Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 17 nr. 151
dicembre 1987 - gennaio 1988


Rivista Anarchica Online

A scuola coi COBAS
di Stefano Fabbri d'Errico

Dalla storia non lunga, ma molto intensa, dei COBAS in campo scolastico, si possono già trarre numerosi insegnamenti. I rischi di strumentalizzazione da parte di forze esterne, sindacali o partitiche. Necessità di un dibattito aperto.

Il movimento dei Comitati di Base (CdB o COBAS, che dir si voglia) è quanto di più originale si sia prodotto negli ultimi anni sul fronte sindacale: orientato nettamente ad un deciso rifiuto del sindacalismo confederale ed "autonomo", ha espresso in nuce tendenze chiaramente orizzontali ed autogestionarie a fronte di uno schietto assemblearismo non fine a se stesso. I CdB hanno finalmente affermato, anche se in modo discontinuo ed a tratti contraddittorio, il senso della partecipazione diretta catalizzato dalla necessità di nuove forme d'aggregazione nella scuola a partire dalle specificità di docenti e non docenti, al di là di ogni divisione, riserva ideologica ed indipendentemente dai percorsi precedenti.
La spinta unificante è venuta dal rifiuto di quella sorta d'operaismo d'accatto introdotto dai Confederali nel comparto scuola. Con quale metro si potrebbe quantificare il ruolo docente? Il lavoratore della scuola non sforna prodotti finiti, né tantomeno opera su una materia inerte, essendo il processo educativo-didattico essenzialmente interattivo. Era quindi nella logica delle cose, dati i presupposti, che la richiesta di una rivalutazione detta funzione docente divenisse l'esigenza primaria e che si tendesse a scrollarsi di dosso l'immagine di "burocrate aggiunto", impropriamente attribuita ai dipendenti del settore istruzione.
Come già accennato, non sono mancate contraddizioni, emerse in particolare nel giugno scorso, quando un pragmatismo eccessivo s'è impadronito improvvisamente della "dirigenza" del movimento: l'impasse è sopraggiunta sull'aria della trattativa onde assicurare ai "portavoce" un ampio margine di manovra. I giudizi sulla questione sono assai controversi e per gli stessi si rimanda alle interviste.
Oggi rimane il dibattito sulle "compatibilità". Chiarito subito che una piattaforma vertenziale non può venire assimilata ad un proclama insurrezionale al popolo, bisogna dire che il nemico principale per un movimento di base che voglia realizzare l'unità tra i lavoratori è la logica della competitività fra sottosistemi, il micro-corporativismo interno alla categoria e l'ignorarsi fra una categoria e l'altra. Non a caso "Il Sole-24 ore"" quotidiano della Confindustria, ha pescato spesso nel torbido. Lo stesso giorno (11 novembre) in cui da quelle pagine Sandro Gigliotti (uno dei leader ufficiali dei CdB) dichiarava che non aveva "senso aderire ad una manifestazione del pubblico impiego, proprio mentre si chiede lo sganciamento da questo comparto", un secondo articolo rassicurava i trepidanti lettori che i vari Cobas sono e resteranno uno separato dall'altro, perché semplici espressioni delle "giuste richieste" di categorie che "vogliono unicamente contare di più". Un elogio a chi vuole venga premiato il "merito", se per merito s'intende quello di non voler mettere in discussione il nuovo assetto di una scuola ripensata in ordine alla produzione, in cambio di riconoscimenti funzionali ed economici. È poi assai "sfizioso" l'attacco ai sindacati confederali che si esplicita in parallelo sulle stesse colonne quando, con accenti molto pesanti, li si tratta da inutili contenitori svuotati ormai di ogni potere. "Non contano più niente" tanto che "è inutile ricercare patti con essi persino al fine di regolamentare il diritto di sciopero".
