Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 13 nr. 111
giugno 1983


Rivista Anarchica Online

La catena di riproduzione
di Marina Padovese

Affrontare, anche se in modo semplice e quasi schematico, il problema/maternità (/paternità) è impresa ardua. «Perché facciamo un figlio? A quali condizionamenti rispondiamo? Quali bisogni affettivi nostri vogliamo soddisfare?» (1)
La maternità, oggi, si sceglie o si rifiuta. Si afferma o si nega il desiderio di viverla. Ma cos'è il desiderio di viverla? Perché ogni donna, a un certo punto della sua vita, si pone il problema di fare o non fare un figlio? Bisogna rispondere: sì o no, ma bisogna rispondere. «Le donne hanno indagato sulle cause del rifiuto della maternità, ma anche sul desiderio di maternità» (2). Ne parliamo ancora.
Questo scritto, che è solo una parte delle mie discussioni, delle mie chiaccherate con compagne/i, delle mie letture, ho creduto opportuno dividerlo in due parti distinte: 1) Cos'è la maternità, il desiderio o il bisogno della riproduzione?; 2) e l'amore materno, o l'istinto materno?; 3) Come si fanno i figli oggi? Quali sono le motivazioni e i modi?
Per quanto riguarda il primo quesito, non posso che rifarmi all'ormai «nostra» (3) definizione di uomo/animale culturale. Animale culturale perché? Perché è quasi indeterminato geneticamente, cioè non ha comportamenti istintuali, dà risposte diverse allo stesso bisogno, cioè può scegliere.
L'animale culturale inventa dei codici di linguaggio che gli permettono di comunicare la propria esperienza ai suoi simili, le diverse risposte ai bisogni primari. Produce allora cultura ma, per poterlo fare, ha bisogno di altri «animali culturali». Insomma, il neonato abbandonato solo a un branco di lupi non è animale culturale perché l'ambiente in cui produrre cultura non è dato in assenza di simili.
Il «nostro uomo» ha dei bisogni da soddisfare: deve nutrirsi, deve dormire, defecare, soddisfare la sua sessualità (che poi per scelta, o meglio, come risposta culturale, si nega, si afferma, si risolve individualmente con la masturbazione, si socializza e diventa omosessuale, eterosessuale, bisessuale, e ancora poligamica, monogamica, ecc...). Dalla sessualità, quando è vissuta eterosessualmente, dipende la riproduzione. E sì! Perché in ogni caso si deve apportare un accorgimento «tecnico», affinchè la sessualità sia distinta dalla riproduzione: fintanto che questo non avviene, la soddisfazione della propria sessualità (nell'ambito eterosessuale) prevede la riproduzione. In quest'ottica la maternità, meno la paternità che è più palesemente culturale, può essere vista come conseguenza, quasi inevitabile, di un bisogno primario. Come dire che, se ho fame e mangio molte prugne devo prevedere che, come conseguenza quasi inevitabile,
avrò la diarrea. Né più, né meno. Ora io, in quanto animale culturale, ho detto prima, posso scegliere: non mangiare, mangiare meno prugne, avere meno rapporti sessuali, non averne, inventare una tecnica che mi limiti o mi annulli «l'effetto collaterale». Può essere piacevole avere la diarrea ... Scherzi a parte, non credo che la similitudine valga in valore, quanto in linguaggio: una cosa, comunque, prevede l'altra. Allora, la riproduzione, e da qui il desiderio di viverla può, forse, anche ... essere figlia di un bisogno. L'argomento scotta e passo subito più avanti.
