Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 17 nr. 147
giugno 1987


Rivista Anarchica Online

L'operaio è nudo!
di Camillo Berneri

Pubblicato nel 1934 da un gruppo di anarchici italiani esuli in Francia (tra i quali Pio Turroni), l'opuscolo "L'operaiolatria" - del quale pubblichiamo qui ampi stralci - è forse il più noto tra gli scritti di Berneri. Certo è quello che ha conosciuto il maggior numero di riedizioni.

Vi fu, e purtroppo vi è ancora, una retorica socialista che è terribilmente ineducativa. I comunisti contribuiscono, più di qualsiasi altro partito d'avanguardia, a perpetuarla. Non contenti dell'"anima proletaria", hanno tirato fuori la "cultura proletaria". Quando morì Lunaciarsky fu detto, da certi giornali comunisti, che "egli incarnava la cultura proletaria". Come uno scrittore di origine borghese, erudito (e l'erudizione è il capitalismo della cultura), alquanto prezioso come il Lunaciarsky potesse rappresentare la "cultura proletaria", è un mistero analogo a quello della "ginecologia marxista", termine che ha scandalizzato perfino Stalin. Le Réveil di Ginevra, insorgendo contro l'abuso dell'espressione "cultura proletaria", osservava: "Il proletario è, per definizione, e molto spesso in realtà, un ignorante, la cui cultura è necessariamente limitatissima. In tutti i campi, il passato ci ha fatto eredi di beni inestimabili che non potrebbero venire attribuiti a questa o a quella classe. Il proletariato, lui, rivendica anzitutto una più larga partecipazione alla cultura, come ad una delle ricchezze delle quali non vuole essere più privo. Dei sapienti, degli scrittori, e degli artisti borghesi ci hanno dato delle opere di un'importanza emancipatrice; invece, degli intellettuali sedicenti proletari ci cucinano dei piatti spesse volte indigesti".
La "cultura proletaria" esiste, ma essa è ristretta alle conoscenze professionali e all'infarinatura enciclopedica raffazzonata in disordinate letture. Carattere tipico della cultura proletaria è di essere in arretrato con il progresso della filosofia delle scienze e delle arti. Voi troverete dei seguaci fanatici del monismo di Heackel, del materialismo di Büchner, e perfino dello spiritismo classico, tra gli "autodidatti", ma non ne troverete tra persone realmente colte. Una qualsiasi teoria comincia a diventare popolare e a trovare eco nella "cultura proletaria", che è golosa di lussi. Come il romanzo popolare è pieno di principi, di marchesi e di ricevimenti salotteschi, così un libro è tanto più ricercato e gustato dagli "autodidatti" quanto più è indigesto ed astruso.
Molti di costoro non hanno mai letto La conquista del pane, o il dialogo Fra contadini, ma hanno letto Il mondo come volontà e rappresentazione e La critica della ragion pura. Una persona colta che si occupi, ad esempio, di scienze naturali e che non abbia conoscenze di matematica superiore, si guarderà bene dal giudicare Einstein. Un autodidatta, in generale, ha in materia di giudizi un fegataccio grosso così. Dirà di Tizio che è un filosofucolo, di Caio che è un "grande scienziato", di Sempronio che non ha capito il "rovesciamento della prassi" né la "noumenicità", nè l'"ipostasi". Ché l'autodidatta, sempre in generale, ama parlare difficile.
Fondare una rivista, al mezzo-colto, non fa paura. Non parliamo poi di un settimanale. Scriverà della schiavitù in Egitto, delle macchine solari, dell'"ateismo" di Giordano Bruno, delle "prove" dell'inesistenza di Dio, della dialettica hegeliana; ma della sua officina, della sua vita di operaio, delle sue esperienze professionali non dirà una parola.
"L'autodidatta" cessa di essere tipicamente tale quando giunge a farsi una vera cultura. Quando, cioè, ha ingegno e volontà. Ma, allora, la sua cultura non è più operaia. Un operaio colto, come Rudolf Rocker è come un negro portato in Europa bambino e cresciuto in una famiglia colta o in collegio. L'origine, come il colore della pelle, non conta, in questi casi. In Rocker, nessuno immaginerebbe l'ex-sellaio, mentre quando Grave esce dalla volgarizzazione kropotkiniana fa pensare, con rimpianto, che è stato calzolaio.
La cosiddetta "cultura operaia" è, insomma, una simbiosi parassitaria della cultura vera, che è ancora borghese e medio-borghese. È più facile che dal proletariato esca un Titta Ruffo, o un Mussolini, che uno scienziato od un filosofo. Questo non perché l'ingegno sia monopolio di una classe, ma perché al 99% dei proletari, lasciata la scuola primaria, è negata la cultura sistematica dalla vita di lavoro e di abbrutimento. L'istruzione e l'educazione per tutti è uno dei più giusti canoni del socialismo, e la società comunista darà le élite naturali; ma, per ora, è grottesco parlare di "cultura proletaria" del filologo Gramsci o di "anima proletaria" del borghese Terracini. La dottrina socialista è una creazione di intellettuali borghesi. Essa, come osserva De Man, in Au de là du marxisme, "è meno una dottrina del proletariato che una dottrina per il proletariato". I principali agitatori e teorici dell'anarchismo, da Godwin a Bakunin, da Kropotkin a Cafiero, da Mella a Faure, da Covelli a Malatesta, da Fabbri a Galleani, da Gori a Voltairine de Cleyre, uscirono da un ambiente aristocratico o borghese, per andare al popolo. Proudhon di origine proletaria, è di tutti gli scrittori anarchici il più influenzato dall'ideologia e dai sentimenti della piccola borghesia. Grave, calzolaio, è caduto nello sciovinismo democratico il più borghese. Ed è innegabile che gli organizzatori sindacali di origine operaia, da Rossoni a Meledandri, hanno dato, proporzionalmente, il maggiore numero d'inserimenti(...).
Ogni qualvolta mi accade di leggere, o di udire, esaltare il proletariato industriale come la élite rivoluzionaria e comunista, reagiscono in me dei ricordi di vita, cioè delle personali esperienze e delle osservazioni psicologiche. Sono condotto a sospettare negli assertori di quello che a me pare un mito, o un'infatuazione di "provinciali" inurbati in qualche grande centro industriale o, in altri casi, un'infatuazione d'ordine professionale. Quando leggevo l'Ordine Nuovo, specialmente nel suo primo periodo, quando era periodico, la suggestione delle sue continue esaltazioni della grande industria come formatrice di omogeneità classista, di maturità comunista degli operai d'officina, ecc., era in me respinta da considerazioni d'ordine psicologico.

