Rivista Anarchica Online
A
scuola coi COBAS
di Stefano Fabbri d'Errico
Dalla storia non lunga, ma molto intensa, dei COBAS in campo scolastico, si possono già trarre numerosi insegnamenti. I rischi di strumentalizzazione da parte di forze esterne, sindacali o partitiche. Necessità di un dibattito aperto.
Il movimento dei
Comitati di Base (CdB o COBAS, che dir si voglia) è quanto di più
originale si sia prodotto negli ultimi anni sul fronte sindacale:
orientato nettamente ad un deciso rifiuto del sindacalismo
confederale ed "autonomo", ha espresso in nuce tendenze
chiaramente orizzontali ed autogestionarie a fronte di uno schietto
assemblearismo non fine a se stesso. I CdB hanno finalmente
affermato, anche se in modo discontinuo ed a tratti contraddittorio,
il senso della partecipazione diretta catalizzato dalla necessità di
nuove forme d'aggregazione nella scuola a partire dalle specificità
di docenti e non docenti, al di là di ogni divisione, riserva
ideologica ed indipendentemente dai percorsi precedenti. La spinta
unificante è venuta dal rifiuto di quella sorta d'operaismo
d'accatto introdotto dai Confederali nel comparto scuola. Con quale
metro si potrebbe quantificare il ruolo docente? Il lavoratore della
scuola non sforna prodotti finiti, né tantomeno opera su una materia
inerte, essendo il processo educativo-didattico essenzialmente
interattivo. Era quindi nella logica delle cose, dati i presupposti,
che la richiesta di una rivalutazione detta funzione docente
divenisse l'esigenza primaria e che si tendesse a scrollarsi di dosso
l'immagine di "burocrate aggiunto", impropriamente
attribuita ai dipendenti del settore istruzione. Come già
accennato, non sono mancate contraddizioni, emerse in particolare nel
giugno scorso, quando un pragmatismo eccessivo s'è impadronito
improvvisamente della "dirigenza" del movimento: l'impasse
è sopraggiunta sull'aria della trattativa onde assicurare ai
"portavoce" un ampio margine di manovra. I giudizi sulla
questione sono assai controversi e per gli stessi si rimanda alle
interviste. Oggi rimane il
dibattito sulle "compatibilità". Chiarito subito che una
piattaforma vertenziale non può venire assimilata ad un proclama
insurrezionale al popolo, bisogna dire che il nemico principale per
un movimento di base che voglia realizzare l'unità tra i lavoratori
è la logica della competitività fra sottosistemi, il
micro-corporativismo interno alla categoria e l'ignorarsi fra una
categoria e l'altra. Non a caso "Il Sole-24 ore""
quotidiano della Confindustria, ha pescato spesso nel torbido. Lo
stesso giorno (11 novembre) in cui da quelle pagine Sandro Gigliotti
(uno dei leader ufficiali dei CdB) dichiarava che non aveva "senso
aderire ad una manifestazione del pubblico impiego, proprio mentre si
chiede lo sganciamento da questo comparto", un secondo articolo
rassicurava i trepidanti lettori che i vari Cobas sono e resteranno
uno separato dall'altro, perché semplici espressioni delle "giuste
richieste" di categorie che "vogliono unicamente contare di
più". Un elogio a chi vuole venga premiato il "merito",
se per merito s'intende quello di non voler mettere in discussione il
nuovo assetto di una scuola ripensata in ordine alla produzione, in
cambio di riconoscimenti funzionali ed economici. È poi assai
