Rivista Anarchica Online
Morire per la
patria
di Carlo Oliva
Hanno continuato
a sentirsi ripetere che ideologia ed impegno politico sono causa di
ogni possibile male sociale, e qualcosa comunque da cui è bene
dissociarsi in vista d'uno sconto di pena. Ed ora i
giovani, all'improvviso, dovrebbero sentirsi supermotivati verso
l'istituzione ed il servizio militare. Eppure chi nella nostra
cultura politica ha imposto la de-ideologizzazione totale, chi vi ha
creato il deserto, chiamandolo pace, avrebbe dovuto prevedere qualche
difficoltà anche dal (proprio) punto di vista. A niente servono
le chiacchiere sui "giovani d'oggi" smidollati, viziati,
incapaci di soffrire. Né serve
promettere riforme dell'esercito. Ci sono istituzioni che non è
possibile riformare: l'unica alternativa logica è quella tra il
mantenerle e I'abolirle. L'esercito è
una di queste.
Una vecchia massima
del presidente Mao (una delle citazioni del libretto rosso, credo)
affermava che la morte di certi individui pesa più di una montagna,
mentre quella di certi altri è più leggera di una piuma, o qualcosa
del genere. La si ripeteva spesso negli anni in cui si affermava che
il pensiero del "grande timoniere" potesse - o dovesse - avere
immediata applicazione anche da noi. Talvolta, si sa, la si
utilizzava per dare valore ad affermazioni e giudizi che, con il
senno di poi, tutti consideriamo oggi disdicevoli. Per molti,
comunque, è stato faticoso re-imparare che nessun uomo è un'isola e
che la campana suona sempre per te; parecchi non ci sono ancora
completamente riusciti. Tra quanti non ci
sono riusciti (e probabilmente non ci hanno nemmeno provato) vanno
annoverati quegli esponenti delle gerarchie politico militari che non
hanno mai annesso un particolare valore alla drammatica serie dei
suicidi nelle caserme, nel senso che li hanno sempre visti come
"dolorosi episodi" coinvolgenti soggetti psicolabili, già
segnati da gravi turbe mentali nella vita civile, salvo a trovare un
significato importante, come ha fatto il ministro della difesa, nella
morte, altrettanto dolorosa, di un ufficiale superiore. Lo ricordava,
subito dopo il fatto, l'onorevole Falco Accame, che di cose militari
notoriamente ha esperienza. Per chi, come me, ha più esperienza di
problemi ideologici, basta far notare che non è la prima volta che,
come si dice, gli estremi si toccano e che la logica
dell'ineguaglianza, anche di fronte a ciò che agguaglia ogni essere
umano, può portare più lontano di quanto non s'intenda. L'argomento non è
di quelli di cui ci si possa servire per facili polemiche. La logica
dell'ineguaglianza è la logica stessa di ogni organizzazione
gerarchica, l'istituzione militare in primis, e non si può
fare il ministro senza condividerla almeno in parte. E poi, in quel
caso il ministro della difesa, dal suo punto di vista, aveva
abbastanza ragione. Il problema non è quello di negare un
significato al suicidio di un alto ufficiale, ma quello di
riconoscerne uno ai troppi "tragici episodi" che
punteggiano da qualche tempo a questa parte le nostre cronache
militari. Non è certo questo
un compito che si possa proporre in un semplice articolo: il problema
impone una riflessione collettiva, un dibattito, che finora non ci
sono stati. Ma qualche considerazione preliminare, forse, la si può
arrischiare fin d'ora. Per esempio, non
riesco a convincermi, nonostante autorevoli affermazioni in
contrario, che il problema delle morti in caserma sia un problema
"nuovo", tipico della nostra società di oggi. Confesso che
la mia è una convinzione assolutamente preconcetta: non so neanche
se esistono dei dati statistici in merito e, se esistono, mi riservo
comunque il diritto di usarne con diffidenza assoluta. In un
rendiconto statistico è fin troppo facile mimetizzare qualcosa che
non si vuol fare apparire e far figurare un suicidio (e persino un
omicidio, come sanno i lettori di procedural) come
"incidente". E poi, chi insiste su questo dato della
"novità", ha più o meno in mente un'ipotesi di
giustificazione che non riesce a convincermi. In una società, in
fondo, più permissiva e materialmente più agiata di quella di ieri,
la durezza e i disagi della vita di caserma si sentirebbero,
fatalmente, di più. Gli "atti insani" sarebbero la reazione,
drammatica, certo, di chi "non ce la fa". Per dirla in termini
banali, i giovani d'oggi sono notoriamente troppo viziati. Oh dio, devo aver
scritto anch'io da qualche parte che gli studenti (i giovani con cui
professionalmente ho a che fare) oggi sono viziati, anzi
viziatissimi, da famiglie amorevoli. Temo che sia un'affermazione
praticamente automatica in chi ha superato una certa età, e poi i
miei studenti - visto che insegno in un liceo per ricchi del centro
cittadino - non fanno sempre testo. Ma devo dire che, oltre che
viziati mi sono sempre parsi, loro e i loro coetanei, supremamente
adattabili; capaci, se del caso, d'affrontare disagi anche piuttosto
notevoli. Se necessario,
certo. Quando, cioè, il disagio in questione appaia giustificato in
vista d'una valida contropartita. Sto parlando, sia chiaro, di
momenti assolutamente banali: di un viaggio scomodissimo in vista
d'un soggiorno considerato appetibile; di ore di coda sotto il
solleone per un concerto importante; di altre quisquilie del genere.