Occhio alle esaltazioni
Immaginavo, ad esempio, Gramsci piovuto a Torino dalla nativa Sardegna, e preso tutto dagli ingranaggi della metropoli industriale. Le grandi manifestazioni, la concentrazione di operai specializzati, la vastità febbrile del ritmo della vita sindacale della città industriale - mi dicevo - l'hanno affascinato. La letteratura bolscevica russa mi pareva pantografare lo stesso processo psichico. In un paese come la Russia, dove le masse rurali erano enormemente arretrate, Mosca, Pietrogrado, e gli altri centri industriali dovevano parere delle oasi della rivoluzione comunista. I bolscevichi dovevano, quindi, spinti dall'industrialismo marxista, essere condotti a infatuarsi della fabbrica, come i rivoluzionari russi dell'epoca di Bakunin erano condotti ad infatuarsi della cultura occidentale.
In Italia, la mistica industrialista di quelli dell'Ordine Nuovo mi appariva, quindi, come un fenomeno di reazione analogo a quello del futurismo.
Un altro aspetto che mi pareva esplicativo era quello della naturale tendenza che hanno i tecnici industriali, tendenza che ha corrispettivi in tutti i campi della specializzazione, a vedere nel fatto "industria" l'alfa e l'omega del progresso umano. E mi pareva significativo che gli ingegneri fossero numerosi fra gli elementi direttivi del Partito comunista.
A questo angolo visuale sono ancora posto, e trovo una nuova conferma nell'atteggiamento di alcuni fra i repubblicani che sono influenzati dall'ideologia dei comunisti.
Tipico è il caso di A. Chiodini, che nel numero del febbraio 1933 dei Problemi della rivoluzione italiana, criticando l'indirizzo rurale e meridionalista del programma di "Giustizia e Libertà", proclama:
"Il proletariato industriale è l'unica forza oggettivamente rivoluzionaria della società. Perché solo il proletariato è nella condizione e nella possibilità di liberarsi da ogni mentalità chiusa di categoria e di assurgere a dignità di classe, cioè di forza collettiva che ha coscienza di un compito storico da realizzare. La rivoluzione italiana, come tutte le rivoluzioni, non può essere l'opera che di forze omogenee e capaci di muoversi per ideali a largo respiro.
Ora, l'unica forza omogenea che possa battersi per un ideale di libertà concreta e che per questa battaglia possa essere disposta ad un'azione lungimirante, non a scadenza fissa, è la forza operaia. È questa che può porre, oggi, dopo tante prove e tante tragedie, la propria candidatura come classe dirigente rivoluzionaria".
Che il proletariato industriale sia una delle principali forze rivoluzionarie in senso comunista è troppo evidente perché ci sia da discutere a questo proposito. Ma è, d'altra parte, evidente che l'omogeneità di quel proletariato è più nelle cose che negli spiriti e più - vale a dire - nell'agglomerato di individui che sono in grandissima maggioranza dei salariati senza grandi differenze attuali o possibili ed a contatto con una proprietà di sua natura indivisibile (quindi necessariamente atta a divenire il capitale di un lavoro necessariamente associato) che nella coscienza di classe, di forza collettiva destinata ad attuare un grandissimo compito storico.
Il particolarismo degli operai delle industrie è troppo evidente perché ci si lasci andare alle generiche e generalizzatrici esaltazioni che di essi fanno taluni dei marxisti e dei marxisteggianti (...).