Ma è evidente la forzatura quando la "cultura sindacale", data ormai per morta, viene accostata proprio a quel solidarismo che i sindacati hanno affossato con la politica delle compatibilità. Saranno contenti Lama ed i suoi che, in particolare dal tempo della piattaforma dell'Eur, hanno avuto il discutibile merito, sancendo la divisione tra garantiti e non garantiti, di porre le basi del nuovo corporativismo spianando la strada così ad un sindacalismo all'americana, cioè a quella lotta al coltello fra corporazioni dalla quale trae vantaggio il capitale, sia in termini di produttività (perché è la logica del merito ad uscirne vincente), che in termini di pace sociale.
La debacle sindacale viene a seguito dell'invadenza delle burocrazie confederali che offrivano in cambio di una cogestione politico-economica, il cadavere della conflittualità su di un piatto d'argento. Ma la conflittualità non è "assorbibile" in questo come in alcun sistema, tantomeno nella logica di un amorfo verticismo senza basi sociali. Il padrone, privato o di stato, può benissimo fare a meno di parassiti e mediatori senza seguito, sfruttando ai suoi fini le spinte che provengono dal mondo del lavoro con la creazione di lobby categoriali.
D'altra parte , trattare direttamente col padrone è molto più allettante che avere a che fare solo con il suo servitore: ecco quindi il nascere di aggregazioni autonome che nominano direttamente i propri rappresentanti. La logica marxista di occupazione del potere è stata ormai completamente decodificata ed il sindacato inteso come cinghia di trasmissione della burocrazia del partito è destinato a perire.
Nello stesso tempo però, autonomia di base ed auto-organizzazione potranno esprimere un progetto compiuto solo ancorandosi al cardine della solidarietà di classe, altrimenti risulterà vincente la tendenza a creare compartimenti stagni dentro e fuori le categorie, e settori deboli destinati a fare le spese dei benefici accordati ai gruppi emergenti. La solidarietà di classe non si può imporre altro che nei termini di una nuova rigidità contrattuale che escluda ogni possibilità di mediazione sugli interessi di tali settori deboli, anche fossero questi meno rappresentati. Il problema non è quindi quello di ottenere nell'immediato, visto il permanere di una disparità di funzioni che escludono la parificazione dei ruoli ed ogni pur minima rotazione orizzontale degli stessi, un egualitarismo a tutti i costi, ma quello di riqualificare le mobilitazioni a partire dai bisogni immediati (ad esempio, incrementando in modo sostanziale e paritario lo stipendio-base di tutti i lavoratori), realizzando però un'unità vincente fra il personale di ogni livello della categoria in lotta recependone le varie differenziazioni. A tale proposito risulta illuminante il colloquio con Paolo Grillo dell'Istituto "Volta" di Roma, coautore di una ipotesi di piattaforma destinata, con ogni probabilità, per pragmaticità, completezza e organicità, a ricomporre il dibattito nei CdB.