"sfizioso" l'attacco ai sindacati confederali che si
esplicita in parallelo sulle stesse colonne quando, con accenti molto
pesanti, li si tratta da inutili contenitori svuotati ormai di ogni
potere. "Non contano più niente" tanto che "è
inutile ricercare patti con essi persino al fine di regolamentare il
diritto di sciopero". Ma è evidente la
forzatura quando la "cultura sindacale", data ormai per morta,
viene accostata proprio a quel solidarismo che i sindacati hanno
affossato con la politica delle compatibilità. Saranno contenti Lama
ed i suoi che, in particolare dal tempo della piattaforma dell'Eur,
hanno avuto il discutibile merito, sancendo la divisione tra
garantiti e non garantiti, di porre le basi del nuovo corporativismo
spianando la strada così ad un sindacalismo all'americana, cioè a
quella lotta al coltello fra corporazioni dalla quale trae vantaggio
il capitale, sia in termini di produttività (perché è la logica
del merito ad uscirne vincente), che in termini di pace
sociale. La debacle
sindacale viene a seguito dell'invadenza delle burocrazie confederali
che offrivano in cambio di una cogestione politico-economica, il
cadavere della conflittualità su di un piatto d'argento. Ma la
conflittualità non è "assorbibile" in questo come in alcun
sistema, tantomeno nella logica di un amorfo verticismo senza basi
sociali. Il padrone, privato o di stato, può benissimo fare a meno
di parassiti e mediatori senza seguito, sfruttando ai suoi fini le
spinte che provengono dal mondo del lavoro con la creazione di lobby
categoriali. D'altra parte ,
trattare direttamente col padrone è molto più allettante che avere
a che fare solo con il suo servitore: ecco quindi il nascere di
aggregazioni autonome che nominano direttamente i propri
rappresentanti. La logica marxista di occupazione del potere è stata
ormai completamente decodificata ed il sindacato inteso come cinghia
di trasmissione della burocrazia del partito è destinato a perire. Nello stesso tempo
però, autonomia di base ed auto-organizzazione potranno esprimere un
progetto compiuto solo ancorandosi al cardine della solidarietà di
classe, altrimenti risulterà vincente la tendenza a creare
compartimenti stagni dentro e fuori le categorie, e settori deboli
destinati a fare le spese dei benefici accordati ai gruppi emergenti.
La solidarietà di classe non si può imporre altro che nei termini
di una nuova rigidità contrattuale che escluda ogni possibilità di
mediazione sugli interessi di tali settori deboli, anche fossero
questi meno rappresentati. Il problema non è quindi quello di
ottenere nell'immediato, visto il permanere di una disparità di
funzioni che escludono la parificazione dei ruoli ed ogni pur minima
rotazione orizzontale degli stessi, un egualitarismo a tutti i costi,
ma quello di riqualificare le mobilitazioni a partire dai bisogni
immediati (ad esempio, incrementando in modo sostanziale e paritario
lo stipendio-base di tutti i lavoratori), realizzando però un'unità
vincente fra il personale di ogni livello della categoria in lotta
recependone le varie differenziazioni. A tale proposito risulta
illuminante il colloquio con Paolo Grillo dell'Istituto "Volta"
di Roma, coautore di una ipotesi di piattaforma destinata, con ogni
probabilità, per pragmaticità, completezza e organicità, a
ricomporre il dibattito nei CdB.
