Rivista Anarchica Online
Per un anarchismo an-archico
di Octavio Alberola
«Non c'è dunque, rispetto al potere, un luogo del grande Rifiuto - anima della rivolta, matrice di tutte le ribellioni, unica legge del rivoluzionario. Ma solo diverse resistenze. (M. Foucault)
L'esistenza di una filosofia antiautoritaria (vecchia o «nuova») e di correnti anti-Stato estranee al
Movimento anarchico non è un fatto nuovo né qualcosa che debba sorprenderci; e neanche il fatto
che non facciano riferimento ai teorici dell'anarchismo classico. Il paradosso è che esistono ancora
molti anarchici a cui costi tanto riconoscere questa evidenza: che né l'Anarchismo (con la A
maiuscola, per dargli un'autorità di corpus dottrinale) è tutta la summa del pensiero antiautoritario,
né la pratica Anarchica (per darle un'identità di Movimento), è sempre stata la pratica più
consequenziale della libertà e dell'autonomia. Che lo vogliamo o no, la critica concettuale più dura al Potere e le negazioni più radicali
dell'Ordine provengono attualmente da pensatori e gruppi indipendenti che non vogliono essere
assimilati a nessuna ideologia e che, per essere precisi, fondano la loro indipendenza e il loro
antiautoritarismo sulla negazione della soggettività oggettivata dalla sistematizzazione della libertà
assurta a dottrina. E' vero che il vasto campo di questo nuovo antiautoritarismo teorico e pratico pullula di
«pensatori» di molti diversi livelli, e che non sempre tutti sanno evidenziare e porre in pratica tutte
le conseguenze della loro posizione antiautoritaria, però è altrettanto vero che all'interno
dell'Anarchismo è stato possibile constatare la presenza di pensatori e allo stesso tempo di posizioni
molto «singolari». E non bisogna neanche dimenticare che, nel caso della maggior parte di queste
nuove correnti anti-Stato, si tratta di un rifiuto unilaterale e superficiale del dogma marxista (1), più
che di una globale e approfondita critica al pensiero autoritario. Non abbiamo ritenuto opportuno
fare riferimento ai casi più dubbi (anche se per questo non meno significativi) di questi «nuovi»
profeti del liberismo antiautoritario «new-look» (2) tanto in voga ultimamente in certi circoli
«progressisti»... Insomma, non c'è alcun dubbio che l'esistenza di queste correnti (di dissidenza e di contestazione
antiautoritaria), all'interno delle moderne società post-industriali, è un fatto che non possiamo
negare o ignorare, e che a nostro avviso acquista una importanza capitale in questi momenti di crisi
e tramonto dell'Anarch-ismo istituzionalizzato e di ripiegamento generalizzato del movimento
rivoluzionario. Per questo - hic et nunc - senza fare l'analisi di queste correnti filosofiche, politiche
e ideologiche anti-Stato, cercherò tuttavia di evidenziare le cause che - a mio avviso - hanno
impedito e continuano ad impedire l'incontro dell'Anarch-ismo con questo antiautoritarismo
intellettuale e con l'antiautoritarismo autonomo in generale. Non solo perché può essere utile per
capire le attuali contraddizioni e incapacità del Movimento anarchico internazionale, ma anche
perché mi sembra necessario, urgente e possibile superare questa frattura assurda e giungere ad una
fraterna ed efficace convergenza di tutte le correnti antiautoritarie che lottano contro lo Stato e le
tendenze antiautoritarie delle società contemporanee.
