Rivista Anarchica Online
Disertiamo le urne
di Paolo Finzi
Non importa per quale partito voterai, l'importante è che tu a votare ci vada! Come nelle passate
campagne elettorali, ma questa volta con un'insistenza ed una drammatizzazione che non ha precedenti,
è questo il vero leit-motiv di queste settimane che precedono il loro appuntamento del 26 giugno.
Nonostante il clima pre-elettorale porti naturalmente all'esasperazione delle differenze vere o presunte
tra le varie forze politiche (al punto che anche partiti che collaborano al governo da anni scoprono in
queste settimane differenze «abissali», visioni del mondo contrapposte, ecc.: salvo poi riprendere, dal
27 giugno in poi, la solita spartizione del potere), questa convergente insistenza di tutti - da Berlinguer
ad Almirante, da Capanna a De Mita - sulla necessità che i cittadini si prestino in massa alla
sceneggiata elettorale è un'ulteriore conferma della validità di una delle motivazioni che stanno alla
base dell'astensionismo anarchico. Mi riferisco all'uso che il sistema fa della campagna elettorale e delle elezioni stesse per coinvolgere
la gente, per farla sentire «protagonista», per accentuarne il consenso alle istituzioni. Nel momento in
cui lo Stato si trova a dover affrontare sempre più acuti problemi sociali e si sforza di estendere sempre
più capillarmente a tutta la società civile la sua capacità di controllo, questo consenso della gente
diventa sempre più importante. Per loro è praticamente una questione di vita o di morte: e con loro
intendo appunto i partiti, tutti i partiti, i sindacati, i mass-media, insomma tutte le istituzioni che a vario
titolo concorrono a formare ed a perpetuare l'attuale sistema socio-politico. Non sono certo solo le elezioni lo strumento utilizzato per procurarsi questo consenso. Ma ci sono
anche le elezioni, periodicamente alla ribalta con le loro grandi potenzialità di coinvolgimento delle
masse: quale migliore occasione per loro perchè i cittadini si sentano non solo partecipi, ma addirittura
protagonisti della gestione del potere? Da questo punto di vista, le elezioni (politiche, amministrative,
europee, ecc.) altro non sono che un gigantesco rito collettivo, una specie di messa natalizia alla quale
anche i fedeli più tiepidi sono chiamati a partecipare per testimoniare così, nonostante tutto, la loro
appartenenza al popolo del dio Stato. Un popolo del quale non ci sentiamo parte, perchè quel dio noi
rifiutiamo e combattiamo. Il 26 giugno ce ne staremo a casa. Il nostro astensionismo affonda le sue radici in motivazioni che vanno ben aldilà del rifiuto di
partecipare ad un rito collettivo del quale rifiutiamo il significato e l'uso strumentale che ne viene fatto.
Esso nasce innanzitutto dal rifiuto della delega di potere che lo Stato pretende dai suoi sudditi per
legittimare il suo ruolo e la sua stessa esistenza. Da sempre, infatti, gli anarchici hanno denunciato nel
momento elettorale una sostanziale truffa, dal momento che i cittadini vengono chiamati a «scegliere
i loro rappresentanti» - e di conseguenza i loro governanti - in una struttura comunque di potere, cioè
di netta separazione tra chi comanda e chi ubbidisce, tra chi sfrutta e chi è sfruttato. In altri termini, le
elezioni vengono presentate come il momento di massima libertà decisionale da parte del popolo,
mentre è evidente che in ogni caso niente di essenziale può essere modificato dal responso delle urne.
Tutta l'esperienza storica dei regimi democratici ne è inconfutabile testimonianza. Si pensi, tanto per fare due esempi a noi vicini, alle «grandi vittorie» dei socialisti di Felipe Gonzales
in Spagna e della «sinistra unita» (con conseguente presidenza Mitterand) in Francia: sembrava -
durante le campagne elettorali e poi nelle manifestazioni popolari di giubilo per le strade e nei primi
commenti post-elettorali - che dovesse cambiare chissà che cosa, che nuove prospettive si aprissero
per la giustizia sociale, la libertà, ecc. ecc .. Uno, due anni dopo, i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Ancora una volta, al ribaltamento elettorale dei «vecchi» equilibri politici non ha corrisposto nessuna
profonda trasformazione della società. Certo, qualcosa sarà pur cambiato (e nemmeno sempre in
meglio), ma sempre strettamente all'interno del quadro di potere preesistente. Forse cent'anni e più fa, ai tempi della Prima Internazionale, quando Bakunin e gli altri anarchici della
«prima generazione» sostenevano l'astensionismo in polemica con le correnti «politiche» del
socialismo, forse allora i sostenitori dell'opportunità di partecipare alle elezioni potevano basarsi su
qualche ipotesi credibile nell'accusare gli anarchici di non voler comprendere le potenzialità insite nella
partecipazione popolare alle elezioni e di sostenere un astensionismo aprioristico, di principio, frutto
di settarismo, ecc. Oggi, però, dopo decine di elezioni sempre più democratiche, tutte le volte
presentate da destra e da manca come decisive per il nostro futuro, nessuno può negare l'evidenza, che
cioè niente di sostanziale le elezioni hanno mai modificato. Ecco dunque che il nostro astensionismo si presenta in tutta la sua chiarezza non - come vorrebbero
far credere i nostri detrattori - come astratta coerenza con una scelta ottocentesca, dalla quale non
sapremmo distaccarci perchè paralizzati dalla volontà di restare comunque fedeli ai «sacri principi».