È l'ora di un
nuovo sindacalismo
Se a fare da
entroterra per un tale progetto è ancora l'onda lunga del '68 e del
'77, cioè delle grandi stagioni dei decenni scorsi (e non a caso le
due categorie più combattive sono proprio quelle che vantano la più
grande tradizione libertaria nel nostro paese: ferrovieri ed
insegnanti), fidando esclusivamente sulla forza e la direzione
impresse a suo tempo a quel flutto, siamo destinati alla sconfitta. È
l'ora di un nuovo "sindacalismo d'azione diretta" (checché ne
dicano i vetero-leninisti, convinti che il sindacalismo
rivoluzionario non esista perché "la rivoluzione la fa il
partito"), in grado di fare piazza pulita dell'autonomia del
politico e delle sue "avanguardie", dei ceti politici e della
loro propensione a smussare il dibattito riducendolo a forza nelle
secche di un massimalismo opportunista, mirato all'egemonia o di un
pragmatismo povero incline a mediare su tutto. I nuovi movimenti
devono porre molta attenzione nel non farsi strumentalizzare da forze
esterne, qualunque sia il pretesto adottato, o a prestare il fianco a
quella stessa demagogia catto-comunista che ha permesso un
livellamento in basso del reddito da lavoro dipendente ad esclusivo
vantaggio della rendita da capitale o dell'appropriazione di
plus-valore a carattere tecno-burocratico. Vale a dire che, non
potendosi per ovvi motivi di conservazione dello status quo, colpire
ulteriormente lo stipendio base, si sono ridotte fino
all'appiattimento le retribuzioni dei cosiddetti "quadri
intermedi". Settore debole
per eccellenza nel comparto scuola è l'area del precariato: qui
stato e sindacati si sono sbizzarriti a far nascere fratture di ogni
genere che attraversano verticalmente la categoria, accentuando nel
contempo le divisioni politico-economiche fra Nord e Sud. Farsesche
"leggi tampone" si sono sovrapposte le une alle altre. In ultimo,
il decreto Fanfani ha creato una nuova figura giuridica: quella
dell'insegnante precario "illicenziabile", nominato dal
Provveditore agli Studi, confermato paradossalmente nel ruolo
istituzionale di precario, ma privilegiato rispetto ai supplenti
temporanei ed al personale non di ruolo di interi ordini di scuola,
elementari e materne in primo luogo, ove non esistono incarichi
annuali. Tale provvedimento, spacciato per "panacea", nella
sua arbitrarietà ed ambiguità, non è stato abbastanza combattuto
dal movimento, tanto che produce tuttora strascichi polemici tra i
fautori di una rinnovata lotta appunto per la cosiddetta
"illicenziabilità" e quanti intravedono in ciò un
trabocchetto sulla strada di una radicale soluzione della "questione
precariato". Una soluzione che non può certo venire delegata ad
una politica filo-sindacale con leggine ad hoc tese a sollecitare
forme di micro-corporativismo, ma che va invece estesa a tutti coloro
che nella scuola hanno speso il proprio tempo, tra l'altro in
condizioni di lavoro e non-lavoro inammissibili, e riposto
aspettative sostanziate da notevoli sacrifici. Per ulteriori
approfondimenti si rimanda all'intervista fatta al CAPS
(Coordinamento Autogestito Precari e Supplenti). L'argomento va
collegato comunque al più generale problema del "precariato
sociale". La morte del "welfare state" va a
determinare un'organizzazione sociale in cui la disoccupazione è
fattore cronico ed elemento strutturale, l'instabilità del lavoro
una necessità organica. Le "due società" acquistano
contorni sempre più incomprensibili l'una per l'altra: è in atto
una vera e propria "mutazione" culturale, parallela a quella
strutturale dei soggetti tradizionali. In questa prospettiva vengono
coinvolte, in maniera più o meno consapevole, tutte le forze
sociali, e in modo determinante la sinistra istituzionale che ha
svolto il ruolo di elemento catalizzatore, nel vano tentativo di
trarre benefici per la propria politica di potere. Vale la pena di
ricordare, a questo proposito, una "storica" affermazione
di Bruno Trentin: "Obiettivo strategico per il Duemila è una
riqualificazione permanente collegata alla mobilità. La
terziarizzazione sarà difficile da dominare, la flessibilità sarà
al limite dell'imprevedibilità". In tal senso l'impoverimento
della scuola di massa e l'estrema settorializzazione e
parcellizzazione del sapere preludono all'introiezione di capacità
meramente esecutive. Dopo il grande
scossone del '68, caratterizzato per altro dalla forte richiesta di
trasformazione dinamica di una scuola svuotata di reali contenuti
formativi proprio nel momento in cui era divenuta "di tutti",
sembra ora che si sia raggiunto un riassetto sociale, basato su una
nuova situazione di diseguaglianza dopo anni di lotte. Parte
rilevante vi ha il riconoscimento di un nuovo status ai ceti
emergenti, dall'aristocrazia operaia sino alla tecnoburocrazia, e
l'affermarsi per questi di una nuova mobilità sociale, che
attraversandoli verticalmente conferisce attive possibilità di
promozione. In tale contesto, la didattica ritorna ad essere solo
momento di preliminare impostazione di ruoli definiti, pur nel
rispetto delle norme di transizione sociale stabilite. A questo mirava il
polverone sui "formatori" introdotti nel contratto scuola
dello scorso anno, e la ridefinizione dei programmi, già accennata
nelle attuali mini o maxi-sperimentazioni, che preludono, con la
ricercata complicità degli insegnanti, ad una "bonifica"
della scuola, al suo asservimento alle strutture produttive presenti
sul territorio e ad una conseguente stratificazione tra istituti di
prima, seconda o terza categoria (sorta di agenzie decentrate del
lavoro).
