Rivista Anarchica Online
Pacifisti all'est
di Giuseppe Gessa
In un romanzo di fantascienza si racconta di una serie terribile di catastrofi provocate da un batterio
che attaccava la plastica e la fondeva. Il batterio si era formato a causa del contatto tra alcuni
microorganismi presenti nelle fogne e la materia con cui venivano costruite speciali bottiglie
autodistruttibili prodotte da una grossa industria chimica. I ricercatori di questa industria, dopo
alcune analisi, riuscirono a neutralizzare l'effetto del batterio. Il messaggio del libro appare chiaro:
il terribile monopolio delle possibilità decisionali che detenevano i ricercatori, dopo aver provocato
la catastrofe, solo loro potevano annullarla. Essi erano quindi, anche nella veste di benefattori, la
rappresentazione del dominio. A Ginevra, sede delle trattative tra le superpotenze sulla limitazione
delle armi strategiche, si rappresenta allo stesso modo la volontà dello Stato di confermarsi unica
sede legittima per decidere dell'esistenza stessa dell'umanità. Le trattative non mettono in dubbio la
legittimità etica della ricerca e della produzione di armamenti da parte delle potenze statali, ma si
decide soltanto sulle modalità con cui devono essere prodotte. Si decide su una ripartizione delle
sfere di influenza, sulla quantità e sulla qualità degli armamenti da installare, sull'immagine che
ogni blocco riesce a darsi dinnanzi all'opinione pubblica. Il passo essenziale è compiuto: le
trattative hanno acquistato il titolo di volontà di pace, lo Stato è diventato il luogo di decisione. I movimenti pacifisti non possono non tenere conto di questi fatti nella lotta contro i pericoli di
guerra, oppure rimarranno perennemente immersi nel pantano della legittimità istituzionale, nel
gioco delle alleanze tra Stati, negli schieramenti pro o contro uno dei blocchi. In una logica come
questa l'azione del movimento pacifista sarà annullata, proprio perché funge da legittimazione al
monopolio delle decisioni da parte dell'istituzione. La sconfitta del movimento contro la guerra degli anni '60 fu dovuta anche al fatto che i pacifisti
non compresero che anche i paesi del non-allineamento erano portatori di un progetto di forte
sviluppo bellico. L'ingenua contrapposizione terzo mondo-paesi industrializzati si rivelò uno sterile
semplicismo. Gli aiuti economici che i paesi sottosviluppati ricevevano e ricevono tuttora, sono
impiegati per la maggior parte in commesse di armi alle industrie americane, sovietiche od europee.
Quella che poteva sembrare una semplice dichiarazione ideologica, è invece l'effetto obbligato
delle azioni di un movimento per la pace non slegato dalle catene di partiti e ideologie del dominio. Anche restringendo il nostro campo d'indagine all'Italia, con un movimento pacifista per la maggior
parte ancora troppo legato a partiti e organizzazioni istituzionali, emergono tutte le lacune e le
velleità di azione del pacifismo fine a se stesso. Agendo completamente immerse nei principi della
sacralità dello Stato, le organizzazioni pacifiste trasformano una strategia di intervento contro la
guerra e gli armamenti, in una tattica politica che privilegi l'uno o l'altro blocco, oppure proponga il
progetto della terza forza europea, niente comunque che smascheri la vera natura del militarismo. Una delle più grosse lacune che il movimento per la pace italiano dei mesi scorsi ha espresso è stata
la sua incapacità di sviluppare momenti di mobilitazione che si rivolgessero contro il blocco
militare dei paesi dell'est. Questa incapacità critica era certamente dovuta anche alla presenza nel
territorio italiano delle basi militari della NATO e dall'installazione futura delle nuove basi
missilistiche in Sicilia, ma è stata certamente utilizzata da quelle forze quali il PCI che avevano
interesse a vestire la maschera del pacifismo antiamericano per fare pressioni politiche sul governo.
Salvo poi abbandonare il campo e tornare su posizioni sostanzialmente non troppo negative nei
confronti del blocco atlantico. Ecco emergere la differenza tra una strategia per la pace e una
tattica politica per cui la pace è solo un prezioso orpello. Ora, in una visione antiautoritaria della lotta antimilitarista, la critica spietata e le mobilitazione
contro la tecnocrazia militare sovietica sono di vitale importanza. Solo in questo modo il
movimento pacifista italiano ed europeo potrà sfuggire alle accuse di chi rinfaccia ai movimenti
pacifisti di fare oggettivamente il gioco di Mosca. Solo in questo modo un movimento pacifista
potrà essere tanto forte da incidere sulla corsa agli armamenti, proprio perché verrà a trovarsi in una
posizione aliena da quelle delle forze dell'istituzione. L'istituzione in questo modo viene a trovarsi
spiazzata, proprio perché privata della sua legittimità decisionale. Certo, il distacco tra il potere decisionale di questo movimento pacifista e quello dello Stato rimane
sempre enorme, ma è comunque l'unico modo perché la lotta contro la guerra non si riduca a sterili
e opache sfilate. La necessità di mobilitarsi contro il militarismo dei paesi comunisti è rinforzata dalla impossibilità
che in quei paesi possa esprimersi un dissenso antimilitarista organizzato. Le poche notizie che ci
giungono parlano però di mobilitazioni che si sarebbero tenute nei mesi scorsi, prontamente
represse, e considerate dai media sovietici espressioni della controrivoluzione imperialista. D'altro
canto le ricerche più accurate sulla società sovietica, quali quelle fatte da C. Castoriadis (un suo
saggio è apparso su «Volontà» 1/1982) dimostrano come la tecnocrazia militare acquisti sempre
maggiore importanza in Unione Sovietica. Da anni ormai in Russia le risorse migliori sia umane
che materiali sono destinate all'esercito. Nell'URSS esistono ormai due diversi livelli produttivi:
uno è quello destinato all'esercito, perfettamente efficiente, con una ricerca costantemente
all'avanguardia. L'altro è quello destinato alla società civile, con le conosciute carenze nella
produzione e nella distribuzione di beni di prima necessità. La macchina militare sovietica cresce ogni giorno in potenza e in aggressività ed è perfettamente in
grado di bilanciare le forze militari della NATO. Le mobilitazioni del movimento pacifista devono
quindi mettere in discussione la alidità del principio di autorità. Con questo non vogliamo certo
considerare gli anarchici quali unici depositari della lotta antimilitarista. Ci pare comunque
importante affermare che la lotta contro gli armamenti deve tendereimprescindibilmente ad attenuare il più possibile l'influenza politica ed etica dello Stato, perché si
allarghino gli spazi dipensiero e di azione non-autoritari e libertari.
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