Rivista Anarchica Online
Una
rivoluzione contro il potere
di Nico Berti
Molti
ne parlano ancora in termini di "guerra civile", ma quella
spagnola fu una vera rivoluzione popolare, sociale, nata sotto il
segno del rifiuto della politica. Analizzare
oggi quegli avvenimenti significa anche fare i conti con le carenze
strategiche dell'anarchismo.
La
rivoluzione spagnola del 1936-39 è la prima e l'ultima rivoluzione
autenticamente proletaria della storia europea. Le rivoluzioni del
1848 furono essenzialmente borghesi. La Comune di Parigi del 1871
durò sessantatré giorni e interessò soltanto la capitale della
Francia. I moti italiani della fine del secolo e quello successivo
della "settimana rossa", furono, per l'appunto, moti e non
rivoluzioni. Ancora i moti in Europa negli anni 1919-20 -
propagazioni dell'ondata rivoluzionaria iniziata nella Russia del '17
- si esaurirono quasi subito una volta che la crisi postbellica trovò
soluzioni autoritarie o democratico-borghesi. La rivoluzione russa fu
una rivoluzione proletaria, ma la Russia non appartiene interamente
all'Europa. Nella
Spagna del 1936 si chiude dunque un ciclo di aborti e nasce l'unica
rivoluzione popolare dell'occidente a carattere francamente
socialista e operaio capace di coinvolgere un intero popolo. Forza
politica e sociale di gran lunga prevalente di questa rivoluzione è
l'anarchismo. Conclusione: l'anarchismo trova la sua massima
espressione concreta nell'unica rivoluzione popolare, operaia,
socialista e proletaria europea. Bisogna dire che è quanto mai
curioso l'argomentare di quella storiografia che assegna al movimento
anarchico una natura irrimediabilmente piccolo-borghese! La
rivoluzione spagnola non è soltanto una rivoluzione proletaria. Essa
è anche una rivoluzione "classica", vale a dire un
movimento di trasformazione sociale così radicale (considerando il
tempo entro cui si svolge questa esperienza) che non ha precedenti in
tutta la storia delle rivoluzioni: la radicalità del mutamento,
l'ampiezza del consenso e l'universalizzazione del comportamento
rivoluzionario ne fanno il punto più alto dei moti emancipatori
dell'epoca moderna. Qui non può essere applicato il paradigma di
Weber e Ferrero circa l'intrinseco carattere "non legittimante"
di ogni trasformazione rivoluzionaria: legalitari erano i
rivoluzionari (cioè quasi tutta la popolazione), non i conservatori.
Questa naturale legittimazione (espressione della spontaneità del
movimento) fa della Spagna il primo autentico esempio di un moto
rivoluzionario senza forzature giacobine. È
questa, pertanto, la ragione per cui è giusto parlare di rivoluzione
popolare e non di guerra civile. È vero: in Spagna ci fu anche una
guerra civile, ma ciò come sovrapposizione secondaria. Si deve dire
che la reazione fascista non avrebbe avuto effetti decisivi se non vi
fosse stata una spontanea e diffusa pressione rivoluzionaria del
popolo. Fascismo e antifascismo sono insomma la logica conseguenza di
una totale assenza giacobina nella genesi della rivoluzione. Non sono
i rivoluzionari che insorgono contro un potere esistente più o meno
legittimato. Sono i reazionari (sotto forma di fascismo) che anticipano
con la forza un esito che nelle cose era già scontato: senza
l'intervento dei militari la repubblica non avrebbe alla fine retto
al poderoso urto impresso dalle classi inferiori con le loro
consapevoli esigenze emancipatorie. La rivoluzione stava nelle cose,
essa costituiva uno sbocco inevitabile. Ecco per quale motivo
intervennero i militari. Possiamo
così confrontare la Russia e la Spagna. In Russia i bolscevichi
attuano un colpo di Stato perché sanno che nell'assemblea
costituente essi sarebbero stati in netta minoranza, cioè non
avrebbero mai avuto il potere (in nessun paese al mondo i comunisti
hanno conquistato il potere per via democratica). In Spagna i
militari fascisti fanno il colpo di Stato perché sanno che in una
situazione di democrazia la stragrande maggioranza della popolazione
spagnola avrebbe spinto alla fine per una società socialista
libertaria: in Russia abbiamo un giacobinismo che forza la situazione
in quanto non c'è un consenso popolare, in Spagna abbiamo un
fascismo che forza la situazione perché questo consenso popolare
c'è. Nel primo caso vi è un intervento della forza, dal momento che
non c'è una autentica rivoluzione comunista, nel secondo caso c'è
l'intervento di una forza perché c'è un'autentica rivoluzione
anarchica.