Il dibattito
sulla piattaforma
A Roma il dibattito
è divenuto ormai scontro aperto tra due contrapposte impostazioni,
che però sono sostenute ad una impraticabilità di fondo che le
accomuna, pur se di segno diverso. In una emerge in modo prepotente
una preoccupazione essenzialmente a carattere micro-corporativa che,
seppur sottaciuta e passata fra le righe nella parte per così dire
introduttivo-informativa che ne contiene i principi ispiratori, si
afferma in modo evidente nella tabella sinottica in cui vengono
illustrati i livelli retributivi previsti per il contratto '88-'90,
relativa peraltro ai soli insegnanti. Se l'intenzione era
quella di ridisegnare il ruolo per il personale docente e di
conseguenza la monetizzazione che tale ruolo dovrebbe esprimere in
questa società, bisogna dire che tale impostazione è veramente
innovativa, ma in senso deteriore. In omaggio agli insegnanti
laureati, il titolo di studio accademico diviene sempre più
discriminante. Il riconoscimento dell'uguale funzione e di
conseguenza il ruolo unico, vengono di fatto sacrificati sull'altare
della differente preparazione culturale e burocraticamente
documentabile del personale di elementari e materne; si giustifica e
sancisce così il "divorzio retributivo" tra laureati e
diplomati persino all'interno delle stesse primarie. Mentre si
lamentano le carenze degli atenei, che di fatto non prevedono e non
preparano a strategie didattiche in ordine ai contenuti che
veicolano, e si evidenziano da molte parti i limiti di una formazione
universitaria esclusivamente speculativo-teoretica, dall'altra si
interpreta l'aver ricevuto in passato questa stessa formazione
universitaria come una condizione indispensabile per l'accesso ad un
insegnamento veramente qualificato. Per il futuro la
questione potrebbe cambiare unicamente se le università integrassero
in modo esaustivo metodologia e didattica lavorando in funzione di
una loro applicazione pratica. Finché l'università rimane un corpo
scisso dalla scuola (il recente passaggio al Ministero della Ricerca
Scientifica è solo un atto burocratico che sancisce una realtà già
presente agli occhi di tutti), non avrà senso neanche l'avanzata
proposta di anno sabbatico di aggiornamento, stante la prassi
cattedratica che informa di sé tutto l'insegnamento accademico. Si
tratterebbe quindi della semplice sostituzione di un barone
universitario ad un "formatore" cresciuto sotto l'ala
dell'IRRSAE (istituzione preposta all'aggiornamento ed alla ricerca),
se non si prevede sin da ora, come condizione fondamentale, che
l'insegnante "da aggiornare" sia soggetto attivo e non mero
ricettacolo passivo. Secondo
l'impostazione summenzionata, il ruolo unico, terreno infido e
scomodo per il sindacalismo ufficiale, sembra quindi un pericolo
esorcizzato almeno per ora, salvo poi riapparire, ma in modo
machiavellico, nella richiesta dell'aggancio ai parametri retributivi
dei professori universitari. Stante la "scarsa"
considerazione del lavoro espletato dai docenti diplomati, sembra di
capire che a tale eden potranno accedere soltanto pochi eletti (forse
solo i laureati? o solo i laureati delle superiori? E delle superiori
in generale o solo dei licei?). A monte di questo
ipotetico aggancio vi è la richiesta di uno scorporo della scuola
dal pubblico impiego, per il quale non volendo anticiparne i
contenuti e le polemiche si rimanda agli interventi dei vari
intervistati. L'ideologia che
sostiene la proposta dell'aggancio ai docenti degli atenei è il