È l'ora di un nuovo sindacalismo

Se a fare da entroterra per un tale progetto è ancora l'onda lunga del '68 e del '77, cioè delle grandi stagioni dei decenni scorsi (e non a caso le due categorie più combattive sono proprio quelle che vantano la più grande tradizione libertaria nel nostro paese: ferrovieri ed insegnanti), fidando esclusivamente sulla forza e la direzione impresse a suo tempo a quel flutto, siamo destinati alla sconfitta. È l'ora di un nuovo "sindacalismo d'azione diretta" (checché ne dicano i vetero-leninisti, convinti che il sindacalismo rivoluzionario non esista perché "la rivoluzione la fa il partito"), in grado di fare piazza pulita dell'autonomia del politico e delle sue "avanguardie", dei ceti politici e della loro propensione a smussare il dibattito riducendolo a forza nelle secche di un massimalismo opportunista, mirato all'egemonia o di un pragmatismo povero incline a mediare su tutto.
I nuovi movimenti devono porre molta attenzione nel non farsi strumentalizzare da forze esterne, qualunque sia il pretesto adottato, o a prestare il fianco a quella stessa demagogia catto-comunista che ha permesso un livellamento in basso del reddito da lavoro dipendente ad esclusivo vantaggio della rendita da capitale o dell'appropriazione di plus-valore a carattere tecno-burocratico. Vale a dire che, non potendosi per ovvi motivi di conservazione dello status quo, colpire ulteriormente lo stipendio base, si sono ridotte fino all'appiattimento le retribuzioni dei cosiddetti "quadri intermedi".
Settore debole per eccellenza nel comparto scuola è l'area del precariato: qui stato e sindacati si sono sbizzarriti a far nascere fratture di ogni genere che attraversano verticalmente la categoria, accentuando nel contempo le divisioni politico-economiche fra Nord e Sud. Farsesche "leggi tampone" si sono sovrapposte le une alle altre. In ultimo, il decreto Fanfani ha creato una nuova figura giuridica: quella dell'insegnante precario "illicenziabile", nominato dal Provveditore agli Studi, confermato paradossalmente nel ruolo istituzionale di precario, ma privilegiato rispetto ai supplenti temporanei ed al personale non di ruolo di interi ordini di scuola, elementari e materne in primo luogo, ove non esistono incarichi annuali. Tale provvedimento, spacciato per "panacea", nella sua arbitrarietà ed ambiguità, non è stato abbastanza combattuto dal movimento, tanto che produce tuttora strascichi polemici tra i fautori di una rinnovata lotta appunto per la cosiddetta "illicenziabilità" e quanti intravedono in ciò un trabocchetto sulla strada di una radicale soluzione della "questione precariato". Una soluzione che non può certo venire delegata ad una politica filo-sindacale con leggine ad hoc tese a sollecitare forme di micro-corporativismo, ma che va invece estesa a tutti coloro che nella scuola hanno speso il proprio tempo, tra l'altro in condizioni di lavoro e non-lavoro inammissibili, e riposto aspettative sostanziate da notevoli sacrifici. Per ulteriori approfondimenti si rimanda all'intervista fatta al CAPS (Coordinamento Autogestito Precari e Supplenti).
L'argomento va collegato comunque al più generale problema del "precariato sociale". La morte del "welfare state" va a determinare un'organizzazione sociale in cui la disoccupazione è fattore cronico ed elemento strutturale, l'instabilità del lavoro una necessità organica. Le "due società" acquistano contorni sempre più incomprensibili l'una per l'altra: è in atto una vera e propria "mutazione" culturale, parallela a quella strutturale dei soggetti tradizionali. In questa prospettiva vengono coinvolte, in maniera più o meno consapevole, tutte le forze sociali, e in modo determinante la sinistra istituzionale che ha svolto il ruolo di elemento catalizzatore, nel vano tentativo di trarre benefici per la propria politica di potere. Vale la pena di ricordare, a questo proposito, una "storica" affermazione di Bruno Trentin: "Obiettivo strategico per il Duemila è una riqualificazione permanente collegata alla mobilità. La terziarizzazione sarà difficile da dominare, la flessibilità sarà al limite dell'imprevedibilità". In tal senso l'impoverimento della scuola di massa e l'estrema settorializzazione e parcellizzazione del sapere preludono all'introiezione di capacità meramente esecutive.
Dopo il grande scossone del '68, caratterizzato per altro dalla forte richiesta di trasformazione dinamica di una scuola svuotata di reali contenuti formativi proprio nel momento in cui era divenuta "di tutti", sembra ora che si sia raggiunto un riassetto sociale, basato su una nuova situazione di diseguaglianza dopo anni di lotte. Parte rilevante vi ha il riconoscimento di un nuovo status ai ceti emergenti, dall'aristocrazia operaia sino alla tecnoburocrazia, e l'affermarsi per questi di una nuova mobilità sociale, che attraversandoli verticalmente conferisce attive possibilità di promozione. In tale contesto, la didattica ritorna ad essere solo momento di preliminare impostazione di ruoli definiti, pur nel rispetto delle norme di transizione sociale stabilite.
A questo mirava il polverone sui "formatori" introdotti nel contratto scuola dello scorso anno, e la ridefinizione dei programmi, già accennata nelle attuali mini o maxi-sperimentazioni, che preludono, con la ricercata complicità degli insegnanti, ad una "bonifica" della scuola, al suo asservimento alle strutture produttive presenti sul territorio e ad una conseguente stratificazione tra istituti di prima, seconda o terza categoria (sorta di agenzie decentrate del lavoro).

