Rivista Anarchica Online
Ma quale disarmo?
di Mario Balocco
Mai come nella nostra epoca si è parlato tanto di convivenza pacifica fra gli stati, quindi di
disarmo, e per contrasto, mai come nella nostra epoca si sono costruite armi così potenti ed in si
grande quantità. Questa è una delle innumerevoli contraddizioni che caratterizzano gli ultimi
decenni del XX secolo, nei quali stiamo vivendo. Non è però l'ultima in ordine di importanza ed
urgenza, ragion per cui la cosiddetta questione del disarmo rimbalza continuamente dalle
cancellerie ai congressi di studiosi, dai discorsi dei leaders politici alle trasmissioni audiovisive più
diffuse. Molti ne discutono, magari accanitamente, ma ben pochi forse hanno le idee chiare. Non
intendo in questo modo parlare degli intellettuali, dei dirigenti politici o militari, ma bensì della
base, dell'opinione pubblica in genere. Anche per far maggior luce sull'argomento, dobbiamo risalire agli inizi di quest'ultimo dopoguerra:
la pace, che dopo la vittoria alleata del quarantacinque, avrebbe dovuto discendere benefica e
ristoratrice su tutto il pianeta, non è giunta. Gli ultimi trentotto anni sono stati costellati da più di
duecento conflitti geograficamente limitati, senza contare gli innumerevoli colpi di stato e le
frequenti repressioni violente di insurrezioni avvenute un po' ovunque nel mondo. Al posto della
pace, si è instaurato l'equilibrio del terrore, una sorta di gioco molto pericoloso nel quale la
sopravvivenza della specie umana è garantita dal numero di ordigni nucleari in possesso dei vari
blocchi internazionali e dei diversi stati. Il grande conflitto, la terza guerra mondiale, che a causa
della potenza delle armi nucleari non ha ancora avuto modo di esplodere, si è come sfogata in una
oscena proliferazione di conflitti minori e locali, ma pur sempre estremamente violenti e
sanguinosi. Proprio dalla constatazione dei tremendi effetti, delle preoccupanti possibilità
distruttive degli ordigni nucleari, è nata la questione del disarmo. O meglio, bisogna chiarire fin
dall'inizio; per frenare le preoccupazione crescenti di sempre più vasti strati di popolazione, i
governanti hanno accettato, magari a malincuore, di dare inizio alla questione del disarmo atomico.
Il problema si è immediatamente posto in questi termini: se uno dei due blocchi disarma il proprio
arsenale nucleare, anche l'altro deve fare altrettanto, perché in caso contrario, il primo blocco
rimane indifeso, e appunto per questo non è disposto a disarmare. L'aspetto più complicato
dell'intero problema posto in questo modo, è il controllo reciproco dei vari blocchi sull'effettivo
disarmo dell'altro. In teoria questo controllo reciproco è attuabile, ma nella realtà è praticamente
impossibile; anche perché nessuno dei due avrebbe mai la certezza matematica che l'altro abbia
disattivato veramente i suoi ordigni. Le trattative in questo campo sono andate avanti per anni, e
sono tuttora in corso, ogni tanto sembra che si sia giunti a qualche accordo, a qualche limitazione
della corsa agli armamenti, ma in concreto, non si sono raggiunti, anzi non si sono mai voluti
raggiungere, risultati verificabili. Non molto tempo fa è stata avanzata, in Occidente, la proposta del disarmo unilaterale. Secondo
tale opinione, il blocco occidentale dovrebbe disarmare senza preoccuparsi che quello orientale
faccia altrettanto. In questo modo, anche il blocco orientale, trascorso un certo periodo di tempo,
rassicurato dalla effettiva volontà degli occidentali di disarmarsi, disattiverebbe spontaneamente il
proprio arsenale nucleare. Questa proposta, come molte, anzi troppe volte succede, ha ottenuto
l'effetto opposto di quello sperato. Grazie ad essa è stato infatti possibile ai governanti occidentali
tacciare di irresponsabilità, se non di vero e proprio tradimento alla fedeltà atlantica, tutti coloro i
quali desideravano in qualche modo allontanare dal pianeta la minaccia atomica. Tutto il discutere
che si è fatto, le polemiche che sono state suscitate e gli interventi che ne sono seguiti, hanno avuto
come effetto la confusione dell'opinione pubblica; hanno cioè ottenuto il risultato sperato dai
governanti già all'inizio dell'intera questione. In questo modo, il nocciolo del problema è stato eluso
e noi tutti continuiamo a cullarci tranquillamente nel limbo dell'equilibrio del terrore e della corsa
agli armamenti. Bisogna però rendersi conto che quello che per noi comuni mortali costituisce un problema
gravissimo, rappresenta viceversa per i potenti la soluzione ideale ad una situazione altrimenti priva
di sbocchi. E' infatti evidente che l'equilibrio del terrore, insieme alla situazione di conflitto
potenziale che inevitabilmente ne consegue, è ormai divenuta la condizione necessaria ai
governanti di entrambi i blocchi, per continuare ad esercitare il potere sulle rispettive basi. E'
sempre stato così nel corso della storia, e così continua ad essere pure oggi: la paura dello straniero,
continuamente presentato al popolo come un nemico, ha permesso alle classi dirigenti di distrarre la
base dallo sfruttamento al quale veniva quotidianamente sottoposta, e di dare alla stessa uno sfogo al proprio furore, alla propria
violenza. Così, la possente impalcatura sovietica, per reggere all'urto di tutte le ondate riformiste o
