Rivista Anarchica Online
Sindacati e stangati
di Franco Melandri
La contestazione di Benvenuto durante la manifestazione dei 400.000
metalmeccanici convenuti a
Roma il 26 marzo e la piattaforma contrattuale degli stessi metalmeccanici votata a Montecatini l'8
aprile hanno contribuito ad agitare notevolmente le acque del mondo sindacale, acque da molto in
movimento ma che ancora non avevano creato ondate degne di nota. Ma cosa significano questi due fatti,
apparentemente separati ma collegati invece da solidi fili?
Vediamoli in particolare. 1) La politica di acquiescenza nei confronti del governo, la scarsa o nulla decisione
nelle risposte da
dare all'offensiva confindustriale, il verticismo esasperato della vita sindacale e molte tumultuose
assemblee in fabbrica, tutto deponeva a favore di una clamorosa contestazione della leadership
sindacale. A farne le spese maggiori è stato Benvenuto (anche se nelle fabbriche, nei giorni seguenti,
non sono mancate dure critiche ai telegrammi di solidarietà mandati da Lama e Carniti) che dei tre
leader è probabilmente quello che più scopertamente sta appoggiando il governo e si dimostra
più
disponibile alle richieste di Merloni & C.. Certo alla base della contestazione c'è anche la propaganda
contraria alla UIL ed ai socialisti messa in atto da comunisti e sinistra sindacale, ma quel che più conta
è che si sia mostrata scopertamente l'enorme frattura esistente fra base operaia e dirigenze sindacali.
Frattura che non può essere certo sminuita dalle accuse di settarismo rivolte da Benvenuto ai
manifestanti. Che la base operaia non brilli per tolleranza è cosa che dovrebbe essere nota, ma d'altra
parte cosa doveva aspettarsi uno che afferma di "sentire puzza di terrorismo" quando entra in fabbrica
o che è giunta l'ora di "restituire una parte del potere e del reddito" conquistati negli ultimi 10 anni? Al
di là di tutto, comunque, resta il fatto che, clamorosamente, a Roma si è accentuata la frattura fra
base
e vertice all'interno del movimento sindacale; una frattura che, continuando l'attuale stato di cose, sarà
faticoso per Lama, Carniti, Benvenuto ricucire. 2) Da molte parti si sente ripetere che la piattaforma dei
metalmeccanici votata a Montecatini è "una
delle più difficili del dopoguerra", ed è certamente vero, ma perché? Non certo per la
particolare
"durezza" od onerosità delle richieste in essa contenute. Riduzione dell'orario di lavoro a 37,30 ore
settimanali da gestire a livello aziendale; aumento mensile di 85.000 lire (60.000 subito, le altre in due
anni) per le categorie intermedie, riparametrandole per le altre (cioè meno di 85.000 per le categorie
più
basse, più di 85.000 per le categorie più alte); disponibilità per la mobilità interna
(spostamenti,
all'interno della stessa azienda, da un reparto o da un settore all'altro) ed esterna (in pratica un'azienda
può licenziare se altre, nel raggio di circa 60 km, possono assorbire parte della manodopera licenziata);
istituzione, a livello aziendale, del 7° livello super in cui inquadrare capi, tecnici ed impiegati con
mansioni di livello intermedio o medio-alto. Come ben si può vedere, richieste oltremodo ragionevoli.
Perché allora puntare tanto sulla presunta
"difficoltà" di tale piattaforma? Per capire dove questa difficoltà nasca, occorre puntare
l'attenzione su
due punti in particolare: l'orario di lavoro e la questione 7° livello super. Per le dirigenze sindacali il primo
dei due punti rappresenta più che altro la riaffermazione di un
principio che, all'atto pratico, sarebbe stato ben presto accantonato in nome delle "gravi necessità del
momento" consentendo contemporaneamente l'uso degli straordinari senza recupero compensativo. Per
i delegati, fattisi in parte portavoce delle richieste della base, si tratta invece di un punto qualificante
da mettere in opera subito, al fine di creare più posti di lavoro e fronteggiare così l'ondata di
licenziamenti che colpisce tanto i lavoratori delle piccole industrie che quelli delle grandi. La questione del
7° super rappresenta invece il tentativo delle teste d'uovo sindacali di recuperare alla
loro tutela quella miriade di quadri intermedi clamorosamente venuti alla ribalta col corteo dei 40.000
durante la lotta FIAT dell'ottobre 1980. Il rifiuto dei delegati di farne un punto qualificante a livello
nazionale mette in luce, anche in questo caso, la profonda diversità di vedute e la divisione esistente
fra dirigenti e base sindacale.
Il mondo sindacale è dunque diviso. Può questa divisione
essere trampolino di un nuovo '69? Ne dubito.