La
negazione della politica
La
Spagna del '36 esprime dunque una rivoluzione "classica"
(secondo il modello teorico elaborato dalla cultura rivoluzionaria
nel corso dell'Ottocento) improntata decisamente in senso popolare.
Abbiamo detto che essa chiude un ciclo, che costituisce la summa
di tentativi precedenti. Precisamente pone fine all'epoca del
protagonismo operaio e socialista a carattere rivoluzionario.
Pertanto non può costituire un esempio valido per oggi, essendo
quell'epoca definitivamente in via di estinzione. Gli insegnamenti
che da essa si possono trarre devono partire da questa constatazione,
cominciando con una domanda: perché, nella storia europea, vi è
stato un solo esempio di questo tipo? Cioè: perché una rivoluzione
"classica" non ha schiuso un avvenire ma ha definitivamente
chiuso un passato? La
domanda riguarda naturalmente la natura del movimento operaio e
socialista che non è possibile prendere ora in esame. Tuttavia c'è
una stretta relazione tra la natura rivoluzionaria del movimento
operaio e socialista e l'effettività storica della rivoluzione
spagnola. Il tramite di questa relazione è rappresentato
dall'anarchismo. Questo tramite dimostra che una rivoluzione
"classica" ad ampia diffusione popolare non poteva che
avvenire sotto il segno anarchico, perché una rivoluzione
"classica" è la negazione della Politica. Attenzione: una
negazione della politica, non del potere, cioè dei rapporti di
forza. La complessità della situazione spagnola rimanda pertanto
alla complessità dell'intreccio tra rivoluzione, politica e potere.
Ma procediamo con ordine, privilegiando l'osservatorio
dell'anarchismo. In
Spagna al momento del golpe franchista esisteva un proletariato in
gran parte aderente alla CNT (sindacato anarchico) e alla UGT
(sindacato socialista). Altre formazioni minori si collocavano
comunque nell'ambito della sinistra avanzata. Il movimento anarchico
riscuoteva il consenso maggiore; anche gli aderenti
all'organizzazione sindacale socialista erano ideologicamente
orientati in senso non-riformistico e non-legalitario. Il
proletariato iberico era insomma ben disposto verso una prospettiva
rivoluzionaria. Ciò spiega perché i comunisti fossero pressoché
inesistenti: quando una rivoluzione è veramente popolare il
giacobinismo non prospera. Cogliamo
così una prima caratteristica: il proletariato spagnolo è
innanzitutto pervaso da una cultura rivoluzionaria come viene, per
l'appunto, dimostrato dal fatto che le forze politiche hanno scarso
peso rispetto a quelle sindacali. Qui il popolo è pervaso dal
"sociale", non dal "politico". Esso è di sicuro
educato politicamente, ma questa educazione ideologica gli deriva
prima di tutto attraverso l'organizzazione del sindacato, non del
partito. La stessa Federazione Anarchica che nasce nel 1927 -
cinquant'anni dopo la propagazione dell'anarchismo in terra iberica!