Contestazione antiautoritaria e dissidenza Dal maggio del '68 assistiamo ad un vasto processo di contestazione del settarrismo e
dell'autoritarismo, di tutti gli apparati dirigenti e delle burocrazie che hanno confiscato, a proprio
esclusivo beneficio il potere - sia direttamente, attraverso lo Stato, o semplicemente all'interno dei
Partiti e Organizzazioni sindacali. Inoltre, da quando Solgenitsin costrinse gli stessi Partiti
comunisti occidentali ad ammettere l'esistenza e la grandezza del Gulag, «il continente storia
all'interno della teoria scientifica, il Socialismo (con la S maiuscola)», non ha cessato di generare
dissidenza... Questa contestazione e questa carne sacrificata (in nome del Socialismo) hanno ottenuto alla fine,
come risultato, di far cadere le maschere e di aprire gli occhi a molti intellettuali e operai marxisti,
costringendoli a riconsiderare la loro storia: ben diversa da quella che, in nome della Teoria, ha
dettato legge sulla Storia del Movimento Operaio (non dimentichiamo le maiuscole) e non ha
parlato delle generazioni di operai, di contadini e di intellettuali che marciavano ben scortati verso i
campi di sterminio; costringendoli a pensare alla loro storia... e a rimettere in discussione
l'ideologia e il processo di interiorizzazione dell'autoritarismo da parte del movimento
rivoluzionario. Non deve sbalordire quindi, che questo processo di scoperta e presa di coscienza degli «eccessi»
del Potere (qualsiasi Potere) abbia condotto numerosi intellettuali e militanti operai a scoprire e a
usare a loro volta l'autoritarismo implicito in qualsiasi progetto (riformista o rivoluzionario) che
pretenda di conquistare il «benessere» degli uomini a prescindere da loro. L'inevitabile
conseguenza è stata che la maggioranza ha dissentito. Così, in modo diverso a seconda dei diversi contesti, i dissidenti testimoniano in favore della libertà
contro l'autoritarismo, anche se tutti non lo fanno negli stessi termini né adottano gli stessi
atteggiamenti di resistenza e di negazione del Potere. Non va dimenticato che i vecchi residui
autoritari e le vicissitudini della vita quotidiana continuano a determinare, in molti casi, discorsi e
atteggiamenti paradossali e contradditori che finiscono per accomunare la dissidenza con un
marginalismo folkloristico o con una semplice opposizione di potere al Potere. E ce n'è altri che, a
causa della loro incapacità di avere un valido rapporto con la realtà o perché prematuramente delusi
e scoraggiati dagli anatemi e persino dalle aggressioni fisiche di cui sono stati vittima, non fanno
altro che distillare il loro pessimismo ... In questo senso sono una buona occasione per farci
ripensare al nostro ingenuo ottimismo più che per una lucida riflessione destinata a sfociare in una
azione contro la menzogna e la barbarie. Tuttavia - in questi tempi in cui l'Ordine democratico e l'Ordine totalitario collaborano su tutto il
pianeta per instaurare un ordine cosmico -, qualsiasi apporto alla critica dell'autoritarismo diventa
prezioso. Maggiore è il numero di coloro che si chiedono: «Perché sempre il Potere?» e «Perché si
risolve sempre in barbarie?», più potente ed efficace sarà la resistenza contro tutte le manifestazioni
della Razionalità e dell'irrazionalità autoritarie. Perché ci sembra che, più che sapere se ci sono, o
se ci possono essere, società senza Potere, è più urgente oggi scoprire da dove viene la sua
perennità, perché si trasforma invece di scomparire, perché, radicandolo nel corpo degli uomini, il
Destino e la Cultura lo fissano nel firmamento dei nostri orizzonti ...
Per un anarchismo an-archico No, non si tratta di una tautologia, ma di una legittima aspirazione; perché in realtà, esiste anche un
Anarchismo autoritario, esattamente come ne esistono uno folkloristico e uno demagogico. Per
trovarli, è sufficiente imbattersi in tutti quegli Anarchici (con la A maiuscola) che non riconoscono
altro anarchismo che quello delle Federazioni nazionali o quello che si manifesta attraverso il
rituale organico (anatemi ed espulsioni compresi). Sì, mi pare che sia giunto il momento di pronunciarsi per un anarchismo an-archico, antiautoritario,
sostenitore dell'anarchia e non dell'Anarch-ismo; perché attualmente «la distinzione tra i due
termini supera di gran lunga il semplice gioco di parole o la sottigliezza semantica» - come dice
Fernando Savater (3). E perché, per giunta, «anarchismo» riporta inequivocabilmente a uno di quei
metodi o tragitti politici, più o meno istituzionalizzati, che diventano «partiti», di cui si «è», o «ci si
può fare» membri, in cui uno si «inquadra» o in cui si «milita» fino al giorno meraviglioso in cui
giungano a trionfare e a prevalere su tutti gli altri. E questo senza mai dimenticare che siamo
immersi (dalla testa ai piedi) in una società politica e culturalmente autoritaria che ci inganna e ci
condiziona fin dalla più tenera infanzia, e che sarebbe assurdo e pretenzioso credere di essere
definitivamente e totalmente immunizzati contro tutte le tentazioni autoritarie per il semplice fatto
di considerarci e definirci anarchici. Senza necessariamente far riferimento a una «disciplina di ferro» o ad una «dittatura invisibile» -
secondo i dettami di Bakunin - né alle sue società segrete che dovevano essere la forza propulsiva
della rivoluzione (Bakunin fu per lo meno un lottatore e un rivoluzionario coerente per tutto il
