Rivista Anarchica Online
il recinto c.p. 17120
Cari compagni di "A", leggevo l'articolo di Gabriele R. sul numero di settembre. Bene.
Solleva dei problemi, induce a
riflettere. Io vorrei fare emergere un punto di vista diverso, il mio, sull'argomento dei mezzi di
comunicazione marginali al sistema e, in particolare, su A-Rivista anarchica, lettura di cui mi
cibo da anni. "...Infine si può analizzare la società perché investiti del ruolo di analizzatori
generici o specializzati. Questo ruolo (qui il discorso riguarda soprattutto la stampa) è spesso
frutto di una delega: - Te che sei il più intelligente, che sei il più preparato, che sei il più...
anarchico -. Resta però il fatto che quasi mai vi è un rifiuto, da parte di chi ne è investito,
di
vestire questi panni. Per cui, per esempio, la stampa anarchica rischia di diventare un piccolo
mass-media, in parte per la delega da parte di chi la legge, in parte per l'investitura di
analizzatore che riveste chi la fa...". Ecco, io non sono d'accordo, in questo con Gabriele; o
piuttosto la vedo, tutta la faccenda, da un altro punto di vista. Non credo affatto che
l'intellettuale salti dallo stagno al suo trono di canne perché la semplice, gratificante folla di
rane gli deleghi l'onore e la gloria. No, io penso che ognuno abbia i suoi pensieri, un suo
personale formicolare d'immagini, di sogni, di paure, e che ognuno, inoltre, in qualche modo lo
esprima, questo suo mondo; solo in tante forme differenti che spesso non arrivano a
comprendersi l'un l'altro. Non mi sembra cosa giusta parlare di delega in questo senso. Io leggo
questi fogli, ma non vi scrivo: eppure non lascio a voi il compito di pensare, di cercare e trovare,
per me. Potrebbe forse farmi piacere, liberarmi da questa pressione alle meningi e fidarmi della
vostra intelligenza, ecco; ma non posso riuscirci. Nessuno mai a questo mondo si dona del tutto
a una causa, a un'idea preparata da altri:
neppure il fanatico religioso, neppure il galoppino di partito; ciascuno d'essi, semmai, si serve
di una fede per farsi accompagnare, per strada, da una lampada che rischiari le equivoche
ombre, che sono tante e dai difficili contorni, ci si può smarrire tutta una vita, nel buio. Come
potrei allora io che, anarchico, non ho credo alcuno, dire a "te che sei il più intelligente, che sei
il più preparato, che sei il più... anarchico": scrivi anche per me? Certamente, e
in numerose occasioni, finita la lettura di un pezzo, m'è venuta voglia di prendere
la penna in mano e di spiegare un po' come la vedevo io la storia; e, quand'ero in sostanza
d'accordo, avrei voluto continuare, prendere una in particolare delle vie che dal discorso si di
panavano e continuarla a tracciare, con parole inventate da me. Talvolta cominciavo ma, prima
ancora di arrivare al punto, m'accorgevo di essere uscito dal
tracciato. Già, il tracciato; perché un tracciato esiste, anche in una rivista anarchica,
un
tracciato, una linea, alcune parole predilette che diventano presto slogan e, ancora, una
maniera di stendere le parole sul foglio, dritte e precise verso una dimostrazione, la
dimostrazione di un passaggio logico che prepara a un altro. Ecco, io non riesco a scrivere così
e, penso, neppure lo voglio. Ma ammettiamo per un momento che questo tracciato, questa
maniera, questo linguaggio non esistano affatto, ammettiamo che i lettori non "deleghino" più e
che A-Rivista anarchica si riempisse di tante nuove pagine riempite da tante nuove penne e
cervelli diversi. Io penso che sarebbe un enorme disordine di orientamenti, di immagini, di
espressioni diverse. Sarebbe come un'antologia che raggruppa un'infinità di mondi separati e
differenti che, molto spesso, non arriverebbero a capirsi, tuttavia questo mi piacerebbe e credo
sarebbe un passo avanti: accettare l'enorme complessità e diversità che viene alla luce, che
può
venire alla luce, solo davanti ad un gran spazio vuoto, che si è liberi di riempire. La cultura
antistatale, o meglio la cultura libertaria, lasciare che sgorghi, che erompa, lasciarle un silenzio
da riempire. È altro e più difficile cosa che cercare di crearla e di stamparla a suon
di convegni su convegni
dove, a scrivere e a parlare, sono sempre quelli che hanno tracciato le linee e le seguano e le
prolungano, costruendo edifici di scientifiche parole. Lavorare perché la gente abbia spazio
per esprimersi, perché si indaghi sulle profonde origini
delle proprie scelte (l'essere anarchici, ad esempio), perché trionfi la diversità, perché caos
e
vita entrino nei fogli. Questo, per una crescita, per una qualche probabilità di crescita. Invece,
compagni di A, voi avete inventato una rubrica, C.P. 17120, uno spazio particolare, fra le ultime
pagine, per ospitare le opinioni dei lettori. Già. Tutti i bravi giornali hanno le loro brave lettere
al direttore; è brutto chiamarle così, ma l'accosto viene, balza agli occhi. C.P. 17120 è un
piccolo recinto separato, per quei lettori che non vorrebbero delegare. Oh! Non è quel gran
spazio di cui c'è bisogno, lo spazio uguale e libero per tutti; perché si liberi la nostra voglia di
dire, senza le eterne paure, quelle che ci hanno insegnato a scuola: paura di sbagliare, di non
essere in grado, di uscire fuori tema... fuori tema no, mai, fuori tema... da se stessi. Scusatemi ora
se vi sono sembrato distruttivo in queste critiche e, assieme un po' ingenuo, o
molto ingenuo, a scelta. Non crediate che non comprenda le difficoltà insormontabili con
cui, credo, da sempre lottate. E
quel che ho scritto, prendetelo così, per uno sfogo inutile o per... un'utopia.
Carlo B. (Cagliari)
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