Il dibattito sulla piattaforma

A Roma il dibattito è divenuto ormai scontro aperto tra due contrapposte impostazioni, che però sono sostenute ad una impraticabilità di fondo che le accomuna, pur se di segno diverso. In una emerge in modo prepotente una preoccupazione essenzialmente a carattere micro-corporativa che, seppur sottaciuta e passata fra le righe nella parte per così dire introduttivo-informativa che ne contiene i principi ispiratori, si afferma in modo evidente nella tabella sinottica in cui vengono illustrati i livelli retributivi previsti per il contratto '88-'90, relativa peraltro ai soli insegnanti.
Se l'intenzione era quella di ridisegnare il ruolo per il personale docente e di conseguenza la monetizzazione che tale ruolo dovrebbe esprimere in questa società, bisogna dire che tale impostazione è veramente innovativa, ma in senso deteriore. In omaggio agli insegnanti laureati, il titolo di studio accademico diviene sempre più discriminante. Il riconoscimento dell'uguale funzione e di conseguenza il ruolo unico, vengono di fatto sacrificati sull'altare della differente preparazione culturale e burocraticamente documentabile del personale di elementari e materne; si giustifica e sancisce così il "divorzio retributivo" tra laureati e diplomati persino all'interno delle stesse primarie. Mentre si lamentano le carenze degli atenei, che di fatto non prevedono e non preparano a strategie didattiche in ordine ai contenuti che veicolano, e si evidenziano da molte parti i limiti di una formazione universitaria esclusivamente speculativo-teoretica, dall'altra si interpreta l'aver ricevuto in passato questa stessa formazione universitaria come una condizione indispensabile per l'accesso ad un insegnamento veramente qualificato.
Per il futuro la questione potrebbe cambiare unicamente se le università integrassero in modo esaustivo metodologia e didattica lavorando in funzione di una loro applicazione pratica. Finché l'università rimane un corpo scisso dalla scuola (il recente passaggio al Ministero della Ricerca Scientifica è solo un atto burocratico che sancisce una realtà già presente agli occhi di tutti), non avrà senso neanche l'avanzata proposta di anno sabbatico di aggiornamento, stante la prassi cattedratica che informa di sé tutto l'insegnamento accademico. Si tratterebbe quindi della semplice sostituzione di un barone universitario ad un "formatore" cresciuto sotto l'ala dell'IRRSAE (istituzione preposta all'aggiornamento ed alla ricerca), se non si prevede sin da ora, come condizione fondamentale, che l'insegnante "da aggiornare" sia soggetto attivo e non mero ricettacolo passivo.
Secondo l'impostazione summenzionata, il ruolo unico, terreno infido e scomodo per il sindacalismo ufficiale, sembra quindi un pericolo esorcizzato almeno per ora, salvo poi riapparire, ma in modo machiavellico, nella richiesta dell'aggancio ai parametri retributivi dei professori universitari. Stante la "scarsa" considerazione del lavoro espletato dai docenti diplomati, sembra di capire che a tale eden potranno accedere soltanto pochi eletti (forse solo i laureati? o solo i laureati delle superiori? E delle superiori in generale o solo dei licei?).
A monte di questo ipotetico aggancio vi è la richiesta di uno scorporo della scuola dal pubblico impiego, per il quale non volendo anticiparne i contenuti e le polemiche si rimanda agli interventi dei vari intervistati.
L'ideologia che sostiene la proposta dell'aggancio ai docenti degli atenei è il principio dell'integrazione tra il momento della ricerca (relegato e/o regalato all'università) e quello della didattica (compito quest'ultimo comune a scuola ed università), secondo quanto affermano gli estensori di tale bozza di piattaforma che ha girato l'Italia sotto il nome di "documento degli undici". Il complesso d'inferiorità nei confronti del mondo accademico è rivelato oltre che dal misconoscimento della funzione creativa ed elaborativa della scuola, anche dal fatto che l'aggancio si attesta alla proporzione del 70%, traducendo questa inferiorità in termini monetari.
Lo stesso complesso, però utilizzato in modo strumentale per contrapporsi alla richiesta di aggancio, emerge anche nella proposta di piattaforma speculare concepita sempre a Roma proprio in antitesi ed in contrasto con quanto contenuto nell'altra. La constatazione della separatezza tra ricerca e didattica, che nel primo caso era l'argomento principe su cui far marciare la proposta di aggancio, diviene quindi l'argomento principe anche per bloccarla, ritornando come un boomerang verso chi l'aveva lanciato. Se l'attività di ricerca, al momento attuale, viene vista come demandata esclusivamente agli atenei, risulta ben strano chiedere di essere equiparati al ceto intellettuale delle università. Questo il senso dell'aporia di fronte al quale va a trovarsi chi afferma una diversità per rivendicare una eguaglianza.

