Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 16 nr. 141
novembre 1986


Rivista Anarchica Online

Morire per la patria
di Carlo Oliva

Hanno continuato a sentirsi ripetere che ideologia ed impegno politico sono causa di ogni possibile male sociale, e qualcosa comunque da cui è bene dissociarsi in vista d'uno sconto di pena. Ed ora i giovani, all'improvviso, dovrebbero sentirsi supermotivati verso l'istituzione ed il servizio militare. Eppure chi nella nostra cultura politica ha imposto la de-ideologizzazione totale, chi vi ha creato il deserto, chiamandolo pace, avrebbe dovuto prevedere qualche difficoltà anche dal (proprio) punto di vista. A niente servono le chiacchiere sui "giovani d'oggi" smidollati, viziati, incapaci di soffrire. Né serve promettere riforme dell'esercito. Ci sono istituzioni che non è possibile riformare: l'unica alternativa logica è quella tra il mantenerle e I'abolirle. L'esercito è una di queste.

Una vecchia massima del presidente Mao (una delle citazioni del libretto rosso, credo) affermava che la morte di certi individui pesa più di una montagna, mentre quella di certi altri è più leggera di una piuma, o qualcosa del genere. La si ripeteva spesso negli anni in cui si affermava che il pensiero del "grande timoniere" potesse - o dovesse - avere immediata applicazione anche da noi. Talvolta, si sa, la si utilizzava per dare valore ad affermazioni e giudizi che, con il senno di poi, tutti consideriamo oggi disdicevoli. Per molti, comunque, è stato faticoso re-imparare che nessun uomo è un'isola e che la campana suona sempre per te; parecchi non ci sono ancora completamente riusciti.
Tra quanti non ci sono riusciti (e probabilmente non ci hanno nemmeno provato) vanno annoverati quegli esponenti delle gerarchie politico militari che non hanno mai annesso un particolare valore alla drammatica serie dei suicidi nelle caserme, nel senso che li hanno sempre visti come "dolorosi episodi" coinvolgenti soggetti psicolabili, già segnati da gravi turbe mentali nella vita civile, salvo a trovare un significato importante, come ha fatto il ministro della difesa, nella morte, altrettanto dolorosa, di un ufficiale superiore. Lo ricordava, subito dopo il fatto, l'onorevole Falco Accame, che di cose militari notoriamente ha esperienza. Per chi, come me, ha più esperienza di problemi ideologici, basta far notare che non è la prima volta che, come si dice, gli estremi si toccano e che la logica dell'ineguaglianza, anche di fronte a ciò che agguaglia ogni essere umano, può portare più lontano di quanto non s'intenda.
L'argomento non è di quelli di cui ci si possa servire per facili polemiche. La logica dell'ineguaglianza è la logica stessa di ogni organizzazione gerarchica, l'istituzione militare in primis, e non si può fare il ministro senza condividerla almeno in parte. E poi, in quel caso il ministro della difesa, dal suo punto di vista, aveva abbastanza ragione. Il problema non è quello di negare un significato al suicidio di un alto ufficiale, ma quello di riconoscerne uno ai troppi "tragici episodi" che punteggiano da qualche tempo a questa parte le nostre cronache militari.
Non è certo questo un compito che si possa proporre in un semplice articolo: il problema impone una riflessione collettiva, un dibattito, che finora non ci sono stati. Ma qualche considerazione preliminare, forse, la si può arrischiare fin d'ora.
Per esempio, non riesco a convincermi, nonostante autorevoli affermazioni in contrario, che il problema delle morti in caserma sia un problema "nuovo", tipico della nostra società di oggi. Confesso che la mia è una convinzione assolutamente preconcetta: non so neanche se esistono dei dati statistici in merito e, se esistono, mi riservo comunque il diritto di usarne con diffidenza assoluta. In un rendiconto statistico è fin troppo facile mimetizzare qualcosa che non si vuol fare apparire e far figurare un suicidio (e persino un omicidio, come sanno i lettori di procedural) come "incidente". E poi, chi insiste su questo dato della "novità", ha più o meno in mente un'ipotesi di giustificazione che non riesce a convincermi. In una società, in fondo, più permissiva e materialmente più agiata di quella di ieri, la durezza e i disagi della vita di caserma si sentirebbero, fatalmente, di più. Gli "atti insani" sarebbero la reazione, drammatica, certo, di chi "non ce la fa". Per dirla in termini banali, i giovani d'oggi sono notoriamente troppo viziati.