- conta perché i suoi aderenti sono tutti iscritti alla CNT (mentre
non tutti gli iscritti alla CNT sono anche aderenti alla FAI). In
conclusione il sociale predomina di gran lunga sul politico: per
questo scoppia la rivoluzione. In
Spagna nasce una rivoluzione sociale precisamente sotto il segno di
un rifiuto della rivoluzione politica. Pertanto, nella volontà della
maggioranza dei suoi protagonisti, essa lotta contro il potere inteso
proprio secondo la triplice classica definizione anarchica: lo Stato,
la Chiesa, il Capitale. Una rivoluzione sociale diretta contro la
politica, per l'abolizione del potere: così si presenta in
Catalogna, nell'Andalusia e nel Levante il moto popolare all'indomani
del 19 luglio del 1936. Certo, non in tutta la Spagna l'anarchismo è
maggioritario. Non lo può essere sicuramente laddove il golpe riesce
subito vittorioso, non lo è a Madrid, non nelle Asturie e nei paesi
Baschi. Però, considerato nel suo complesso, è l'anarchismo ad
essere la forza principale del movimento antifascista, sono la CNT e
la FAI che imprimono un carattere rivoluzionario di risposta al golpe
dei generali, una risposta che in sé sarebbe stata solo politica e
legalitaria. Infine, è solo il movimento anarchico che detiene
(perché lo coltiva da sempre) un progetto di trasformazione completa
della società. Nel mondo, fino allora, l'anarchismo era stato un
movimento (più o meno radicato nella società), che voleva
costituirsi quale alternativa al potere esistente; in Spagna esso è
già una realtà data, esprime già un'alternativa concreta. I
rapporti di forza delineatisi nel campo antifascista sono senza
dubbio a vantaggio degli anarchici. Bisogna mettere insieme tutte le
altre forze politiche e sociali per avere una forza pari. In termini
democratico-numerici gli anarchici rappresentano la maggioranza
relativa. I rapporti di forza, cioè di potere, stanno dalla loro
parte. Ecco
quindi un primo dato paradossale. Il movimento anarchico spinge per
una rivoluzione che abolisca il potere, pretendendo però di non
sfruttare la logica dei rapporti di potere che gli sono favorevoli.
Ritiene, in coerenza con la propria ideologia, che si debba
definitivamente superare il meccanismo stesso che presiede
all'avvicendamento delle forme potestative. A Barcellona, subito dopo
l'annullamento del putch militare, gli anarchici potrebbero
prendere la responsabilità massima del comando, essendo la forza di
maggioranza relativa. Rinunciano invece a questo ruolo, negando con
ciò la realtà politica espressa dalla loro stessa esistenza. Nel
Comitato centrale delle Milizie antifasciste formatosi il 21 luglio
entrano 5 rappresentanti anarchici (FAI e CNT), 4 rappresentanti
socialcomunisti (PSUC e UGT), 1 rappresentante trotzkista (POUM), 1
rappresentante del sindacato dei contadini (Union de Rabassaires) e 4
dei partiti repubblicani (Esquerra e Azione catalana repubblicana).
Si consideri ora, ad esempio, il reale rapporto di forza in senso
numerico tra socialcomunisti e anarchici. Gli anarchici hanno 5
rappresentanti, i socialcomunisti 4: la CNT-FAI contava oltre 600.000
aderenti, l'UGT-PSUC nemmeno 100.000! Nella composizione
dell'esercito delle milizie gli anarchici sono presenti con 13.000
uomini, i socialcomunisti con 3.000! Chi ha voluto che, comunque, le
rappresentanze fossero pressoché alla pari? Gli anarchici,
naturalmente, per non sentirsi dittatori! Il
comitato delle Milizie, proprio perché ci sono gli anarchici, non
assume la simbologia del comando, anche se detiene il potere
effettivo. E questa non-giacobinizzazione del Comitato permette la
sopravvivenza del governo della Generalitat con
il risultato che questa, alla fine, assorbe il comitato. Nel giro di
tre mesi il Comitato viene sciolto e tutto il potere passa al
Governo. Conclusione: il potere non è stato abolito perché il
Comitato non ha esautorato il governo e non l'ha esautorato in quanto
gli anarchici hanno impedito la trasformazione del Comitato in un
organo di potere simbolico-reale! Ecco
dunque la situazione come si svolge dal luglio all'ottobre: il potere
non viene abolito; il governo cambia di nome ma rimane al suo posto.