Ma è tipico, comunque, degli studenti di oggi - se mi passate questa
generalizzazione da vecchio professore - valutare le cose con un
atteggiamento, per così dire, prammatico. Prendiamo la
scuola, per esempio. Non è probabile che li soddisfi culturalmente,
né presumibile che ci si trovino bene, ma visto che non le
disconoscono una certa utilità pratica, la accettano abbastanza
docilmente (troppo docilmente, dal mio punto di vista di contestatore
incallito). A voler morire, tragicamente, per un brutto voto o una
bocciatura sono a volte i più piccoli, gli studenti delle inferiori,
in cui non s'è ancora sviluppato il criterio prammatico dell'utilità
futura, e che sono facili vittime dell'imbecillità pedagogica
congiunta a quella familiare (altro che società permissiva!). Gli
altri, i giovani adulti, si dimostrano di pelle resistente, al punto
da voler persino correre l'alea del "proviamo a migliorare un
po' la situazione". Le poche fiammate di agitazione studentesca
negli ultimi anni sono state, notoriamente, di segno riformista. Il fatto è che
nelle fasce generazionali interessate al problema della scuola
superiore e del servizio militare (fasce contigue, in parte
sovrapposte) non allignano certo - oggi - forti motivazioni
ideologiche, soprattutto di ordine politico sociale, né volontà di
trasformazione che non siano riconducibili al riformismo spicciolo.
Il che è abbastanza sensato da parte di individui di normale
intelligenza cresciuti sentendo ripetere da ogni parte che ideologia
e impegno politico erano causa di ogni possibile male sociale, e
qualcosa comunque da cui era bene dissociarsi in vista d'uno sconto
di pena. Tutto ciò è
largamente noto. Ma perché ci si rifiuta d'applicarlo ad altri
sistemi di valore ideologicamente fondati, oltre che a quelli che,
per comodità, possiamo definire "di sinistra"? Se c'è qualcosa
che solo dosi massicce d'ideologia (e d'ideologia "forte")
possono giustificare è appunto la vita militare. Se c'è
un'istituzione che esige nei suoi appartenenti, ad ogni livello, la
rimozione/sublimazione di una situazione spiacevole in nome di un
fine superiore e trascendente è appunto l'esercito. Nessuno oggi,
neanche il generale più motivato che si possa trovare, afferma che
la guerra è l'igiene del mondo e che prepararvicisi è scuola di
virilità: affermano che si tratta di una sgradevole necessità che
si accetta in nome di un nobile obiettivo. Il sospetto che da un po'
di tempo mi rode è che la capacità di sublimare qualcosa in nome di
nobili obiettivi sia, appunto, piuttosto scarsa tra le più giovani
generazioni. E, in definitiva, non per colpa (o merito) loro: chi
nella nostra cultura politica ha imposto la de-ideologizzazione
totale, chi vi ha creato il deserto, chiamandolo pace, avrebbe dovuto
prevedere qualche difficoltà anche dal "proprio" punto di
vista. Perché insomma,
l'ipotesi che varrebbe la pena di verificare è quella secondo cui la
caserma non è inaccettabile sotto il profilo del disagio materiale
(anche se naturalmente è vergognoso che sia un luogo materialmente
così disagevole, ma questo è un altro discorso), ma lo è da quello
della richiesta di senso. È
per questo, forse, che, con sano realismo, quasi nessuno crede alle
promesse di miglioramenti e di immediata eliminazione delle piaghe
più gravi, e perché nemmeno chi fa continue promesse di merito non
vi pone mai effettivamente mano. Ci sono istituzioni che non è
possibile riformare, nel senso che l'unica alternativa logica è
quella tra il mantenerle e l'abolirle. Lo sappiamo, più o meno,
tutti. Non c'è niente di
più terribile che trovarsi di fronte alla mancanza di senso, a
vent'anni o a qualsiasi altra età. E non c'è responsabilità più
grave di quella di chi lo impone.
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