L'amore materno/l'istinto materno. Lo so che, quando ho partorito (in un ospedale e in modo alquanto tradizionale) e mi son vista mettere di fianco, come si usa, quell'esserino di almeno tre chili con la faccia rossa e accartocciata, ho pensato: «E questo, cos'è?!?!». Sentivo fra me e lei una estraneità quasi stupefacente, nel senso che io stessa non me l'aspettavo. Ma l'amore materno, innato, istintivo, comune a tutte le femmine di animale e alle donne, dov'era? Mi era stato sottratto dalla durezza, dalla disillusione, dalla violenza di questa vita: «L'amore materno è un sentimento umano e come tutti i sentimenti è fragile, incerto e imperfetto» (4). Adesso so che spesso la amo, questa mia figlia, qualche volta non la sopporto. Ma perché, se «... si è stabilito tra gli intellettuali il tacito accordo di abbandonare questo vocabolo (l'istinto)... » (5), proprio la maternità la si pensa ancora in questi termini, avendo sì la compiacenza di abbandonare il vecchio vocabolo per quello di amore, ma lasciando questo pieno dei valori e dei significati del primo: forse perché l'immaginario di donna resta pur sempre il biblico «... tu partorirai (con dolore)»? La madre, santificata, beatificata, ma schiava nel suo ruolo innato, regna nelle menti di noi, popolo civilizzato del 2000!
Ma la donna che finalmente recupera la disponibilità del suo corpo, fino a quel momento contenitore di qualcosa ancora sconosciuto, chi è? E la madre che amerà suo figlio solo quando l'avrà abbracciato, guardato, solo quando l'avrà conosciuto, dov'è? «Le donne che rifiutano di sacrificare ambizioni e desideri per un maggiore benessere del bambino... » (6), cosa sono: «Snaturate!» urla il coro. «Non c'è molta differenza fra quello che i padri della chiesa, gli illuministi, i positivisti, i medici, i moralisti chiedevano alla donna e quello che tuttora le chiedono gli psicanalisti, da Freud a Helen Deutsch, da Melanie Klein a Winnicott. C'è solo una differenza di contenuti: dalla maternità imposta come sofferenza, espiazione, sacrificio, alla maternità-dovere-dedizione, alla maternità proposta ai giorni nostri dalla psicanalisi come un'estatica, perenne felicità che affonda le sue radici nella soddisfazione di un ineluttabile, insopprimibile «istinto materno» (che non spiega certo perché le donne abbiano sempre abortito con enormi rischi personali e perché continuino a farlo)» (7).
Ma come si fanno i figli oggi? Scontato che normalmente l'ambito «idoneo» sia ancora la coppia (chiamarla famiglia non s'usa più), andiamo a vedere com'è questa coppia. Dopo un breve periodo in cui le coppie si sono aperte, le coppie si sono scoppiate, sono rifluite, si sono incasinate, incazzate, ora pare d'essere tornati ai bei vecchi tempi: modello classico, coppia chiusa, guai chi entra-guai chi esce. Ancora una volta la scelta è drastica: continuare a vivere l'incertezza di un rapporto che si vorrebbe paritario con l'altro o finir dentro la solita casa, tre locali più servizi. E il figlio? Nel primo caso non si fa, perché l'incertezza fa bene solo ai grandi; nel secondo ... beh! non è più come una volta! Ora si fa la mamma perché si sceglie di farla, si smette di lavorare non per fare la casalinga, ma per avere più tempo per sè e il bambino. Papà è diventato bello, anche lui va al consultorio per la lezione di parto. Una coppia perfetta! Ma come hanno fatto? Sembrava tutto perso: la famiglia, mio padre, mia madre, il '68, le comuni...
E allora mi domando: che sia il figlio, l'operatore unificante della coppia risorta? Ma«... quando il bambino sarà consacratore della famiglia, si esigerà, complice il padre, che la madre rinunci a tutte le sue aspirazioni di donna. Così, succube suo malgrado dei valori maschili, sarà proprio la madre, trionfante, che saprà meglio vanificare tutte le richieste di autonomia delle donne, perturbatrici del benessere sia del bambino che del padre» (8).

1) «Ritratto di famiglia anni '80». aa. vv.,«Le nuove madri e i nuovi padri», di E. Gianini Belotti, Laterza, Bari 1981, pag. 137.
2) Ibidem, pag.133.
3) cfr. vari articoli su questa rivista e su «Volontà».
4) «L'amore in più. Storia dell'amore materno» di E. Badinter, Longanesi, Milano1981, pag.9.
5) Ibidem, pag.8.
6) Ibidem., pag.256.
7) «Ritratto ... » cit., pag.117
8) «L'amore in più ... » cit., pag. 14.