Ma l'area libertaria potrebbe...

Lasciando le dispute bizantine, è necessario però vedere come sia possibile che uno stesso argomento valga a dimostrare tutto ed il contrario di tutto. La motivazione, come spesso avviene, sta nel fatto che si tratta di un falso argomento che riposa su di una falsa, o quantomeno parziale, definizione della funzione docente - comune a tutte e due le piattaforme - intesa solo come "trasmissione del sapere". Si tradisce quindi la principale carenza di entrambe le posizioni che, usate quali veicoli per puntare alla direzione del movimento e/o alla mediazione contrattual-monetaria con la controparte, lasciando passare in second'ordine la didattica, dimostrandosi peraltro attestate su concezioni della scuola ormai obsolete. Non viene infatti previsto neanche in prospettiva, come del resto neppure nella maggioranza degli altri documenti espressi in questi mesi di mobilitazione dei CdB, un progetto innovativo che stimoli il dibattito sui "contenuti" dell'insegnamento. Sono così sacrificate le enormi potenzialità a livello propositivo che il movimento può esprimere.
Vistosa ed indicativa al tempo stesso è stata l'assenza del dovuto approfondimento del problema sollevato dall'ora di religione, questione lasciata ai margini per mancanza di attenzione o sacrificata nel timore di alienare le simpatie del settore più tradizionalista.
Vengono ignorati anni di dibattito (vedasi ad esempio le esperienze di scuola alternativa), dibattito che è stato, con le lotte degli anni scorsi (espresse ad esempio dal coordinamento Nazionale Lavoratori della Scuola), il filo rosso che ha creato i presupposti per la nascita dei Comitati di Base.
Se è vero che per molti la prima presa di coscienza è stata di tipo corporativo (né vale per questo respingere tale approccio in nome di uno sterile "purismo"), è altrettanto vero che altri si sono avvicinati al movimento convinti di poter trovare la sede atta a recepire, elaborare e potenziare tutte le istanze di rinnovamento che si vanno esprimendo in merito alla didattica.
Questo è un terreno sul quale in particolare l'area libertaria potrebbe intervenire in maniera significativa, allargando il dibattito e portandolo sui temi centrali dell'educazione antiautoritaria, del rifiuto di ogni tipo di insegnamento dogmatico, di una preparazione culturale che non si limiti solo ad interpretare la realtà ma si proponga anche di intervenire per cambiarla.
Altro nodo, nella discussione troppo spesso trascurato, è il ruolo della scuola pubblica, nei confronti del quale si possono individuare, all'interno del movimento socialista e progressista, fondamentalmente due atteggiamenti diversi: da una parte la difesa acritica e ottusa della scuola di stato; dall'altra il suo rifiuto, senza un effettivo superamento del problema, con episodiche fughe - se si eccettua il periodo d'oro della rivoluzione spagnola con la presenza diffusa degli "atenei libertari" - verso la creazione di "isole felici", paradisi della "cultura alternativa" (asili libertari, scuole aperte, ecc.). Pur trainanti dal punto di vista della sperimentazione, tali iniziative, per episodicità e limitatezza strutturale, non sono riuscite a proporsi come reale alternativa a livello di massa. La costruzione di una scuola diversa non può passare che tramite l'intervento dall'interno nelle strutture esistenti per deprivarne gli elementi statuali, per mettere in mora le pesanti ingerenze dell'amministrazione, per ripensare completamente la metodologia e riportare la scuola al territorio ed il territorio alla scuola, ponendo così definitivamente in discussione (e non in astratto) l'istituzione-scuola onde attribuire alla società civile il primato su stato e autorità.

