Rivista Anarchica Online
Una voce profonda
di Carlo Ghirardato
A mezzo secolo
dalla sua morte, Federico Garcia Lorca viene ricordato come poeta. Ma
era anche uomo di teatro, studioso della cultura popolare, amico dei
surrealisti, aperto al nuovo. Non fu certo per caso che i fascisti ne
decretarono la morte.
Alcuni articoli di
carattere celebrativo mi hanno stimolato ad una lettura di Lorca
diversa da quella che hanno operato i vari ispanisti consultati dai
periodici. Essi hanno esaltato unicamente le innovazioni tecniche, la
profondità dei temi, lo stile del linguaggio, i valori delle
metafore della poesia lorchiana, nel cinquantenario della morte
articoli così specificatamente tecnici hanno a mio parere snaturato
la vera essenza dell'artista: un'essenza rivoluzionaria. Il 16 luglio del
'36 Lorca si trovava in Madrid indeciso se andare o meno a Granada
per trascorrere l'estate prima di un prossimo viaggio per l'America
Latina. Accesi scontri avvenuti pochi giorni prima a Siviglia
preoccupavano il poeta che seppur pieno di presentimenti raggiunse la
città natale quella stessa notte. Luis Rosales, suo amico d'infanzia
e poeta, legato alla falange, gli consiglierà in segreto di scappare
e Lorca, che era partito da Madrid dicendo "sarà quel che dio
vorrà", si limita invece ad accettarne l'ospitalità. Questa verrà
infranta in un momento di assenza dei padroni di casa e Lorca troverà
la morte.
Canzone di
cavaliere
Cordova Lontana e sola. Cavallina nera,
grande luna, e olive nella
mia bisaccia. Pur conoscendo
le strade mai più
arriverò a Cordova. Nel piano, nel
vento cavallina nera,
luna rossa. La morte mi sta
guardando dalle torri di
Cordova. Ahi, che strada
lunga! Ahi, la mia
brava cavalla! Ahi, che la
morte mi attende prima di
giungere a Cordova! Cordova. Lontana e sola.
Al pari dei suoi
personaggi modesti e umani Lorca portava dentro di sé il senso del
destino, dentro dunque, cioè niente a che fare con il fato greco
degli eroi e la sua fine ha la stessa tinta del "dramma gitano"
che tanta parte ebbe nella sua opera. L'interesse per i
nomadi si lega a una tradizione che risale almeno a Miguel de
Cervantes che dei gitani fornirà un quadro di umanità e libertà:
"...poche cose possediamo che non sono comuni a tutti, eccetto
la moglie o l'amica che vogliamo appartengano a coloro che le ebbero
in sorte...con questa ed altre leggi ci conserviamo e viviamo
allegri, siamo signori dei campi, dei seminati, dei boschi, dei monti
e dei fiumi: i monti ci offrono legna gratuita; gli alberi, frutta;
le vigne, uva; le fonti, acqua; i fiumi, pesci; ombra le rupi...la
nostra levità non è inceppata da catene, né ostacolata da burroni,
né trattenuta da muraglie; il nostro animo non è piegato o sminuito
da tortura di corde e carrucole...fra il si e il no non c'è
differenza quando ci conviene sempre preferiamo gloriarci di martiri
che di confessori... Lavoriamo di giorno e rubiamo di notte, o per
meglio dire, facciamo che ognuno stia sull'avviso e abbia cura dove
mette la sua roba. Non ci molesta la paura di perdere l'onore né ci
affanna l'ambizione di accrescerlo né fomentiamo fazioni né ci
alziamo all'alba per stilare petizioni né per accompagnare magnati o
sollecitare favori... Pitture e paesaggi delle Fiandre sono per noi
quello che ci offre la natura... Siamo astrologi rustici giacché con
il dormire sempre a cielo scoperto sappiamo ben distinguere le ore
del giorno da quelle della notte...Insomma, siamo gente che viviamo
con la sola nostra destrezza ed acume, senza avere a che fare con
l'antico motto: "O chiesa, o mare o casa reale"; abbiamo
quel che vogliamo giacché siamo soddisfatti di quel che possediamo". Epica e lirica del
mondo gitano sono fonte d'ispirazione per il nostro; un mondo di
marginali e di ribelli, di separati dalla società. Questi "soggetti"
attraverso il sogno, l'amore, la morte, il sangue, il pianto espressi
in modo acceso, ascendono a significato universale e nelle loro
sensazioni/azioni e pensieri ogni uomo ci si riconosce.