In Catalogna e nel Levante il mutamento rivoluzionario è grandioso,
drammatico, commovente, entusiasmante, straordinario: però il
Palazzo rimane lì, perché la rivoluzione, in quanto rivoluzione
sociale, non ha assorbito per nulla il ruolo di comando proprio del
governo. Se lo avesse fatto avrebbe cambiato natura: da sociale
sarebbe diventata politica. Essa
si propaga invece in modo orizzontale, coinvolge quasi tutti i gangli
della società, socializza ampi settori dell'economia sotto uno
slancio autenticamente popolare. Un'immensa spontaneità cadenza
ovunque il processo della rivoluzione. Ma, lo ripetiamo, la
rivoluzione di per sé non possiede alcuna leva di comando. Essa
esprime una forza immensa, tuttavia non ha la forza di farsi
rispettare: ad esempio, quando in ottobre si decide la
militarizzazione delle milizie, che cosa fanno i rivoluzionari?
Scalpitano, gridano, si indignano, ma alla fine, dopo qualche mese,
in gran parte accettano. Anzi vediamo i massimi esponenti
dell'anarchismo usare tutto il loro prestigio per fare passare questa
autentica misura controrivoluzionaria. Constatiamo insomma che i
leader del movimento anarchico usano l'immaginario rivoluzionario -
sedimentato nel corso di decenni - per "addomesticare" la
forza oggettiva espressa dalla realtà politica del movimento
anarchico. Il
risultato, lo ripetiamo, è paradossale ma del tutto congruente.
Riassumendo: per la prima volta nella storia gli anarchici sono posti
in una condizione di oggettiva non-subalternità politica, essendo
non soltanto la maggioranza tra le forze in campo, ma anche gli
interpreti più coerenti di una congiuntura storica - la rivoluzione
- che li ha posti di fatto in una posizione di leadership.
Essi non sfruttano tuttavia, perché non possono, tale vantaggio. Si
ha per conseguenza una dicotomia fra il potere politico e la
rivoluzione sociale. Poiché
la frattura tra il sociale e il politico non viene colmata (né
potrebbe esserlo) gli anarchici sono costretti ad entrare nel
governo, una volta che è stato assorbito il Comitato delle milizie.
Dapprima entrano nel governo regionale, poi in quello centrale. Viene
spontaneo domandarsi: ma perché sono costretti? La domanda ammette
una sola risposta: sono costretti perché se non lo facessero
romperebbero quell'unità politica che loro stessi hanno cercato, non
avendo voluto imporre (in quanto anarchici) la propria politica.
Subiscono così la politica altrui, perché non ne fanno alcuna e non
ne fanno alcuna dal momento che non sfruttano i rapporti di forza
espressi dalla loro esistenza politicamente dominante. Fanno la
rivoluzione; ma, per l'appunto, così facendo negano la politica.
Creatività
ed autogestione
Ciò
è paradossale, ma ancora una volta del tutto logico. La
partecipazione anarchica al governo è del tutto impolitica, nel
senso che ottiene un solo risultato: lo screditamento simbolico
dell'immagine rivoluzionaria dell'anarchismo. Gli anarchici sono
convinti di piegare la logica del potere perché alle spalle hanno il
moto trasformatore della rivoluzione. Però ritengono che prima
occorra saldare l'unità antifascista. In tal modo sono obbligati ad
anteporre l'unità politica antifascista alla prospettiva
rivoluzionaria. Inoltre, essendo anarchici, non sanno, né vogliono,
sfruttare appieno l'obiettivo vantaggio che deriva loro dalla forza
sociale della rivoluzione. La conclusione è che finiscono con
l'avere una posizione subalterna nelle decisioni di comando. Essi,
che sono i più forti, finiscono con l'avallare la volontà dei più
deboli. Ma
quale è la ragione che impedisce loro di capovolgere questa
situazione? Se continuiamo a seguire il ragionamento condotto fin
qui, si vede che l'intenzione degli anarchici era quella di fare da
tramite fra il sociale e il politico. Entrano insomma nella stanza
del comando perché si era creata una frattura tra le due realtà.
