, non ho credo alcuno, dire a "te che sei il più intelligente, che sei il più preparato, che sei il più... anarchico": scrivi anche per me?
Certamente, e in numerose occasioni, finita la lettura di un pezzo, m'è venuta voglia di prendere la penna in mano e di spiegare un po' come la vedevo io la storia; e, quand'ero in sostanza d'accordo, avrei voluto continuare, prendere una in particolare delle vie che dal discorso si di panavano e continuarla a tracciare, con parole inventate da me.
Talvolta cominciavo ma, prima ancora di arrivare al punto, m'accorgevo di essere uscito dal tracciato. Già, il tracciato; perché un tracciato esiste, anche in una rivista anarchica, un tracciato, una linea, alcune parole predilette che diventano presto slogan e, ancora, una maniera di stendere le parole sul foglio, dritte e precise verso una dimostrazione, la dimostrazione di un passaggio logico che prepara a un altro. Ecco, io non riesco a scrivere così e, penso, neppure lo voglio. Ma ammettiamo per un momento che questo tracciato, questa maniera, questo linguaggio non esistano affatto, ammettiamo che i lettori non "deleghino" più e che A-Rivista anarchica si riempisse di tante nuove pagine riempite da tante nuove penne e cervelli diversi. Io penso che sarebbe un enorme disordine di orientamenti, di immagini, di espressioni diverse. Sarebbe come un'antologia che raggruppa un'infinità di mondi separati e differenti che, molto spesso, non arriverebbero a capirsi, tuttavia questo mi piacerebbe e credo sarebbe un passo avanti: accettare l'enorme complessità e diversità che viene alla luce, che può venire alla luce, solo davanti ad un gran spazio vuoto, che si è liberi di riempire. La cultura antistatale, o meglio la cultura libertaria, lasciare che sgorghi, che erompa, lasciarle un silenzio da riempire.
È altro e più difficile cosa che cercare di crearla e di stamparla a suon di convegni su convegni dove, a scrivere e a parlare, sono sempre quelli che hanno tracciato le linee e le seguano e le prolungano, costruendo edifici di scientifiche parole.
Lavorare perché la gente abbia spazio per esprimersi, perché si indaghi sulle profonde origini delle proprie scelte (l'essere anarchici, ad esempio), perché trionfi la diversità, perché caos e vita entrino nei fogli. Questo, per una crescita, per una qualche probabilità di crescita. Invece, compagni di A, voi avete inventato una rubrica, C.P. 17120, uno spazio particolare, fra le ultime pagine, per ospitare le opinioni dei lettori. Già. Tutti i bravi giornali hanno le loro brave lettere al direttore; è brutto chiamarle così, ma l'accosto viene, balza agli occhi. C.P. 17120 è un piccolo recinto separato, per quei lettori che non vorrebbero delegare. Oh! Non è quel gran spazio di cui c'è bisogno, lo spazio uguale e libero per tutti; perché si liberi la nostra voglia di dire, senza le eterne paure, quelle che ci hanno insegnato a scuola: paura di sbagliare, di non essere in grado, di uscire fuori tema... fuori tema no, mai, fuori tema... da se stessi.
Scusatemi ora se vi sono sembrato distruttivo in queste critiche e, assieme un po' ingenuo, o molto ingenuo, a scelta.
Non crediate che non comprenda le difficoltà insormontabili con cui, credo, da sempre lottate. E quel che ho scritto, prendetelo così, per uno sfogo inutile o per... un'utopia.

Carlo B. (Cagliari)