corso della sua vita), e senza nemmeno appoggiarci alla «esemplare» esperienza della
partecipazione al governo degli anarchici spagnoli, la persistenza tenace del settarismo ideologico
(nei rapporti tra gli anarchici stessi) è una irrefutabile testimonianza dell'esistenza di questo
Anarchismo autoritario che dobbiamo denunciare e combattere affinché l'anarchismo sia veramente
un movimento di riflessione e di prassi antiautoritarie, e non la negazione di tutto questo. Al punto in cui ci troviamo, è ampiamente dimostrato che mentre la mentalità dell'uomo non
cambierà, mentre la sua formazione (sociale e culturale) continua ad essere autoritaria, una tale
forma di organizazione avrà sempre la tendenza a diventare un'Organizazione (con la O maiuscola)
e le sue strutture, per semplici e aperte che si dimostrino, tenderanno a trasformarsi in apparato
burocratico. L'errore, la trappola, continua ad essere la sottrazione dell'azione e la rappresentatività
di un gruppo da parte di una minoranza o di un individuo, sia per abdicazione «liberamente scelta»,
sia per imposizione più o meno subdola. La sottomissione al sistema gerarchico della «responsabilità organica» si ottiene con l'approvazione
dei militanti, della «base», sia perché non le rimangono altre alternative, sia perché in qualche
modo le fa comodo. Così, questa sottomissione genera inevitabilmente la dicotomia
dirigenti/diretti. E questo senza bisogno di ricorrere apertamente a quello che i comunisti
definiscono per antifrasi «centralismo democratico». Lo stesso Bakunin lo aveva capito quando
diceva: «Quanto più gli anarchici si organizzeranno, tanto più si allontaneranno dall'anarchia». Il nemico della libertà non è solamente l'autoritarismo degli altri, ma anche e soprattutto il nostro,
anche inconfessato. Per cui, se l'autoritarismo (degli uni e degli altri) ammazza la libertà e
impedisce all'uomo di realizzare i suoi desideri e di «vivere l'amore e l'appagamento di se stesso
come qualcosa di quotidiano all'interno della società», è chiaro che non si risolve il problema con
un semplice rifiuto delle strutture esistenti e dell'organizzazione. In altre parole: non è sufficiente
invertire i termini della frase di Bakunin per ottenere il contrario, cioè quanto meno gli anarchici si
organizzeranno, tanto più si avvicineranno all'anarchia. L'individualismo ad oltranza,
l'emarginazione totale, l'evasione dalla società o l'inciviltà non risolvono il problema che solleva
l'autoritarismo, e non servono nemmeno per favorire la nascita e la difesa di «isolotti» di libertà in
questa mappa dominata interamente dalla razionalità autoritaria: perché non c'è alcun dubbio sul
fatto che la libertà, o la viviamo tutti, o non la vive nessuno. Per giunta, dimenticare che il nemico
esiste, che ci minaccia continuamente e che se non lo arginiamo in qualche modo finirà per farci
sprofondare nella più cupa barbarie, significa aprirgli la strada ed essere complici del suo trionfo. Se le cose stanno così, mi pare che il problema non sia tanto quello di confrontare la spontaneità
con l'organizzazione, quanto quello di impedire che quest'ultima diventi Organizzazione, cioè
struttura capace di annientare la spontaneità e l'autonomia dei suoi membri. Il problema è quello di
riuscire a intraprendere una lotta contro la morte senza per questo sacrificare la vita, e per riuscirvi
mi pare indispensabile conservare ed esaltare i valori della vita (spontaneità, autonomia e fraternità)
in ogni istante e ad ogni livello di lotta. Tutti i tipi di lotta sociale più significativi di questo momento storico hanno una caratteristica in
comune: non sono diretti da organizzazioni potenti e ben strutturate e non hanno nessuna
intenzione di rivolgersi allo Stato per ottenere determinate concessioni, ma al contrario sono decisi
a privarlo del suo potere in un punto ben preciso. Cosi facendo dichiarano pubblicamente la loro
volontà di organizzare l'attività del gruppo ai margini dello Stato e di qualsiasi controllo ideologico
attraverso il recupero della libertà d'azione di cui sono stati privati. Ne consegue che
antiburocratismo, antidirigismo, autodeterminazione, autonomia e autogestione sono le parolechiave rivendicate dai protagonisti di questi tipi di lotta e da quelli che vogliono teorizzarci sopra. Nonostante le trappole e la capacità di seduzione che sa esercitare la società dei consumi, le
rivendicazioni antiautoritarie tornano ad essere il nucleo essenziale dell'aspirazione rivoluzionaria,
anche all'interno dello stesso movimento operaio schiavo del sistema. L'antiautoritarismo non è
dunque un atteggiamento esclusivamente individuale, ma può essere anche una pratica collettiva
nella misura in cui l'impulso e l'orientamento, più che la realizzazione, vengono sempre dalla base,
dall'insieme di tante individualità che costituiscono la collettività. La caratteristica più peculiare del movimento libertario spagnolo, per esempio, è stato il suo
carattere di massa, il fatto che sia andato sviluppandosi, nell'arco di più di mezzo secolo, attraverso
organizzazioni di massa. Però, contrariamente a quello che alcuni pretendono, non è stato il numero
di affiliati alla CNT a dare forza all'anarchismo in Spagna, ma è stata piuttosto la coincidenza tra
idee anarchiche e carattere della società spagnola che ha permesso questa aderenza di massa.
