Rivista Anarchica Online
Anni di piombo
di Maria Teresa Romiti
È uscito tra polemiche a volte roventi, visionato da studiosi, magistrati, deputati,
giornalisti, in una sorta di inchiesta giudiziaria che è risultata solo il miglior battage
pubblicitario possibile per il film: Anni di piombo, il vincitore del Leone d'oro all'ultima
Mostra di Venezia, è diventato così, per la felicità dei produttori, anche un film di
cassetta. Niente di male se per una volta tanto la macchina pubblicitaria si è mossa per un
film valido, che merita di essere visto, aiutata magari da una classe politica senza senso
della misura e soprattutto del ridicolo. Purtroppo la risonanza dei mass-media ha stravolto
il film, incentivando il dibattito sul terrorismo, come si trattasse di un film a favore o
contro la lotta armata o perlomeno di un'indagine sulle ragioni e i problemi della
clandestinità. Il film è più semplicemente
e più onestamente il racconto del rapporto tra due donne unite
da vincoli di affetto e da comunioni di ideali, anche se con scelte diverse. Una storia vista
in gran parte dall'interno, attraverso i problemi, le lacerazioni tra ragione e sentimento, tra
le scelte diverse e gli ideali comuni in cui la presenza di un passato comune, di una vita
affettiva ora mitiga, ora amplifica i contrasti. Non solo, la storia è mediata attraverso Jure,
la sorella maggiore, la giornalista. Le due sorelle sono legate da vincoli inscindibili che
superano le scelte ideologiche, ma nello stesso tempo sono legate a queste scelte: il
rapporto dilacerante tra affetto e scelta politica, ma anche tra ideale e azione è il punto
focale del film. Del resto, questo è un film che non condanna e non assolve, è un film che
cerca solo di comprendere di trovare una verità, seppure parziale, come esprime
emblematicamente la ricerca di Jure sulla morte della sorella. Se c'è una condanna, questa
è rivolta al sistema carcerario: questo sì condannato senza appello, mostrando la facciata
burocratica, asettica e nello stesso tempo intrinsecamente inumana, brutale dell'istituzione
totale. Ho trovato molto onesta questa impostazione, soprattutto
perché la regista ha conosciuto i
fatti solo per interposta persona. Una scelta anche coraggiosa, perché in mezzo alle
diatribe politiche privilegia il personale, gli affetti, l'introspezione, giocando più sul
carattere che sull'ideologia. D'altra parte, forse, è anche ora di bilanciare la spinta
dell'ideologico, del politico a tutti i costi con il sé, con l'introspezione. Le scelte politiche
sono fatte dagli esseri umani e questi sono sempre influenzati da mille motivazioni,
alcune completamente irrazionali, legate alle storie personali, all'infanzia, al carattere,
all'amore o all'odio e se si vogliono capire le scelte bisogna anche cercare di
comprendere, analizzare le variabili irrazionali che le sottendono. Non penso ad analisi
psico-analitiche delle persone per spiegare movimenti politici o sociali, ma penso che il
carattere influisce sulle nostre scelte, come sulle nostre idee. Questo non è possibile
dimenticarlo: invece per anni si sono privilegiate le analisi asettiche, razionali,
dimenticando che l'uomo è fatto anche di sentimenti. In
questo senso è molto interessante la contrapposizione tra le due sorelle: una più ribelle,
sempre pronta a contestare l'autorità, l'altra più incline ad accettare il compromesso, più
integrata. E se sembra un paradosso che sia proprio la meno ribelle, la più piccola a fare
la scelta più dura, questo è solo un paradosso superficiale, apparente. La scelta di
Marianne è la scelta più immediata, quella in fondo più debole; è un modo, il suo, di
cancellare una realtà che non vuole affrontare. Anche il suo rapporto con la sorella è,
almeno in parte, ambiguo: Marianne sfrutta la sorella, pretende da lei aiuto materiale,
appoggio, solidarietà morale ed infine comprensione e uguaglianza ideologica. Gioca
sull'affetto, in alcuni casi sul ricatto morale con un comportamento ora dolce, ora