Quali strutture organizzative

A livello più generale la polemica spicciola lascia sempre più spazio alla pratica di schieramenti contrapposti più o meno costituiti che, eliminando il confronto e viaggiando sul "partito preso", tende a frantumare l'unità del movimento vuotando di contenuti il pluralismo e sancendo di fatto quello che tutti dicono di voler combattere, ossia la lottizzazione del potere e della rappresentatività nei comitati di Base.
Il momento dell'elaborazione della piattaforma, la quale dovrebbe esplicitare i contenuti del movimento, non solo in ordine agli obiettivi rivendicativi ma anche ad un progetto più complessivo - pur con le riserve sopra esposte - è di fatto passato in subordine sia sul piano ideale che cronologico rispetto al problema dell'individuazione delle strutture organizzative.
Nell'assemblea nazionale del 1° novembre si è verificato un grosso scontro sulla mozione che ha indetto, in modo sofferto, l'incontro del 15 dello stesso mese con gli altri settori in lotta del mondo del lavoro cui hanno partecipato circa 2.000 persone, ove si sono poste le basi per successive iniziative comuni come le manifestazioni di Roma del 12 dicembre per riaffermare il diritto di sciopero.
La necessità del collegamento con gli altri comparti per la difesa comune di alcune garanzie essenziali, in questo momento particolare caratterizzato dall'attacco alle più elementari libertà dei lavoratori, era avvertita già da tempo dall'ala più sensibile del movimento e costituisce quindi una conquista determinante, sulla via della costruzione di un progetto più complessivo d'intervento nel mondo del lavoro e nella società. Sono state così sconfitte le eccessive remore di coloro che temevano sopra ogni cosa la nascita di un cosiddetto "Intercobas"; s'è avviato invece un processo non di unificazione appiattente, bensì di coordinamento nel rispetto di specificità e differenze.
La stessa assemblea nazionale ha però sancito, senza particolari traumi, una stretta organizzata asfissiante, con buona pace dei "movimentisti" della prima ora che l'hanno approvata senza colpo ferire quando, fino a qualche mese or sono, facevano fuoco e fiamme contro ogni nuova ipotesi di strutturazione. Una Commissione esecutiva Nazionale composta di 20 delegati sorge sulle ceneri della commissione Tecnica Nazionale, dove erano previsti 2 rappresentanti per ogni provincia, ed avocherà a sé tutte le funzioni, comprese le eventuali trattative contrattuali, sinora demandate a portavoce eletti di volta in volta dalla stessa assemblea nazionale. I membri del "direttorio", destinati a rimanere in carica per 3 mesi con la possibile turnazione di un solo quarto di essi, costituiranno anche la redazione nazionale degli organi di stampa del movimento. Inutile dire che la cosa è assai limitativa. Basti pensare che lo stesso Gigliotti, che passa per un "accentratore", si è espresso, nel corso del colloquio avuto con lui per questo servizio, a favore di una imposizione eterogenea dell'organismo preposto alla gestione della stampa, onde poter garantire il dibattito complessivo, senza mortificare nessuna posizione ed in modo da tener conto delle "minoranze". I delegati restano, in linea teorica, sempre e comunque "revocabili in ogni momento", però il principio della permanenza effettiva, che sostituisce quello del rinnovo automatico delle "cariche" ad ogni assise, è di piombo, in particolare per quanto riguarda l'espletamento delle funzioni più importanti, le quali esulano dal carattere meramente tecnico per assumere giocoforza connotazioni squisitamente politiche. Si tenga inoltre presente che non sono state stabilite scadenze precise per la convocazione delle assemblee nazionali ed i meccanismi che possono garantire a questa o quella provincia, alle minoranze, alla base stessa, eventuali convocazioni straordinarie.
La necessità di una organizzazione strutturata, atta ad impedire però anche fenomeni di autolegittimazione, è un'esigenza avvertita da tutti. La strada intrapresa privilegia, al contrario, il rapporto tra il movimento e l'esterno, tenendo conto solo in modo marginale della dialettica interna. In tal senso le strutture organizzate, oltre ad essere il portato di una crescita reale, dovrebbero assolvere anche una funzione di stimolo, agendo da volano per l'allargamento dell'aggregazione stessa. È questa la carenza principale della forma organizzativa sancita dall'assemblea. Lo stato del movimento è critico, da questo punto di vista. Rischi di una sterzata autoritaria esistono concretamente: alcuni delegati, nella stessa data, sono arrivati addirittura a proporre di stendere nella prossima assemblea nazionale, in via definitiva, la famosa piattaforma, in seguito non più suscettibile di modifiche. Se anche tale proposito non ha avuto seguito, resta comunque il fatto che la smania di concludere - non si capisce bene il perché, visto che c'è tempo fino al giugno '88 - si è impadronita di tutti.
Il referendum previsto per la verifica delle linee generali che usciranno dal prossimo incontro generale dei CdB della scuola è un'occasione da non perdere per ristabilire in modo corretto i termini della questione, onde ridare fiato ad un dibattito che rischia di venire strozzato.

