Rivista Anarchica Online
Un fuoco di paglia?
di Maria Teresa Romiti
«Una manifestazione così non si vedeva da anni!». Solo a Milano un serpente lungo sei chilometri. Duecentomila persone hanno occupato il centro gridando la loro rabbia. Le piazze si sono riempite
ovunque, con determinazione, anche con durezza. Non poteva essere altrimenti per una
manifestazione voluta più dalla base che dai vertici, dilaniati da diatribe interne, preoccupati che la
situazione sfuggisse loro di mano. Ma i blocchi stradali, le manifestazioni spontanee dei giorni
precedenti, le contestazioni avevano fatto capire che la misura era colma, la rabbia poteva esplodere
travolgendo tutti, sindacati compresi. Molto meglio rischiare, cavalcare la tigre incanalando
l'energia che stava covando. Una manovra non del tutto riuscita visto che gli operai sono scesi in piazza decisi, in alcuni casi
dissentendo apertamente con il sindacato. C'era da chiedersi come mai, dopo che questi ultimi anni
sono stati caratterizzati da apatia, sfiducia, sempre minor partecipazione. Quando qualsiasi
provvedimento anche il più iniquo veniva accettato senza battere ciglio. Eppure motivi per
arrabbiarsi non ne sono certo mancati: l'economia sull'orlo del collasso, l'inflazione galoppante, la
disoccupazione che ha raggiunto livelli record e non accenna a fermarsi, uno stato che assomiglia
sempre più ad una belva affamata, attacchi dal fronte padronale. Niente, tutto passava sotto
silenzio. Forse l'apatia, la rassegnazione erano più in superficie che reali, il malcontento covava sotto la
cenere, incapace di esprimersi, soprattutto per la sfiducia verso sindacati e partiti che paralizzava
l'azione. Poteva essere altrimenti? Erano anni che gli accordi passavano sopra le teste dei
lavoratori, le assemblee erano state svuotate dei loro contenuti e manovrate in tutte le direzioni. Una reazione più che comprensibile che alla lunga è diventata pericolosa anche per il sindacato.
Anche la ricerca della cogestione, della mediazione si fa più difficile quando gli operai non ci
stanno più. Ne ha approfittato la Confindustria buttandosi in un attacco tra i più decisi di questo
ultimo periodo. Ma alla fine, dopo l'ennesima stangata, il meccanismo inceppato ha ripreso a muoversi, il
malcontento si è trasformato in rabbia, il mugugno in voglia di lottare. E' nata così la
manifestazione nazionale del 18 gennaio che ha avuto un punto di forza, è vero, nel pieno appoggio
del PCI, ma che è nata prima, dalla rabbia, dalla decisione di andare in piazza nelle fabbriche, tra
gli operai stufi di essere presi in giro; il PCI, come al solito, ha preso la palla al balzo e si è tuffato a
capofitto. Non è un caso che la consegna del silenzio, chiesta dai vertici sindacali, non sia stata
seguita. Ancora più indicativo è stata a Milano l'accoglienza riservata ai militanti anarchici, scesi in
piazza con gli studenti. In mezzo al corteo operaio, nonostante gli slogan contro sindacati e partiti,
sono stati guardati senza ostilità, anzi, a tratti, con una certa simpatia. Sono segni importanti di una rabbia ancora confusa, che forse non riesce a delineare un discorso
coerente, preciso, le cui mete non sono del tutto chiare, ma che è presente, ha rotto il senso
d'impotenza, la sfiducia totale, il rintanarsi che la paralizzava. Purtroppo a far da contropartita alla vivacità della piazza c'è la chiusura, il 23 gennaio, di uno dei
più brutti accordi sindacali che si ricordi. Al tavolo delle trattative si sono fronteggiati sindacati e
confindustria; mediatore il governo, in una battaglia senza esclusione di colpi, che doveva decidere
da che parte starà il potere nei prossimi anni. Sicuri sconfitti i lavoratori sulle cui teste è passato il
gioco dei grandi. Così si cerca di far passare come vittoria dei lavoratori un accordo che prevede tra
l'altro la riduzione del 18% della scala mobile (quella che non si tocca), aumenti salariali medi per
l'83 di £25.000 (anche con le nuove aliquote fiscali meno di £20.000 in busta paga) e poco di più
(35.000/40.000) per gli altri due anni, nessun possibile aumento economico nei contratti integrativi
per almeno 18 mesi, mobilità massiccia, ritorno alla chiamata nominale, riduzione della cassa
integrazione. E soprattutto il riconoscimento di una mitica professionalità che in realtà cela il
ritorno alla selezione meritocratica. Un vero requiem per le conquiste di dieci anni fa come involontariamente sottolineano le parole di
Salustri, vice-presidente della Confindustria: «Abbiamo ottenuto una timida inversione di tendenza
su tanti tabù dando minor peso alle indicizzazioni, rendendo possibili migliori controlli
sull'assenteismo, riconoscendo la validità della chiamata nominativa, riaffermando che anche i
miglioramenti aziendali devono restare all'interno dei tetti programmati di aumenti salariali,
consentendo un sia pur debole riconoscimento della professionalità e del merito». Rimane una sola grossa domanda: «Come reagiranno gli operai di fronte a questa ennesima presa in
giro?». Le prossime settimane potranno dirci se abbiamo assistito solo ad un fuoco di paglia o se è
nato qualcosa di più importante.
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