Rivista Anarchica Online
Più anarchica che femminista
di Fausta Bizzozzero
Quando avevo vent'anni ero in rivolta contro il mondo intero. Non mi andava bene niente di quello
che vedevo intorno a me: non la scuola, che avevo appena terminato e che aveva cercato
inutilmente di plasmarmi; non la famiglia, che vivevo come una prigione che riproduceva in nuce i
rapporti gerarchici che informavano tutta la società; non il lavoro, che mi sembrava organizzato in
modo idiota, anche se si trattava di un'azienda multinazionale di punta ed anche se non potevo fare
a meno di mettere in quello che facevo la mia intelligenza. Inoltre soffrivo atrocemente, per le ingiustizie che ogni giorno mi colpivano come un pugno nello
stomaco: la condizione assolutamente subalterna di mia madre, ma anche lo sfruttamento bestiale di
mio padre ed il mio sfruttamento, meno brutale perchè non svolgevo un lavoro manuale, ma
altrettanto bruciante; l'ostentazione sfacciata della ricchezza da parte di pochi e la fatica del vivere
della stragrande maggioranza. Ogni giorno scoprivo nuove forme che assumeva la disuguaglianza:
ricchi/poveri, donne/uomini, bambini/adulti, negri/ bianchi, malati/sani, vecchi/giovani. Scoprire
l'anarchismo, quindi, per me ha significato trovare una risposta alle mie domande, avere una griglia
interpretativa della realtà sociale, e, soprattutto, trasformare quella che era una rivolta istintiva in
una volontà cosciente di negazione dell'esistente e in una tensione verso un cambiamento globale
della società. Negazione del dominio in qualunque forma esso si esprimeva, dalla più brutale alla
più sotterranea; negazione della gerarchia, negazione della disuguaglianza. Tensione e volontà di
cambiamento verso la libertà, l'autodeterminazione, l'autoorganizzazione, la solidarietà. Ho cominciato allora a lavorare in un gruppo anarchico, in cui lavoro tuttora, scoprendo piano piano che solo in strutture «senza potere», in strutture orizzontali, ciascuno può veramente
cominciare ad essere individuo, unico e irripetibile. Ciascuno può riuscire a sfrondarsi dei retaggi
educativi e sociali e riuscire ad esprimere le sue potenzialità. Il lavoro comune e un confronto
continuo mi hanno enormemente arricchita, mi hanno fatto crescere come donna e come individuo
ed ho scoperto che questo processo di crescita non finisce mai, perchè infinite sono le possibilità di
ciascuno di noi. Insieme agli altri ho scoperto che sapevo scrivere il testo di un volantino o di un manifesto e potevo
stamparli, ho imparato ad esprimermi, a scrivere articoli, a fare un giornale dall'inizio alla fine, a
pensare e organizzare dibattiti, seminari, convegni. Insomma, ho percorso, piano piano, la strada
dell'autonomia e continuo a percorrerla. Non è una strada facile, né per gli uomini, né tantomeno per le donne che partono svantaggiate dal
peso dei condizionamenti culturali dominanti. Percorrerla significa, soprattutto per le donne,
rinunciare al calduccio delle propria tana, rinunciare alla sicurezza di una situazione statica tutta
interna - la famiglia - rinunciare a delegare al proprio uomo la gestione della propria vita e la
gestione dei rapporti sociali fuori, all'esterno. Ma è anche l'unica strada che conosco e comunque
non è percorribile senza un confronto/scontro continuo con l'altro, il diverso da noi, l'uomo, perchè
nessun cambiamento profondo e radicale della società è neppure pensabile senza un cambiamento
profondo delle donne - che debbono imparare a riappropriarsi della razionalità, della capacità di
tessere rapporti sociali, di comunicare con gli altri, di produrre pensiero - e degli uomini - che
debbono imparare a tirare fuori i lati «femminili» accuratamente nascosti della loro personalità. Per questo non mi sono mai sentita «femminista», perchè se da un lato vedevo emergere nel
femminismo alcune esigenze decisamente libertarie (la struttura organizzativa stessa in piccoli
gruppi, il rifiuto delle gerarchie al loro interno), verificavo anche istanze di puro
rivendicazionismo, nell'assenza di un progetto globale che investisse tutta la società. E proprio
questa assenza progettuale faceva sì che, accanto a discorsi interessanti e libertari, emergessero
anche discorsi allucinanti inscritti pienamente nella logica del potere (salario al lavoro domestico,
servizio militare, ecc.) in un'incoerenza continua. Si trattava, sempre, di un approccio
estremamente parziale al problema del potere. A me, a noi, invece, il discorso del potere sembra fondamentale: oggi il potere è maschile (anche se
esistono eccezioni), domani potrebbe essere femminile, ma non sarebbe cambiato assolutamente
niente e noi saremmo sempre pronte a combatterlo come oggi combattiamo questo. Per questo ci
sembra tanto importante conoscerne i meccanismi, analizzarlo, riuscire anche a capirne l'origine: se
è vera infatti l'ipotesi che l'origine del mito del potere si trova nell'istituzionalizzazione della
diversità uomo/donna, nell'esclusione dalla cultura della donna e nella costruzione di una cultura
che usa la donna solo come segno, allora si può anche supporre che bisogna agire sull'ambito
culturale, sull'ambito simbolico e, innanzitutto, cambiare il segno. Come si può pensare di cambiare
il mito del potere che informa tutta la società se non si cambia l'immaginario maschile e se non si
ricostruisce un immaginario femminile? Cioè, se non si ricompone l'essere umano diviso?
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