Viva le corazzate!
A quali degenerazioni sia giunta la collaborazione operaia-padronale nei centri industriali lo dimostra il fatto che elementi cosiddetti rivoluzionari inscenarono agitazioni per ottenere dal governo lavoro per l'industria di guerra. Così, ne scriveva il Salvemini, sull'Unità dell'11 luglio 1913.
"La camera del Lavoro di Spezia, amministrata da sindacalisti, repubblicani e socialisti rivoluzionari, ha promosso uno sciopero generale.
Per protestare contro la uccisione di qualche operaio? - No.
Per protestare contro una iniqua sentenza di classe, pronunciata dall'autorità giudiziaria? - No.
Per solidarietà con qualche gruppo di operai-scioperanti? - No.
Per resistere a qualche illegalità delle autorità politiche o amministrative? - No.
Perché dunque? - Per protestare contro il Governo che minaccia di togliere all'arsenale di Spezia l'allestimento della corazzata Andrea Doria.
Va da sé che alla prima occasione i sovversivi di Spezia insceneranno anche a casa loro qualche "solenne comizio" contro le spese "improduttive".
E da notare che a capo di questo movimento di protesta... rivoluzionaria, si trovava una cooperativa, quella degli operai metallurgici (Giornale d'Italia, 24 aprile). E va notato pure che l'agitazione di Spezia si è manifestata nello stesso tempo in cui il Consiglio di Amministrazione della Casa Ansaldo lamentava nella relazione annuale di non avere sufficiente lavoro. Nello stesso tempo gli operai del cantiere Orlando di Livorno facevano dimostrazioni addomesticate per reclamare che lo Stato desse lavoro al cantiere Orlando (Avanti!, 14 maggio 1913). E i deputati di Napoli si recavano dall'on. Giolitti a chiedere "nuovi ordinativi per affusti, cannoni, spolette e proiettili" agli stabilimenti di Napoli, affinché non avvenissero nuovi licenziamenti di operai metallurgici (Corriere della Sera, 24 maggio). E i giornali clerico-moderati-nazionalisti spingevano avanti la campagna, affinché il Governo impostasse nei cantieri quattro nuove grandi corazzate (...).

(dall'opuscolo L'operaiolatria,
Gruppo di edizioni libertarie, Brest [Francia] 1934)