Canzone del
gitano bastonato
Ventiquattro
schiaffi; Venticinque
schiaffi; Poi, mia madre,
a sera, Mi riporrà in
carta argentata. Guardie civili
della strada, Datemi qualche
sorso d'acqua Acqua con pesci
e barche. Acqua, acqua,
acqua, acqua. Ahi, capo delle
guardie, Che stai su,
nella tua stanza! Non vi saran
fazzoletti di seta Per pulirmi la
faccia!
In Andalusia i
gitani, a cui Lorca dedicò anche profondi studi tesi ad appurarne il
luogo e la civiltà d'origine, si fusero bene con la cultura della
regione rendendosi a tutti gli effetti degni di venir presi a
modello. Niente a che fare con i gipsyes inglesi né tantomeno con
gli zingari italiani; i gitani sono qui maestri di civiltà;
posseggono in pieno l'arte del canto, della danza, della musica,
della lavorazione dei metalli, e sanno come "stare" con i
tori. Nelle liriche del "Romancero gitano", Lorca nell'intimo
sembra auspicarsi la completa gitanizzazione dell'Andalusia.
L'andaluso che si aggrega al gitano e si gitanizza si appropria di
forme espressive che in seno raccolgono diverse culture, quella araba
per prima, del tutto escluse dalla storia del mondo occidentale e
borghese. Il "canto
hondo" (canto profondo) ne è la massima espressione; dove hondo si
applica al canto significandone la profondità del sentimento,
l'intensità radicale dell'esecuzione. Suoi temi sono la pena, il
distacco, la morte, il nulla; la bravura del cantante si misura con
il trasporto che sa creare in chi l'ascolta... Prima timidi battiti
di mani, poi qualche olè e infine si saluta lo stato di grazia
dell'interprete con degli "anda con Dios". Spesso
l'esecuzione si trasforma in un momento di magia, un rito collettivo
epperciò il cante hondo non avrà vita facile sotto la santa
inquisizione. Nonostante la proibizione esso si diffuse enormemente
nella cultura "campesina" nella quale da sempre trionfa un
ideale vegetativo della vita.
..La pena y ta
que no es pena todo es pena
para mì Ayer penaba por
verte Y hoy peno
porque te vi.
L'interesse che
Lorca dedicò al cante hondo lo vide impegnato a difenderlo dalle
intrusioni borghesi, che svuotandolo di contenuti ed eseguendolo al
chiuso dei teatri lo trasformarono in un momento folkloristico: la
zarzuela. I compositori Manuel de Falla e Zuloaga insieme al poeta
organizzarono una "Fiesta del Cante hondo" con l'intento di
saggiarne lo stato di salute; Lorca rapito dallo spettacolo compose
il "Poema del canto hondo" in una libera e personale
interpretazione tematica.
Le sei corde
La chitarra Fa piangere i
sogni. Il singhiozzo
delle anime Sperdute Sfugge dalla sua
bocca Rotonda. E come
tarantola, Tesse una grande
stella Per irretire
sospiri che fluttuano
nella sua nera cisterna di
legno.
La guardia civil è
simbolo di morte e repressione come il gitanismo lo è della rivolta
e della libertà. È con
gli occhi del gitano che Lorca...
Romanza della
guardia civile spagnola
I cavalli neri
sono. I ferri sono
neri. Sui mantelli
luccicano macchie
d'inchiostro e di cera. Hanno, per
questo non piangono, di piombo i
tedeschi. Con l'anima di
lustrino vengono per la
strada. Gobbi e
notturni, dove passano,
ordinano silenzio di
gomma oscura e paure di fine
arena. Passan, se
vogliono passare, e nascondono
nella testa una vaga
astronomia di pistole
inconcrete...
...Avanzano
dentro per due. Doppio turno di
tela. Il cielo, sembra
loro una vetrina di
speroni La città, senza
paura, moltiplicava le
sue porte. Quaranta guardie
civili vi entravano a
saccheggiare...