La vera partita

L'impressione che parecchi mirino a costruire un apparato decisionale accentrato rimane e va rafforzandosi di giorno in giorno. Tale tendenza, ben oltre le differenti posizioni, accomuna gruppi di pressione e microorganismi politici, che al di là dello spazio occupato nel movimento, sono convinti di poter arrivare così, in un prossimo futuro, a gestire il movimento stesso a mo' di partito.
Del resto l'illusione di voler costruire il contenitore (organizzazione) prima del contenuto, rimane ben viva. Una logica simile, mutatis mutandis, si era già imposta a settembre a Roma quando, presenti un ristretto numero di scuole (circa 40) è stato ratificato dall'assemblea provinciale un livello di formalizzazione che richiede ad ogni aderente dei singoli CdB il versamento di L. 10.000. Questo modo di fare, al di là dei contenuti, ha finito incontrovertibilmente con l'allontanare diverse scuole, attive sino a giugno, ed ha creato un'ulteriore spaccatura tra i lavoratori della scuola. La cosa maggiormente da stigmatizzare è appunto il modo col quale la decisione è stata veicolata, approfittando della scarsa partecipazione, facilmente prevedibile alla ripresa dell'anno scolastico.
Se la logica era quella di garantire una "dirigenza politica" al movimento, la pratica non è stata delle più felici. Se l'intenzione era invece di "guidare" il movimento oltre le secche del "corporativismo", bisogna dire che ha portato a risultati opposti, tanto che la radicalizzazione dello "scontro" non ha fatto che favorire la fossilizzazione, nella sclerosi del "muro contro muro". A trarne vantaggio è stato, per un certo periodo, chi era convinto di avere già "la soluzione" in tasca ed andava propagandando di scuola in scuola la sua "piattaforma" beneficiando del vuoto propositivo prodotto dalla cristallizzazione di un confronto fermo quasi unicamente alla questione organizzativa.
La vera partita da farsi è con la controparte: le polemiche dietro le quinte e la stasi di un movimento ripiegato su se stesso non possono che allontanare sempre più il conseguimento degli obiettivi dei CdB.