arrogante, insomma un rapporto dipendenza/aggressività. Questo è il significato più duro di tutto il film, quello che dovrebbe far discutere: la scelta
che sembra più decisa è quella in fondo più facile, cancella la realtà per vivere solo nel
mondo della fantasia. Con questo non voglio dire che la scelta riformista e femminista di
Jure sia quella giusta, come fa intendere almeno in parte il film, ma che questa tesi sia
una possibile, discutibile spiegazione. Utopia è la tensione tra un futuro immaginato,
desiderato e la realtà, rapporto tra immaginario e reale che non può mai dimenticare il
presente, pena la sua stessa negazione. Quando si taglia il cordone che unisce
immaginario e realtà si elimina la tensione utopica, la possibilità del cambiamento. La
fantasia fatta diventare reale può portare l'opera d'arte o la pazzia, l'eremo o il misticismo,
ma è in ogni caso rifiuto del presente, del sociale. È la chiusura nel ghetto: artisti, monaci,
clandestini, emarginati. In fondo è una non-accettazione del vivere, perché vivere vuol
dire prendere gioia e dolore, bello e brutto, scommettere tutti i giorni la propria partita: il
paradiso, qualunque esso sia, anche se di moda, è incompatibile con la vita. La rottura con il reale costringe la fantasia a farsi realtà. A questo punto bisogna piegare
gli altri, costringerli in questo nuovo "letto di Procuste". E se non ci stanno? Se sono
troppo corti o troppo lunghi? Peggio per loro? Ma l'altro non è più un essere umano, è
solo una categoria: eretico, deviazionista, nemico, intellettuale... e con le categorie, come
con i numeri, si lavora meglio, non c'è bisogno di fare i conti con l'emotività, gli affetti.
Questi sono veramente anni di piombo. Bisogna espropriarsi dei
propri sentimenti, come Marianne che non ha tempo per
piangere o commuoversi o come Giorgio, l'autore del libro Memorie (Savelli Editore,
Roma 1981, pagg. 126, £ 6.000), che ci racconta la sua storia con angosciante precisione,
mostrando l'espropriazione continua dei propri sentimenti: il clandestino può solo avere
rabbia, odio. Del resto potrebbe essere altrimenti in una vita grigia, ingabbiata (Giorgio
non può nemmeno scegliere di cosa occuparsi, gli viene assegnato un settore) senza
amici, dove la solitudine è l'unica compagna. L'odio diventa il sentimento catalizzatore, la
ragione stessa della scelta come spiega lui stesso: Dunque io partecipo emotivamente in
modo molto forte a quello che faccio. E voglio assolutamente voglio, avere una ragione
che risuoni dentro di me, se mi appresto a colpire qualcuno, o a rapinare una banca.
Perché io vivo una volta sola. Cambiali per l'eternità non ne sto firmando. La mia pistola
è qualcosa che, spero, servirà a tutti. Ma intanto questa è anche la mia rivolta, il mio
odio, la mia rivoluzione, così come mia è stata la strada che mi ha portato a prendere
questa pistola. A questo punto si potrebbe concludere che la clandestinità è un ghetto, un
rifiuto della realtà. Non si tratta - è evidente - di negare la possibilità che un movimento
rivoluzionario possa esser costretto alla clandestinità. Ciò che ci colpisce, tra l'altro, è il
valore positivo attribuito a quella scelta che noi, invece, possiamo concepire solo quando
si tratti davvero di una scelta obbligata, imposta dalle condizioni storiche, quindi
comunque negativa. È vero anche che non c'è bisogno di vivere nella clandestinità
per
chiudersi nel ghetto. Anche noi ci costruiamo ogni giorno tanti piccoli ghetti dove ci
troviamo bene, protetti dalla realtà: collettivi, gruppi, amici, donne.... Ogni ghetto è una
rassicurazione di fronte all'ansia continua del vivere, ma ogni ghetto è circondato da un
muro, un carcere costruito con le proprie mani. La ghettizzazione è la salvezza: più
difficile affrontare le difficoltà del percorso quotidiano che si scontra con
l'incomprensione della gente, la sua apaticità, ma cambiare vuol dire anche comprendere,
rivedere, coniugare ogni volta il proprio immaginario con la realtà. Difficile? Certo, forse quasi impossibile. Solo quasi però.
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