...O città dei
gitani! La guardia
civile s'allontana in un tunnel di
silenzio mentre le fiamme
ti circondano. O città dei
gitani! Chi ti vide e
non ti ricorda? Che ti cerchino
sulla mia fronte. Giuoco di luna e
arena.
Ritengo che Lorca
non si sentisse del tutto compreso per il suo interesse al gitanismo,
che solo in quanto proiezione trascendente di cose comuni a tutti gli
uomini andava inteso; come risultante di un viaggio orfico alle
radici dell'Andalusia e non certo comunque mera rappresentazione
folkloristica. Il successo del "Romancero gitano" tendeva a
collocarlo in una moda popolaristica. "Mi dà noia il mito del mio
gitanismo. Confondono la mia vita e la mia natura... Il gitanismo mi
dà un tono di scarsa cultura, di mancanza di educazione, di poeta
selvaggio che io non sono affatto. Non voglio essere incasellato.
Sento che mi stanno mettendo catene". (Da una lettera a J.
Guillèn, poeta surrealista). Come tutta la sua generazione aderì al
surrealismo stimolato oltre modo dalla amicizia di L. Buñuel e S.
Dalì. Beninteso, il
surrealismo spagnolo non giunse mai all'estremismo dell'automatismo
psichico tipico francese e nel nostro si manifestò soprattutto in
pittura (la sua prima personale si tenne a Barcellona nel '27), e
nell'uso che fece delle sue tecniche espressive in poesia mantenendo
però sempre inalterabile il dato oggettivo, reale della cosa da
comunicare: se un bambino piange, piange veramente. D'altronde
l'incandescente situazione sociale spingeva inevitabilmente
all'azione. Nel '32 Buñuel
lasciò i surrealisti e girò "Tierra sin pan", Lorca nello
stesso anno compose "Poeta en Nueva York" dove la sua
simpatia va ancora agli oppressi: "Io credo che il fatto di
essere di Granada mi fa inclinare alla comprensione simpatetica dei
perseguitati. Del gitano, del moro, dell'ebreo, dei negri che tutti
portiamo dentro".
...Ah! Harlem!
Ah, Harlem! Ah, Harlem! Non c'è
angoscia paragonabile a quella dei tuoi occhi oppressi, del tuo sangue
rabbrividito dentro l'oscura eclisse, della tua
violenza granata sordomuta nella penombra, del tuo grande
re prigioniero con un abito da portinaio...
Non si dichiara un
politico, piuttosto un rivoluzionario e al contrario di Rafael
Alberti non prenderà mai alcuna tessera di partito. Di ritorno dagli
USA, Lorca è tra i più fervidi intellettuali impegnati nel sociale.
Si rompe la sua amicizia con S. Dalì perché a questo non
interesserà rinunciare ai suoi deliri onirici proprio mentre l'ansia
di comunicazione spinge il nostro a "bussare alle porte del
teatro". Nel '32 grazie al sostegno tangibile di Fernando de Los
Rios, ministro socialista della pubblica istruzione della nascente
repubblica, fonda "La baracca" compagnia teatrale di
studenti universitari che compirà ben 20 tournée per le piazze di
Spagna. Nel '34, nonostante la svolta politica che porta al potere
momentaneo la CEDA (partito di destra), Lorca non rinuncia, seppur
tra dissesti finanziari, alla sua battaglia. Il repertorio è quello
classico spagnolo: Miguel de Cervantes, Calderon de La Barca, Lope de
Vega. "Non credo nell'arte per l'arte... Il teatro che non
raccoglie il palpito sociale, il palpito storico, il dramma delle sue
genti e il colore autentico del suo passaggio, con le risate o con le
lacrime, non ha il diritto di definirsi teatro, ma sala da giuoco o
luogo dove fare quella cosa orribile che si chiama " ammazzare
il tempo"...". Tali convinzioni lo
porteranno a delle scelte di ricostruzione testuale quando
l'originale gli pare troppo vincolante. In "Fuenteovejuna"
di Lope de Vega eliminò l'intero finale che vede il re come elemento
decisivo nella soluzione del conflitto che animò un intero paese
contro il signorotto locale. Sopprimendo l'intervento del monarca
rimane il trionfo popolare. Può bastare questo
per rilevare quanto poco indicata diviene una analisi di Lorca che
tenga conto unicamente degli elementi tecnico-stilistici?
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