COBAS scuola / Appunti di storia

Il Movimento dei Cdb della scuola nasce, quasi in sordina, nel giugno 1986, ma riesce ad aggregare consistenti fasce di lavoratori del settore già a partire dalle iniziative di dibattito e di mobilitazione dell'autunno dello stesso anno.
Viene individuata, da subito, una serie di obiettivi, che pur se privi di una effettiva articolazione, lasciano intravedere una "filosofia" più complessiva. Si arriva così alla stesura della piattaforma del liceo Mamiani (Roma, dicembre 1986) che, elaborata collettivamente, vede i suoi punti più qualificanti nella richiesta di un recupero salariale di 400.000 lire nette uguali per tutti, di una riduzione del numero massimo di alunni per classe, della soluzione definitiva del problema del precariato e nel rifiuto della legge-quadro.
Partono all'inizio dell''87 le Commissioni di lavoro aperte, con il compito di approfondire alcuni aspetti in ordine ai contenuti e alle questioni tecniche, mentre si impone la necessità di dotarsi di strumenti organizzativi più strutturati. Si propongono come guida le realtà locali di maggior peso, che deriva loro non solo dalla più ampia estensione, ma anche dall'aver proseguito nella lotta del blocco degli scrutini del I quadrimestre, mentre realtà locali più deboli avevano già sbloccato il 7 marzo.
L'assemblea nazionale di Napoli (22 marzo 1987) definisce l'"organigramma": è prevista, sul modello di Roma, la costituzione dell'assemblea provinciale per delegati - mentre fino ad allora era data a tutti facoltà di parola e di voto - e la formazione di vari organismi (Commissione Tecnica Nazionale, Commissione ATA, Precari, ecc.). Il dibattito si attesta su queste posizioni, mentre i livelli di aggregazione continuano a salire, fino a giungere al culmine con la manifestazione nazionale del 25 maggio scorso a Roma, che vede la partecipazione di più di 50.000 lavoratori. In quel momento l'agitazione si estende a più della metà del corpo insegnante del Paese.
Dopo le avvisaglie di una campagna repressiva, tesa ad intimorire il Movimento, la perdurante attenzione della stampa e la massiccia mobilitazione, insieme alla crescente preoccupazione del Governo (si avvicina la convocazione degli scrutini finali, mentre alcune scuole attuano ancora il blocco per il primo quadrimestre) aprono la via all'incontro tra i rappresentanti dei Cdb e Fanfani (presidente del consiglio "a termine"), perdurando l'ostinazione del ministro Falcucci nell'ignorare le rivendicazioni dei lavoratori della scuola.
Nel frattempo i sindacati, mentre invocano la precettazione in modo vergognoso, si propongono d'altra parte come mediatori nei confronti di un Movimento che li aveva già completamente delegittimati. Parallelamente, al momento della trattativa, si registrano le prime gravi divisioni all'interno dei Cdb.
All'accusa di gestire in modo poco limpido i rapporti con la controparte, puntando al ribasso, i "portavoce" si difendono, appellandosi alla specificità della contingenza politica e argomentando con la stanchezza della categoria, ormai esaurita da mesi di lotte, e con la non-praticabilità degli obiettivi. Di fronte a tante polemiche e al riaffiorare di certe "pratiche politiche" che strozzano il dibattito in assemblea, l'entusiasmo viene a scemare e di fatto l'unica "conquista" del Movimento sarà il decreto Fanfani.
L'intervento legislativo, le cui concessioni erano già contenute negli accordi a latere del contratto siglato da CGIL, CISL, UIL e SNALS, non varrà comunque a scongiurare la proclamazione del blocco degli scrutini di fine d'anno. Il resto è storia recente.