E' certo che la base sindacale è disgustata dalla politica dei vertici e spesso vi si ribella, ma ancora non
ha espresso alcuna alternativa. Sono ancora lontani i tempi in cui, come nell'ormai mitico '69, di fronte
all'ottusità dell'apparato sindacale la base si organizzava e lottava autonomamente. Altre contestazioni
potranno aversi quindi nei prossimi mesi (e speriamo che queste colpiscano anche lo spavaldo Carniti
così come l'odioso e trombonesco Lama) e probabilmente continuerà anche la diminuzione delle
iscrizioni al sindacato ma dubito che i sindacati cambieranno rotta o si crei un'alternativa significativa
ad essi. Il perché è da ricercarsi, anche in questo caso, nell'iceberg la cui parte emergente è
rappresentata
dalla questione del 7° super. I leaders sindacali hanno certo capito che, come in tutti i paesi industrializzati,
anche in Italia si sta
andando verso la riduzione della manodopera e l'ingrossamento del cosiddetto "ceto medio"
rappresentato in fabbrica dai "quadri" tecnici. Le fabbriche italiane si stanno silenziosamente ammodernando
e possono così espellere manodopera -
da qui i licenziamenti di massa - continuando a mantenere alti i loro profitti come è successo nell'81.
Per le dirigenze sindacali è stato quindi giocoforza cercare di coagulare intorno a sé questi ceti
emergenti. Nel far questo non hanno però tenuto conto che la massa operaia non è pronta a
recepire
questo discorso, soprattutto perché si vede messa da parte a favore dei "colletti bianchi". Da qui la
spaccatura sulla 7° super, alla cui radice sta anche il fatto che gli operai si rendono conto di come i
"colletti bianchi" esprimano, per ora, solo esigenze di tipo caratteristico e corporativo; esigenze che i
sindacati, nella loro ottica interclassista e cogestionaria, fanno proprie in toto tralasciando ogni serio
discorso sulla necessità di coagulare ed armonizzare le esigenze delle diverse componenti del "mondo
del lavoro". Non è tuttavia negando la realtà che il movimento operaio potrà andare
avanti. Per quanto si voglia
rifiutarlo, l'ammodernamento tecnologico è un processo inarrestabile ed il non averlo capito in tempo
mette gli operai in una posizione di svantaggio per ora irrecuperabile. Un nuovo '69 sarebbe possibile
se gli operai contrapponessero all'acquiescenza ed alla fumosità dei discorsi sindacali non la divisione
corporativa ma una unione con gran parte dei "quadri", sulla base della comune situazione di dipendenti
senza alcuna autonoma possibilità decisionale. Un'unione che potrebbe concretizzarsi non nella
creazione di nuove categorie privilegiate, come vogliono Confindustria e sindacati, ma in richieste
comuni sia sui salari sia sull'orario di lavoro (da qui viene l'unica nota relativamente positiva dalla
piattaforma dei metalmeccanici, anche se non servirà certo a risolvere il problema dei licenziamenti
proprio per via della tecnologicizzazione crescente) sia, soprattutto, dal rendersi conto che, al di là del
lavoro svolto, a definire lo stato sociale è ormai la possibilità di partecipare o meno alle decisioni
circa
il tipo di lavoro ed il modo per svolgerlo, e da questo tipo di decisione sono esclusi tanto gli operai
quanto gran parte dei "colletti bianchi". Ma contro questa ipotesi stanno tanto l'ottusità di gran parte
degli operai (per i quali ogni "non operaio"
è un "padrone"), quanto il già citato corporativismo di tantissimi quadri che sperano stupidamente
di
far carriera, quanto l'interesse delle dirigenze aziendali che continuano, ovviamente, ad applicare il
metodo del "divide et impera". La stagione dei contratti da poco aperta non si presenta quindi rosea, e alla
luce di quanto fin'ora detto,
si comprende meglio la tracotanza dalla Confindustria che, rotta ogni trattativa, minaccia di non fare
i contratti e di rigettare anche l'accordo sulla scala mobile. Di fronte a tutto ciò non si può
trarre che una conclusione: negli anni '80 il classismo delle "mani
callose" è ormai finito ed ogni lotta che sia solo "sindacale" (cioè che guardi solo alle condizioni
di vita
e di lavoro) è destinata o ad essere sconfitta o ad essere recuperata. Per noi anarchici questa non è
una
novità: il problema che dobbiamo porci è perciò come sostituire a tale classismo una
strategia che,
comprendendo le nuove situazioni sociali, non cada in vecchi o nuovi corporativismi ma ponga, anche
in fabbrica, all'ordine del giorno la lotta contro il potere.
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