Rivista Anarchica Online
Cara Luce, la questione è molto complessa
«Non ignoro che non è sempre possibile fare ciò che sarebbe necessario fare, ma so che vi sono
cose che è rigorosamente necessario non fare mai» (Sebastian Faure).
Noi anarchici discutiamo instancabilmente della rivoluzione spagnola. Non bisogna
meravigliarsene, dal momento che in alcune regioni della penisola iberica il movimento
rivoluzionario ha prodotto le realizzazioni più importanti ed estese di tutta la storia, sul terreno del
lavoro solidale e della libertà umana. Tralasciamo, perché fin troppo note fra noi, le virtù e gli
eroismi della lotta del '36 in Spagna, così come il ruolo svolto dall'anarchismo per mezzo della
CNT-FAI. E veniamo all'articolo di Luce Fabbri sulla rivoluzione spagnola pubblicato sullo scorso
numero, soprattutto agli aspetti che ci obbligano ad una riflessione, a ricavarne un insegnamento o
una nuova conoscenza. Anche se desidero segnalarli, eviterò ora di discutere i due problemi di fondo che stanno a monte di
tutto il dibattito e che sono, a mio avviso, i seguenti: 1) Che cosa intendiamo noi anarchici per «potere» in una situazione rivoluzionaria? Quali sono le
strutture da sviluppare se nella lotta aperta contro lo Stato esso ci costringe alla lotta armata?
(aspetto, questo, che non fù discusso nel Congresso di Saragozza della CNT nel '36). 2) Esistono ragioni valide perché il regime politico definito «democrazia» sia difeso dagli
anarchici in quanto movimento in situazioni particolari? Questi due enormi problemi politici sono presenti nel falso dilemma di Garcia Oliver: «o
comunismo libertario, che è uguale a dittatura anarchica, o democrazia, che significa
collaborazione». E aggiunge: «La CNT e la FAI decisero per la collaborazione e la democrazia,
rinunciando al totalitarismo rivoluzionario che doveva condurre allo strangolamento della
rivoluzione da parte della dittatura confederale ed anarchica». Strane parole di rinuncia che si
inquadrano nel contesto dei primi momenti della rivoluzione, il 20 luglio e in Catalogna, quando -
afferma Peirats - «il governo centrale e quello della Generalità erano disarticolati; il popolo era
padrone dei destini della nazione e del proprio; la CNT e la FAI si erano rivelate la forza
predominante...» (José Peirats, La CNT nella rivoluzione spagnola, Ed. Antistato, Milano 1976).
Inoltre, come afferma sempre Peirats, l'opinione di Garcia Oliver era condivisa dalla maggioranza
dei «militanti influenti» della CNT-FAI. Questa è già una confessione di un problema preesistente
alla rivoluzione: la divisione tra «militanti influenti», «semplici militanti» e la gran massa dei
salariati. La CNT non lanciò una campagna astensionista in vista delle elezioni del '36 favorendo il trionfo
del Fronte Popolare, in contrasto con l'accordo assicurato poco prima ad una nota dell'AIT nella
quale si metteva in guardia il movimento spagnolo sui pericoli della non-astensione e della politica
del male minore. Santillan riconosce a posteriori il comportamento della CNT: «Demmo il potere
alle sinistre, convinti che in quelle circostanze costituissero il male minore». Anche Santillan, in
piena guerra (articolo su Tiempos Nuevos, maggio/giugno 1937), giustifica la partecipazione al
governo nei termini seguenti: «Qualcosa di simile all'apparato governativo ci era indispensabile. E
nei vecchi quadri governativi si infuse, con il nostro intervento, nuova vita. Nemici della guerra,
avevamo fatto una guerra di grandi dimensioni; nemici dello Stato, eravamo giunti a parteciparvi. Il
dilemma si pone ora in questi termini: riusciremo a fare dell'apparato governativo uno strumento
per la guerra e un meccanismo neutrale nel processo rivoluzionario (sottolineatura di E. Colombo),
impadronendoci della sua direzione, oppure saremo divorati dallo Stato, convertendoci in una
specie di partito politico in più soffocando, senza volerlo, la vera rivoluzione?» (Diego Abad de
Santillan, El Anarquismo y la revolución en España. Escritos 1930/38, Ed. Ayuso, Madrid 1977,
pag.352). Rileggendo questo passo non possiamo fare a meno di pensare che l'esistenza stessa del movimento
anarchico, la sua storia, la sua teoria sociale, la sua filosofia politica, costituiscono una risposta
sferzante e incontestabile al dilemma che Santillan non avrebbe mai dovuto porsi. Il libro di Vernon Richards Insegnamenti della rivoluziorie spagnola è un'analisi interessante del
processo storico, fatta da un punto di vista anarchico. Luce lo riconosce e approva le sue