«Senza questa felice coincidenza la CNT non sarebbe stata possibile» (4). Dirò di più: senza una
prassi anarchica di questo tipo, contro il burocratismo, il dirigismo e la manipolazione, la CNT
sarebbe stata un'altra organizzazione sindacale e niente più. Ne è la dimostrazione il fatto che, una
volta abbandonata questa linea, ha avuto inizio il declino. Il problema fondamentale dell'anarchismo, dunque, è quello dell'ipocrisia: il fatto di non essere
veramente un anarchismo an-archico, antiautoritario, antisettario, antiburocratico, antidirigista,
aperto a tutte le correnti e a tutte le pratiche antiautoritarie, libero da idoli e da bandiere, senza
complessi di superiorità, senza dei né padroni.
Contro le certezze tranquillizzanti Se non vogliamo diventare colpevoli di quell'ipocrisia che denunciamo negli altri (dalla Sinistra
all'estrema sinistra), dobbiamo riconoscere francamente che se l'anarchismo si fosse
istituzionalizzato, come già ha fatto il socialismo, è molto probabile che sarebbe sfociato anche lui
in qualche gulag o in simili società burocratiche, monolitiche e totalitarie. Per fortuna l'anarchismo
non è stato istituzionalizzato né dalla Storia né dal Potere, tranne che in qualche forma caricaturale
e marginale di qualche gruppo-setta che ha preteso di farne una specie di Chiesa ... Il che dimostra
il peso e la perennità degli abiti mentali e comportamentali di imposizione e sottomissione. In questo senso, l'ottimismo e il pessimismo storici appaiono come tipi di manifestazioni diverse
della stessa rassegnazione di fronte alla fatalità dell'ordine costituito, e da lì la tenace persistenza
dei vecchi «topoi» ideologici, che, tanto nel campo marxista, quanto in quello libertario hanno
funzionato e funzionano tuttora da ultimo baluardo, ultima consolazione per una fedeltà alla
dottrina ogni volta più dogmatica e settaria: «la lotta di classe come motore della storia», per i
marxisti, e «il pensiero è anarchico e verso l'anarchia va la storia» per i libertari. Allora diciamo che, anche se questa impossibilità di sfuggire alla tentazione di appoggiarsi alle
certezze tranquillizzanti e alla speranza di un domani migliore è comprensibile, non possiamo però
fare a meno di denunciare il suo carattere fatalista e fuorviante nei confronti del presente (ciò che è
doveva essere). Accettare questi «topoi», rifugiarvisi e sperare che il Tempo e la Storia ci portino la
Rivoluzione sul vassoio, è il modo più comodo e pericoloso di rimandare a domani e dopo
(«quando le condizioni oggettive ci saranno tutte») la resistenza al potere e di adagiarsi nella
situazione contingente - con il vantaggio di continuare a proclamarsi rivoluzionari! Mi pare quindi che sia giunto il momento di denunciare l'illusione di questa Storia portatrice di
speranza e di un radioso futuro, di questo Ottimismo che afferma che la Storia ha un senso proprio
e che tende sempre al meglio... Perché, definendo l'Uomo come un viandante del destino che lui
stesso si costruisce con le sue mani, leggendo la Storia come la progressiva conquista che si
effettua procedendo nel vagabondaggio, non si fa altro che affermare e confermare l'ideologia della
classe dominante - ideologia che fonda sul «lavoro» il principio del suo dominio e che allo stesso
tempo rende legittimo il potere di questo lavoro e la dignità del nuovo Potere che fonda su di lui la