Non capiscono, tuttavia, che questa frattura si era formata in quanto
era in atto la rivoluzione. La rivoluzione, in quanto rivoluzione
sociale, era effettivamente spontanea e popolare. Con i suoi vari
esperimenti autogestionari, esprimeva una grande creatività che era
però priva di ogni direzione, priva cioè di ogni senso politico.
Infatti chi determinava, o avrebbe dovuto determinare a livello
generale, cosa produrre, quanto produrre, come produrre? A chi, per
conseguenza, spettava formulare il criterio di distribuzione del
consumo? E ancora: dove era il luogo in cui si sceglieva quali
servizi attivare, quali sopprimere, quali trasformare? Le norme della
società civile erano spontaneamente rispettate. Ma quando ciò non
avveniva, quali erano gli organi preposti al mantenimento di queste
osservanze? Vien
da dire che queste e molte altre decisioni erano state assorbite dal
sociale, piegate alle esigenze di questa nuova realtà, e quindi rese
funzionali alla crescita libera di una società libera. Non è vero,
non è assolutamente vero. La società civile non aveva assorbito
fino in fondo la società politica. Non lo aveva fatto perché si
stava svolgendo in essa una rivoluzione il cui scopo era quello,
appunto, di rendere superflua tale dimensione. Era accaduto insomma
che, invece di farsene carico, la rivoluzione aveva espulso dal
proprio ambito i problemi propri della politica perché convinta di
averli effettivamente superati. Invece, e lo dimostra proprio la
presenza degli anarchici al governo, tale superamento non c'era
stato. Gli anarchici infatti vanno al governo perché la rivoluzione
sociale non esprime autonomamente una politica. Anzi, la nega. Il
paradigma anarchico di ascendenza saintsimoniana (e in parte anche
marxiano) della superabilità della politica attraverso il sociale è
qui popperianamente falsificato: la società civile può essere di
per sé veramente autonoma, ma non rende, per tale motivo, superflua
quella politica. Il politico si può ridurre ai minimi termini, ma
non si può abolire. In Spagna non è stato abolito perché non si è
fatta chiarezza sui rapporti di forza espressi dal sociale. La "prova
del 9" di questa non abolizione è il riuscito tentativo
controrivoluzionario comunista delle giornate di maggio del '37 a
Barcellona. Qui tocchiamo il fondo dell'impotenza politica della
rivoluzione (oltre che della dabbenaggine anarchica). Il tentativo
comunista riesce perché ancora una volta la rivoluzione sociale ha
continuato ad occupare lo spazio del sociale e la politica a
rispondere alle finalità del potere.
Una
riflessione aperta
Rivoluzione,
politica e potere, un intreccio che la Spagna dimostra indissolubile.
La rivoluzione, quando è "classica" e popolare, è la
negazione della Politica. Però in sé è contemporaneamente
l'espressione di un rapporto di forze. Essa può negare la politica,
ma non può negare se stessa, cioè il potere che deriva dalla sua
forza. Se questo potere non viene esplicitato e posto al servizio
degli obiettivi rivoluzionari, la rivoluzione genera impotenza
perché di per sé non esprime autonomamente una politica. I
rivoluzionari che pretendono di negare il potere prescindendo dalla
politica subiscono il potere della politica altrui, anche se questa
non ha rapporti di forza favorevoli. La politica e il potere non sono
invincibili. Ma non sono neppure completamente distruttibili. La
Spagna ha dimostrato che l'unica rivoluzione contro il potere è
stata fatta dall'anarchismo. Essa è stata la prima e l'ultima
rivoluzione proletaria dell'occidente appunto perché il sociale non
è una forza sufficiente per l'esito di una rivoluzione. La
rivoluzione in Spagna è stata veramente contro il potere, ma lo è
stata perché c'era l'anarchismo, cioè perché c'era una volontà
politica. Qui sta l'arduo nodo della riflessione.
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