Oh dio, devo aver scritto anch'io da qualche parte che gli studenti (i giovani con cui professionalmente ho a che fare) oggi sono viziati, anzi viziatissimi, da famiglie amorevoli. Temo che sia un'affermazione praticamente automatica in chi ha superato una certa età, e poi i miei studenti - visto che insegno in un liceo per ricchi del centro cittadino - non fanno sempre testo. Ma devo dire che, oltre che viziati mi sono sempre parsi, loro e i loro coetanei, supremamente adattabili; capaci, se del caso, d'affrontare disagi anche piuttosto notevoli.
Se necessario, certo. Quando, cioè, il disagio in questione appaia giustificato in vista d'una valida contropartita. Sto parlando, sia chiaro, di momenti assolutamente banali: di un viaggio scomodissimo in vista d'un soggiorno considerato appetibile; di ore di coda sotto il solleone per un concerto importante; di altre quisquilie del genere. Ma è tipico, comunque, degli studenti di oggi - se mi passate questa generalizzazione da vecchio professore - valutare le cose con un atteggiamento, per così dire, prammatico.
Prendiamo la scuola, per esempio. Non è probabile che li soddisfi culturalmente, né presumibile che ci si trovino bene, ma visto che non le disconoscono una certa utilità pratica, la accettano abbastanza docilmente (troppo docilmente, dal mio punto di vista di contestatore incallito). A voler morire, tragicamente, per un brutto voto o una bocciatura sono a volte i più piccoli, gli studenti delle inferiori, in cui non s'è ancora sviluppato il criterio prammatico dell'utilità futura, e che sono facili vittime dell'imbecillità pedagogica congiunta a quella familiare (altro che società permissiva!). Gli altri, i giovani adulti, si dimostrano di pelle resistente, al punto da voler persino correre l'alea del "proviamo a migliorare un po' la situazione". Le poche fiammate di agitazione studentesca negli ultimi anni sono state, notoriamente, di segno riformista.
Il fatto è che nelle fasce generazionali interessate al problema della scuola superiore e del servizio militare (fasce contigue, in parte sovrapposte) non allignano certo - oggi - forti motivazioni ideologiche, soprattutto di ordine politico sociale, né volontà di trasformazione che non siano riconducibili al riformismo spicciolo. Il che è abbastanza sensato da parte di individui di normale intelligenza cresciuti sentendo ripetere da ogni parte che ideologia e impegno politico erano causa di ogni possibile male sociale, e qualcosa comunque da cui era bene dissociarsi in vista d'uno sconto di pena.
Tutto ciò è largamente noto. Ma perché ci si rifiuta d'applicarlo ad altri sistemi di valore ideologicamente fondati, oltre che a quelli che, per comodità, possiamo definire "di sinistra"? Se c'è qualcosa che solo dosi massicce d'ideologia (e d'ideologia "forte") possono giustificare è appunto la vita militare. Se c'è un'istituzione che esige nei suoi appartenenti, ad ogni livello, la rimozione/sublimazione di una situazione spiacevole in nome di un fine superiore e trascendente è appunto l'esercito. Nessuno oggi, neanche il generale più motivato che si possa trovare, afferma che la guerra è l'igiene del mondo e che prepararvicisi è scuola di virilità: affermano che si tratta di una sgradevole necessità che si accetta in nome di un nobile obiettivo. Il sospetto che da un po' di tempo mi rode è che la capacità di sublimare qualcosa in nome di nobili obiettivi sia, appunto, piuttosto scarsa tra le più giovani generazioni. E, in definitiva, non per colpa (o merito) loro: chi nella nostra cultura politica ha imposto la de-ideologizzazione totale, chi vi ha creato il deserto, chiamandolo pace, avrebbe dovuto prevedere qualche difficoltà anche dal "proprio" punto di vista.
Perché insomma, l'ipotesi che varrebbe la pena di verificare è quella secondo cui la caserma non è inaccettabile sotto il profilo del disagio materiale (anche se naturalmente è vergognoso che sia un luogo materialmente così disagevole, ma questo è un altro discorso), ma lo è da quello della richiesta di senso. È per questo, forse, che, con sano realismo, quasi nessuno crede alle promesse di miglioramenti e di immediata eliminazione delle piaghe più gravi, e perché nemmeno chi fa continue promesse di merito non vi pone mai effettivamente mano. Ci sono istituzioni che non è possibile riformare, nel senso che l'unica alternativa logica è quella tra il mantenerle e l'abolirle. Lo sappiamo, più o meno, tutti.
Non c'è niente di più terribile che trovarsi di fronte alla mancanza di senso, a vent'anni o a qualsiasi altra età. E non c'è responsabilità più grave di quella di chi lo impone.