sua priorità (il credo liberale). E perché, definendo l'uomo come il protagonista di un'interminabile
genesi, considerando il tempo come la forma di un'implicazione continua di cause dove tutto si
sviluppa secondo una necessaria applicazione di principi, si riconosce il ruolo determinante della
Tecnica e dei suoi poteri demagogici, che è quanto la borghesia ha sempre sostenuto. I ribelli che lottano contro la Dominazione e che non aspirano ad instaurare altre forme di
dominazione, non lottano in nome della Storia. In modo più o meno confuso pensano ai fini della
Storia; perché mi pare che non c'è mai stata ribellione, intesa come tensione alla libertà, che non sia
stata ribellione contro il Tempo ... «Dato che, com'è risaputo, non c'è altro mondo all'infuori di
questo, e che da lui stesso scaturiscono tutti i ricordi e i miti degli uomini e la loro successiva
sistematizzazione scientifica in Storia, come anche l'attesa del Giorno Finale della Giustizia o le
minacce del Giudizio Universale o dell'Apocalisse: tutte queste fantasticherie o immagini di altri
mondi fanno parte anch'esse di questo mondo, e non possono certo essere di aiuto nel nostro
tentativo di rapportarci a lui o di negare in modo evidente lo Stato e l'Idea del suo Tempo», come
diceva Garcia Calvo (5). Predicare l'attesa e la speranza, invitare il proletariato a prepararsi e ad irrobustirsi, inibire la furia
rivoluzionaria in nome di un momento che non arriva mai, vuol dire dimenticare di fatto una cosa
molto semplice: un momento che non giunge è un momento che diventa eterno, una contraddizione
che matura è una crisi che si risolve, una classe che si prepara è - sempre - una classe che si integra.
Insegnare ad avere pazienza significa imparare a collaborare. In altre parole: per «riacquistare la
pienezza del nostro essere individuale e collettivo», per realizzare le nostre aspirazioni di libertà,
per aprire le porte del futuro all'immaginazione, dobbiamo cominciare oggi stesso, o non lo faremo
mai.
Vivere l'anarchia oggi? Abbandonate le chimere topiche di un rivoluzionarismo teorico che non ha saputo o che non è stato
in grado di tenere in considerazione tutta la complessità della natura umana e della società, non ci
resta altro da fare se non posare saldamente i piedi su questa realtà che ha fatto vacillare tanti e ha
fatto abbandonare tante certezze, e cercare di sperimentare, con spirito critico, nuove risposte. In questo modo, «affermare la vita contro la mera sopravvivenza a cui siamo condannati», come si
afferma comunemente oggi, può essere già un modo di cominciare a vivere l'anarchia. Tenendo ben
presente che per affermare la vita bisogna ripudiare l'immobilismo e la sclerosi del pensiero e
dell'azione, e l'autocompiacimento di colui che è convinto di detenere la Verità e di marciare sulla
Retta Via. Oggi sappiamo che la pulsione esistenziale, cioè quella spinta che garantisce la continuità della
specie, è questa prodigiosa capacità di dubbio, di stato d'allarme, di ribellione di fronte al fatalismo
naturale, sociale o metafisico. Ne consegue che la critica alla politica e all'ideologia, come quella
alla scienza, deve essere un esercizio continuo e un continuo porre in discussione le nostre certezze
e i nostri dubbi, in «una articolazione di vacillamenti» e in «uno scetticismo attivo» (6).