conclusioni, ma dimentica anche qualcosa che ha una sua importanza. L'edizione in castigliano - la
cui traduzione dalle edizioni inglese (1953) ed italiana (1957) fu effettuata dal compagno Lain Diez
con la collaborazione diretta di Richards - è apparsa recentemente a Parigi nel '71 per iniziativa di
quel piccolo gruppo che eravamo in quel momento. Nei primi anni sessanta la traduzione era già
stata fatta e Lain Diez la propose alla casa editrice Proyección di Buenos Aires. Questa casa
editrice, dietro alla sua facciata commerciale neutra, apparteneva in realtà al movimento anarchico
del Rio de la Plata con tutte le sue tendenze. Se i miei ricordi sono esatti, fu in un'assemblea
generale di Proyección che si tenne nel 1963 e alla quale partecipò la FAU (Federacion Anarquista
Uruguaya) - non so se Luce era ancora in quell'organizzazione, che si scisse proprio in quell'anno -
nella quale dopo un'ardua, difficile e prolungata discussione si decise di accantonare la
pubblicazione di Insegnamenti della rivoluzione spagnola, per l'opposizione formale del gruppo al
quale appartenevano Herrera e Santillan. Desidero mettere in chiaro che la discussione era tra
compagni e non tra tendenze, anche se le differenze su questo tema corrispondevano in una certa
misura alle distinzioni in gruppi. Questo mi fa pensare che se considerazioni di tipo opportunistico impedivano la pubblicazione di
un libro anarchico da parte di una casa editrice anarchica, allora che cosa sarebbe successo se si
fosse vinta la guerra, alla quale la rivoluzione era subordinata! Probabilmente avrebbe avuto
ragione Santillan con la seconda parte del suo dilemma e gli anarchici che si legarono al carro dello
Stato starebbero schiacciati sotto il peso. Le ragioni del «realismo politico», o del «male minore»
come le si voglia chiamare, che prevalsero all'inizio della rivoluzione e della guerra, avrebbero
continuato ad essere altrettanto valide, se non ancor più valide, di fronte a governi ostili, allo
sviluppo interno dell'apparato comunista, alla guerra internazionale e all'inoperosità del proletariato
dei paesi cosiddetti «liberi». Ma non soffermiamoci su cose che non sono avvenute. Quelle che sono accadute sono sufficienti per farci comprendere che all'interno dello stesso
movimento anarchico c'erano germi autoritari pronti a moltiplicarsi quando le condizioni esterne lo
esigettero. Io credo che alcuni di questi germi possano essere individuati: per esempio, il peso
particolare dell'opinione politica di alcuni compagni (i «militanti influenti») che, piaccia o non
piaccia, si attribuirono funzioni dirigenti nel seno di una rivoluzione (o di una guerra); o, se si
preferisce, la sacralizzazione dell'«organizzazione»; l'accentuato «patriarcalismo» della
maggioranza dei militanti di quell'epoca; ecc. ecc .. Detto ciò, debbo aggiungere di non essere insensibile agli argomenti espressi da Luce; tutti noi
rivoluzionari dobbiamo lottare un poco anche contro noi stessi, per il fatto di essere noi stessi figli,
per quanto ribelli, della società in cui viviamo. E nessuno sa, in situazioni straordinarie, a quali
rinunce potremmo arrivare per buone ragioni, come quelle di salvare le vite di altri compagni o di
ridurre la portata dei colpi di un nemico, finora più poderoso di noi. Non è un giudizio morale sul comportamento dei singoli compagni o del movimento spagnolo
quello che esige la rivoluzione del '36, ma un'analisi lucida del perché furono abbandonati i principi
fondamentali dell'anarchismo nel momento in cui erano più necessari che mai da parte di compagni
che per questi principi avevano dato tutta una vita di lotta. Tutti uomini, che - a mio avviso - si
sbagliassero o no non importa, meritano rispetto, quando combattono per i loro ideali di giustizia e
di libertà per tutti gli sfruttati e gli oppressi della terra. Ma ci sono cose che un anarchico non può
fare mai.
Eduardo Colombo (Parigi)
P.s. C'è un altro aspetto nel saggio di Luce che mi piacerebbe discutere ed è la relazione tra il
sindacato e l'organizzazione specifica. La posizione della FORA non può esser squalificata con il
solo riferimento al golpe di Uriburu. Ma ci saranno altre occasioni per farlo. Ma approfitto per dire
ai compagni della redazione di «A» che l'articolo di Malatesta, affiancato ad un precedente
intervento di Luce Fabbri («A» 104, «Ancora sulla democrazia»), è stato pubblicato amputato del
primo paragrafo che, situando il testo nel seno di una polemica, chiarisce la curiosa «fede»
riformista del grande rivoluzionario.
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