Certo - l'abbiamo già scritto su queste colonne - il nostro astensionismo oggi si collega naturalmente
al tradizionale astensionismo che gli anarchici hanno sempre opposto alle chiamate alle urne da parte
dello Stato. Ma noi non siamo astensionisti per tradizione, anche se di fatto con il ripetersi ad ogni
appuntamento elettorale della nostra scelta astensionista facciamo «proseguire» una tradizione. Siamo
astensionisti per convinzione, per una scelta razionale che consegue anche dall'analisi della situazione
attuale e dei metodi di lotta più efficaci per combattere oggi lo Stato. Ogni campagna elettorale ha le sue piccole novità. E questa non fa eccezione. Tra le novità di quest'anno c'è la contorta decisione del partito radicale di presentarsi invitando al
contempo all'astensionismo: una scelta indubbiamente originale, che proprio per questa sua
caratteristica ha fatto sì che i mass-media dessero ai radicali più spazio di quanto ne avrebbero ottenuto
nell'ipotesi avessero scelto solo di presentarsi o di astenersi. C'è chi, tra i commentatori politici, ha
voluto leggere in questo accentuato interessamento dei mass-media un primo grosso successo messo
al loro attivo dai radicali. Altri si sono sbizzarriti in altre considerazioni accompagnate da commenti
vari: furbi i radicali - ha osservato qualcuno - potranno sempre dire che chi si è astenuto lo ha fatto
perchè influenzato dal loro invito, e al contempo se avranno qualche deputato potranno contare sul
finanziamento pubblico (e si sa che i radicali, dopo averlo aspramente combattuto e sdegnosamente
rifiutato, se lo sono poi intascati come tutti gli altri partiti). Francamente, a noi interessa poco
addentrarci in questo tipo di analisi e di considerazioni. Già in passato, più di una volta, i radicali non
si erano presentati e qualche volta avevano sostenuto l'astensionismo (altre volte, però, avevano
invitato a votare per altre forze): un astensionismo, il loro, puramente tattico, legato a situazioni e
valutazioni contingenti, che niente ha a che vedere con il nostro rifiuto sistematico di partecipare al
gioco del potere. Ciò che invece ci preme mettere in luce nella scelta radicale di quest'anno è la metodologia seguita per
definirla. Prima hanno convocato un congresso nel quale l'ipotesi astensionista è risultata fortemente
minoritaria. Poi ha preso la parola Lui, ha detto che alle elezioni questa volta non bisogna partecipare
ed i Suoi fedeli si sono subito piegati al Suo volere. Una settimana dopo gli organi direttivi del partito -
Lui consenziente - hanno parzialmente modificato la Sua scelta congressuale (alla quale appunto il
congresso si era ubbidientemente piegato) stabilendo che il simbolo radicale sulla scheda ci sarebbe
stato, fermo rimanendo l'invito all'astensione. Per un partito che ama proclamarsi «libertario» ad ogni
piè sospinto, non c'è male come metodologia libertaria! Gran parte dei dirigenti radicali che in sede congressuale avevano sostenuto la necessità di impegnarsi
appieno nella campagna elettorale per conquistare più voti possibile ha poi fatto a gara, dopo il diktat
pannelliano, a spiegare che «Marco mi ha convinto», «ancora una volta ha ragione Lui» e via
discorrendo. Che squallore! Ma quando i radicali la pianteranno di sputtanare il termine «libertario»? Un'ultima considerazione. Come ad ogni campagna elettorale c'è in giro una grandissima confusione
sulle possibili conseguenze del non-voto. Si sente tanta gente dire in giro che non vorrebbe recarsi alle
urne, ma poi ti tolgono il passaporto e non puoi più andare all'estero, non puoi più ottenere un posto
negli enti pubblici, perdi i diritti civili, ti possono denunciare, e via discorrendo. Non è certo un caso
che i mass-media, così attenti ai più piccoli avvenimenti della campagna elettorale (tutto ciò che fa
spettacolo serve), si guardino bene dal diradare le nebbie dell'ignoranza in materia. Non c'è nessuno
in giro che dica chiaramente che la costituzione (art. 48) parla dell'esercizio del voto come di un
«dovere civico», auspicando implicitamente che la gente senta dentro di sè la spinta a compiere questo
che viene appunto ritenuto un dovere civico, non un obbligo legale. Non c'è nessuna legge che imponga
di votare, non c'è nessuna pena per chi si astiene. E' sola prevista - odiosa come tutte le schedature, ma
sostanzialmente ininfluente - la segnalazione sul «certificato di buona condotta» del fatto che non si
è votato. In pratica, però, data la scarsa efficienza in questo campo della macchina burocratica dello
Stato, solo in alcune località detta segnalazione viene registrata. In genere non succede proprio niente. Ciò che più ci interessa in proposito è appunto il fatto che il mancato chiarimento su questa materia
fa parte della più generale operazione di vero e proprio terrorismo psicologico di massa, messo in atto
da tutto il sistema per spingere la gente alle urne il 26 giugno. Di fronte a questa mobilitazione che,
comunque vadano le elezioni, non può che rafforzare lo Stato ed il sistema di oppressione e di
sfruttamento che esso incarna, il nostro astensionismo assume un preciso significato positivo. Il nostro
NO alle elezioni è al tempo stesso un SI all'azione diretta, alla ripresa della conflittualità fuori e contro
le loro istituzioni. E' comunque la testimonianza della nostra volontà di non stare al loro gioco.
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