Rivista Anarchica Online
L'ambita preda
di Antonia Zanardini
La reale parità esistenziale fra uomo e donna, in ogni campo, è ancora lungi da venire. Considerare
ogni donna come «persona» è per molta gente un concetto astratto, perso tra le nuvole. Ne abbiamo
la più lampante dimostrazione se analizziamo quello che in questo ultimo secolo è diventato un
fatto di costume: la violenza sulle donne. Maltrattamenti in famiglia, violenza carnale, atti di libidine violenti nei confronti delle donne
possono definirsi come la fase comportamentale estrema di un discorso molto più ampio: il potere
da sempre esercitato dagli uomini su mogli, figlie, madri, sorelle o su donne non ben identificate
come individui ma considerate semplici oggetti su cui sfogare la propria sete di potere e di
sopraffazione. Dico da «sempre» perchè anche nell'ambito della violenza sessuale un'analisi più
attenta ci porta a scoprire che è un fenomeno che ha radici molto profonde. Già in alcune società primitive le tribù che scarseggiavano di manodopera per la coltivazione della
terra o che non avevano donne che garantissero la continuazione della specie rapivano le donne di
un altro clan usandole come coltivatrici e, naturalmente, come oggetti di piacere. Probabilmente,
già da quel momento di sopraffazione, la donna capì di avere diritto almeno alla propria integrità
fisica e probabilmente si ribellò. L'uomo da parte sua trasformò la sessualità in «lotta per la
conquista», la donna diventava così il mezzo col quale verificare i suoi attributi maschili: potere e
virilità. Il ratto e lo stupro sono stati addirittura usati come mezzi per giungere all'istituzionalizzazione del
potere dell'uomo sulla donna; sono atti che si compiono anche attualmente, perlopiù nelle
campagne, dove la violenza sessuale viene commessa per avere poi il diritto/dovere di sposare la
propria vittima, il potere esercitato con la violenza si trasforma così in diritto istituzionale. L'uomo
conquista la donna che con il matrimonio diventa uno dei tasselli della sua proprietà. Questo procedimento, e ciò è ancora più scandaloso, non viene nemmeno condannato, è solo la
logica conseguenza del rapporto di subordinazione e di dipendenza della donna. Che dire poi di ciò
che avviene in periodi di guerra? Storicamente la conquista di un territorio è sempre coincisa con la
razzia dei beni e la violenza sessuale sulle donne che vivono nei luoghi depredati; donna quindi
anche come facente parte del bottino di guerra. Quindi di recente nello stupro vi è solo la sua
colpevolizzazione, il coraggio della denuncia, il rifiuto di un ruolo da sempre vissuto con
rassegnazione. La donna vive il suo ruolo di oggetto della violenza maschile con paura. Paura della violenza in
quanto tale, paura della sua stessa ribellione, paura di denunciare il reato, paura del giudizio della
società e del nucleo familiare, paura anche di essere considerata anziché vittima, come l'autrice di
chissà quali provocazioni nei confronti del violentatore. Vi è un muro di ostilità nei confronti della donna violentata, vi è difficoltà nell'uscire allo scoperto,
nell'essere sottoposta a centinaia di domande più o meno offensive e provocatorie, vi è anche la
possibilità di non essere credute o la mancanza di coraggio nel denunciare lo stupratore quando
questo è suo padre o suo fratello. La violenza quindi come momento ma anche, e io dico
soprattutto, come «dopo», come amara constatazione della propria condizione che un atto come
questo ti rende comprensibile, il tuo essere oggetto ti appare davanti con tutta la sua crudele
lucidità. Una donna violentata si rende conto di non essere persona, di avere una dignità che ogni giorno
l'uomo calpesta, capisce che ogni giorno le altre donne, seppure in modo meno drammatico, vivono
questa sopraffazione. I meccanismi che portano alla violenza possono essere vari ma, e su questo spero non ci siano
dubbi, la matrice è sempre la stessa. Vi è il desiderio dell'uomo di riaffermare, anche con la
violenza, il suo potere sulla donna. Attraverso l'aggressione fisica l'uomo ricorda alla donna (caso
mai se ne fosse dimenticata), che lui è il maschio, lui è il potere, lui è la virilità. Lo stupratore può essere uno psicopatico o un sano; può agire da solo o in gruppo; può picchiare
violentare e poi uccidere, i casi possono essere centinaia, ma i meccanismi non cambiano; qualsiasi
tipo di stupro è sempre l'espressione del potere maschile. Anche l'immaginario ha influito molto sullo stupro e sulla posizione della donna nei confronti della
violenza. Citando Susan Brownmiller: «Le donne sono addestrate ad essere vittime di stupro... Noi
sentiamo sussurrare quando siamo bambine: le ragazze vengono stuprate. Non i ragazzi ... Lo
stupro ha a che fare con il nostro sesso ... Ancor prima di imparare a leggere ci è stata inculcata
una mentalità di vittime... ». Chi non ricorda la favola di Cappuccetto Rosso: «Cappuccetto Rosso e
la nonna sono ugualmente indifese di fronte alla forza e all'astuzia del lupo maschio. Il lupo
inghiotte le prede femmine senza segno di lotta ... Ma entra il cacciatore e sarà lui a raddrizzare
questo grossolano torto... Cappuccetto Rosso è una parabola dello stupro». L'immaginario erotico maschile ha creato una donna che in fondo non rifiuta lo stupro, lo vive con
ribellione mista al piacere, stabilendo così che la donna ha in sé una grossa componente di
masochismo (vogliamo chiamarla vittima felice?). Esistono molti miti maschili sullo stupro, sulla donna consenziente, sulla donna passiva. Freud
stesso studiò il masochismo femminile affermando che questo è lo stadio genitale finale derivato
dalla situazione caratteristica della femminilità, cioè dal ruolo passivo della donna nel coito e
nell'atto del parto (ogni commento mi sembra superfluo). La donna quindi come essere inattivo,
incapace di agire, di volere, quindi destinata a subire la sessualità in senso generico e lo stupro
come massima espressione di questa «sessualità a misura d'uomo». Lo stupro può essere analizzato nelle sue più diverse sfumature, è un argomento che si può
manipolare a piacimento, ma ne emerge sempre la sostanza, la struttura dominante: il maschilismo,
nella sua più bieca manifestazione. Studiare lo stupro è come risalire un fiume per giungere alla
fonte, per scoprire che questa fonte è, ahimè, il potere dell'uomo (del maschio nello specifico) che
si estrinseca in forme diverse. Eliminare questo potere vuol dire non considerare la donna alla pari di un oggetto, o meglio ancora,
non stabilire dei ruoli che lei poi dovrà indossare, quasi come fossero vestiti eleganti che la rendano
più piacevole e attraente all'occhio maschile. La donna non è una vittima consenziente, non è masochista, non è bottino di guerra, non è strega
tentatrice; la donna è donna, è persona, è individuo, è diversa ma eguale, e solo così vuole essere
considerata. Vi è un immaginario da costruire, ricostruire o modificare (scegliete voi), perché
finalmente l'uomo ci veda diverse e, perché no, per vederci diverse.
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