rivoluzionarie, provenienti dal basso e dall'esterno, ha costretto e costringe tuttora la popolazione
che gli è sottoposta ad un continuo e persistente clima di guerra, anzi di assedio. Analogamente,
l'establishment occidentale, per poter contrastare le molteplici tendenze centrifughe che
continuamente scuotono il piedestallo sul quale è posto, ha incessantemente agitato davanti agli
occhi della opinione pubblica internazionale lo spauracchio del comunismo, in modi e forme che in
varie occasioni sono giunti a sfiorare il grottesco. Si comprende perciò che, ferme restando le
attuali condizioni planetarie, il disarmo nucleare non verrà mai realizzato né in forma bilaterale, né
in forma unilaterale. I grandi blocchi, per reggersi in piedi, hanno infatti bisogno del contrasto
reciproco e del conflitto potenziale che in qualsiasi momento possono innescare per tenere a freno
le popolazioni a loro sottoposte, cioè viste le dimensioni dei due colossi, praticamente l'intera
Umanità. Non bisogna però pensare che il ragionamento non sia valido per quanto riguarda i
singoli stati sparsi sui cinque continenti e le piccole guerre convenzionali che periodicamente
esplodono fra alcuni di essi. Al contrario, anche gli stati più piccoli basano la propria coesione
interna, sarebbe a dire la propria stabilità, fra l'altro anche sulla paura del nemico, e dove questa
non basta a calmare una base esasperata, a veri e propri conflitti armati. Abbiamo di tutto ciò un esempio illuminante nella recente guerra delle Falkland, combattuta fra
l'Argentina e la Gran Bretagna. Il regime militare argentino, sperava sicuramente di conquistare
onore e gloria agli occhi della nazione, mediante una semplice operazione di sbarco. In questo
modo l'opinione pubblica avrebbe forse parzialmente dimenticato i problemi interni da lungo tempo
irrisolti e la disciplina dittatoriale nella quale il popolo è costretto a vivere. Sicuramente, oggi lo
stato significa, specialmente nelle democrazie occidentali e nelle repubbliche popolari, assistenza
medica, istruzione pubblica, posti di lavoro sicuri e ben remunerati; ma non bisogna mai
dimenticare che insieme a tutto questo, lo stato è ancora patriottismo, identificazione totale
dell'individuo in un ingranaggio capace di stritolarlo, ideologia nazionalistica, retorica. Ancora oggi
esistono le religioni di stato, con le loro bandiere, i loro cerimoniali, i loro luoghi sacri; e siccome
dovunque vi è religione vi è pure intransigenza, ancora oggi un conflitto può scoppiare per un
motivo anche futile, qualora le classi dirigenti riescano a trascinare anche solo una parte della
popolazione nella follia bellica. Tutte le discussioni che si tengono sul tema della pace, del
disarmo, delle eccessive spese militari, cozzano sempre contro l'ostacolo della difesa dei propri
interessi, della propria integrità nazionale, sostenuta unanimemente da tutti gli stati, come
necessaria protezione da un eventuale nemico prossimo o remoto. Per superare questa sterile polemica, è necessario mettere in evidenza la differenza esistente fra gli
interessi dei governanti e dei popoli. Bisogna ripeterlo ancora una volta; gli interessi dei primi non
sono solo divergenti, ma molte volte addirittura contrastanti con quelli dei secondi. Da un conflitto,
o anche solo dal mantenimento di uno stato di tensione continuo, i gruppi dirigenti di una società
possono sempre ricavare vantaggi sotto qualsiasi punto di vista: migliore governabilità del popolo,
apertura di nuovi mercati, soppressione di pericolose opposizioni interne. Il popolo invece da un
conflitto può ricavare soltanto stenti, miseria e lutti. Per gli esponenti di un qualsiasi regime
politico, una guerra è sempre una partita giocata sulle spalle, anzi sulla pelle degli altri. Se l'esito
finale è la vittoria, il regime ne esce enormemente rafforzato; se invece è la sconfitta, si cerca di
rimanere ugualmente in qualche modo al potere. Le condizioni materiali e culturali dei vari popoli sono estremamente diverse, ragione per cui si
potrebbe pensare che gli abitanti di una determinata nazione, combattendo difendano le proprie
condizioni di vita, mentre in realtà essi, ancora una volta, non fanno altro che difendere gli interessi
ed i privilegi di quanti li comandano, li inquadrano, ed in ultima analisi, li sfruttano. Posta la
questione in tali termini, si comprende come il nemico reale, dal quale continuamente i popoli, tutti
i popoli, devono attentamente guardarsi, siano i governanti. La nostra epoca, a causa della densità
della popolazione umana, della potenza distruttiva degli armamenti e di altri fattori ancora, non
ammette più l'esistenza di conflitti che si potrebbero rivelare, non solamente pericolosi ma
addirittura letali all'esistenza umana sulla Terra. L'unica soluzione per uscire da questa preoccupante situazione di tensione passa ancora una volta
attraverso la consapevolezza chiara e totale del problema. Se la gente comune incominciasse a
riflettere sui vantaggi che potrebbero derivare a tutti gli uomini dalla fine dei contrasti che oggi
insanguinano il pianeta, forse le cose potrebbero incominciare a cambiare. Per dirlo con
un'immagine forte: se le pecore incominciassero a comprendere, quando il pastore le porta al pascolo e quando invece le conduce al macello, forse allora ...
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