Contrariamente alle teorie complete, chiuse, e ai progetti rivoluzionari ben rifiniti e pronti per
l'attuazione, la nostra critica deve essere aperta, senza nessuna pretesa di infallibilità e con una
grande dose di sincera incertezza. Di sicuro, ritrovarsi di colpo come alla fine di un lungo viaggio, con la testa e le mani vuote, come
è già successo a molti dei dissidenti rivoluzionari, non dev'essere né molto piacevole, né tantomeno
tranquillizzante. Meno male che il Marxismo e l'Anarchismo avevano qualcosa di «buono»:
dispensavano dal fatto di dover pensare, facevano da bussola, permettevano di trovare, in qualsiasi
punto ci si trovasse, il Nord... Con simili strumenti non si aveva mai alcun dubbio e non ci si
sbagliava mai. La nostra Scienza e il nostro Ideale, e quindi la nostra Coscienza, avevano sempre
ragione. Anche noi anarchici eravamo come tutti gli altri: possedevamo la Verità. E non aveva
alcuna importanza il fatto che l'anarchismo, portato alle sue estreme conseguenze, non potesse
essere altro che un atteggiamento di rifiuto di qualsiasi forma di autorità politica o concettuale, e di
conseguenza, di qualsiasi certezza e sistematizzazione del pensiero. Allora, vivere l'anarchia oggi è denunciare le contraddizioni autoritarie dell'Anarch-ismo e
contribuire alla ricerca e alla formulazione (senza formule, però con principi validi per tutti) di un
anarchismo an-archico coerente con i suoi principi fondamentali; cioè: senza dogmi né
atteggiamenti settari, aperto a tutte le problematiche e le esperienze di libertà, antiautoritario e che
infine permetta e renda possibile l'incontro degli anarchici con tutti quelli che si oppongono più o
meno coscientemente alla prevaricazione dell'uomo sull'uomo. E questo non solo per semplici
ragioni di etica libertaria (l'anarchia deve essere il risultato del desiderio e dell'azione di tutti e non
solo l'«opera» volontaristica di un gruppo o di un'avanguardia di illuminati), ma anche perché
davanti all'estrema complessità del mondo in cui viviamo e l'opprimente presenza e permanenza
delle forze di sfruttamento e dominazione, la nostra azione rivoluzionaria non può fare altro (una
volta abbandonata l'illusione della Grande Sera che sarà domani o dopodomani) che affermare,
estendere e al massimo coordinare le «diverse resistenze»... Vivere l'anarchia oggi, significa introdurre, all'interno dei gruppi (che pretendono di essere
antiautoritari e rivoluzionari), la pratica di una critica e di un'autocritica quotidiane, senza
discriminazioni né anatemi, e senza petulanti paternalismi; lasciando un po' da parte la facile
denuncia ideologica dello Stato, del Capitale, della Religione, dei Partiti, ecc., e cercando di capire
cosa c'era ancora di attraente nella tentazione autoritaria, per trovare una spiegazione al fatto che
l'autoritarismo ha ancora tanti seguaci e che continua a comparire anche all'interno dei discorsi e
delle pratiche (individuali e collettive) che hanno la pretesa di negarlo e di combatterlo. Come dice
Garcia Calvo «Per non giungere mai a conclusioni o a progetti, o a consegne di nessun tipo
attraverso la deduzione ma lasciando che la teoria produca quanto ha da produrre: azione,
attuazione, lotta, prassi rivoluzionaria e dèmoni scatenati». Forse tutto questo non è sufficiente a potenziare l'influenza che noi esercitiamo sulla storia
quotidiana e a porre fine alla Storia che ci impongono quelli che ci sfruttano e che comandano; però
smetteremo per lo meno di essere la caricatura paradigmatica degli utopisti della libertà. Sia perché
nella nostra lotta per ottenerla saremmo consequenziali nella teoria e nella pratica, sia perché,
facendo coincidere le nostre parole con i nostri comportamenti, potremmo magari, alla fine, essere
presi sul serio (da tutti quelli che si oppongono in modo più o meno cosciente alla dominazione), se
la smettessimo di arrabattarci a vuoto, o di negarci a noi stessi - come invece è successo molte volte
fino a questo momento.
(traduzione di Tiziana Tosolini)
(1) Come dice A.G. Calvo: «Non si diventa marxisti solo leggendo (o iscrivendosi al Partito), ma
spesso lo si nasce» (Apotegmas a proposito del Marxismo). (2) Dai resuscitati Milton Friedman, Friedrich von Hayek, Bertrand de Jouvenal, ecc., fino ai
«nuovi» economisti antiStato degli U.S.A., passando per tutti i socialisti che hanno rivalutato il
capitale e l'impresa privata. (3) Il «Para la Anarquia». (4) Felipe Orero, in «Reflexiones sobre lo libertario al margen de una encuesta», in «EI
movimiento Libertario Español» pubblicato da Cuadernos de Ruedo Ibérico. (5) «Che cos'è lo stato». (6) Fernando Savater, op. cit.
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