principio dell'integrazione tra il momento della ricerca (relegato
e/o regalato all'università) e quello della didattica (compito
quest'ultimo comune a scuola ed università), secondo quanto
affermano gli estensori di tale bozza di piattaforma che ha girato
l'Italia sotto il nome di "documento degli undici". Il
complesso d'inferiorità nei confronti del mondo accademico è
rivelato oltre che dal misconoscimento della funzione creativa ed
elaborativa della scuola, anche dal fatto che l'aggancio si attesta
alla proporzione del 70%, traducendo questa inferiorità in termini
monetari. Lo stesso
complesso, però utilizzato in modo strumentale per contrapporsi alla
richiesta di aggancio, emerge anche nella proposta di piattaforma
speculare concepita sempre a Roma proprio in antitesi ed in contrasto
con quanto contenuto nell'altra. La constatazione della separatezza
tra ricerca e didattica, che nel primo caso era l'argomento principe
su cui far marciare la proposta di aggancio, diviene quindi
l'argomento principe anche per bloccarla, ritornando come un
boomerang verso chi l'aveva lanciato. Se l'attività di ricerca, al
momento attuale, viene vista come demandata esclusivamente agli
atenei, risulta ben strano chiedere di essere equiparati al ceto
intellettuale delle università. Questo il senso dell'aporia di
fronte al quale va a trovarsi chi afferma una diversità per
rivendicare una eguaglianza.
Ma l'area
libertaria potrebbe...
Lasciando le
dispute bizantine, è necessario però vedere come sia possibile che
uno stesso argomento valga a dimostrare tutto ed il contrario di
tutto. La motivazione, come spesso avviene, sta nel fatto che si
tratta di un falso argomento che riposa su di una falsa, o quantomeno
parziale, definizione della funzione docente - comune a tutte e due
le piattaforme - intesa solo come "trasmissione del sapere".
Si tradisce quindi la principale carenza di entrambe le posizioni
che, usate quali veicoli per puntare alla direzione del movimento e/o
alla mediazione contrattual-monetaria con la controparte, lasciando
passare in second'ordine la didattica, dimostrandosi peraltro
attestate su concezioni della scuola ormai obsolete. Non viene
infatti previsto neanche in prospettiva, come del resto neppure nella
maggioranza degli altri documenti espressi in questi mesi di
mobilitazione dei CdB, un progetto innovativo che stimoli il
dibattito sui "contenuti" dell'insegnamento. Sono così
sacrificate le enormi potenzialità a livello propositivo che il
movimento può esprimere. Vistosa ed
indicativa al tempo stesso è stata l'assenza del dovuto
approfondimento del problema sollevato dall'ora di religione,
questione lasciata ai margini per mancanza di attenzione o
sacrificata nel timore di alienare le simpatie del settore più
tradizionalista. Vengono ignorati
anni di dibattito (vedasi ad esempio le esperienze di scuola
alternativa), dibattito che è stato, con le lotte degli anni scorsi
(espresse ad esempio dal coordinamento Nazionale Lavoratori della
Scuola), il filo rosso che ha creato i presupposti per la nascita dei
Comitati di Base. Se è vero che per
molti la prima presa di coscienza è stata di tipo corporativo (né
vale per questo respingere tale approccio in nome di uno sterile
"purismo"), è altrettanto vero che altri si sono avvicinati
al movimento convinti di poter trovare la sede atta a recepire,
elaborare e potenziare tutte le istanze di rinnovamento che si vanno
esprimendo in merito alla didattica. Questo è un
terreno sul quale in particolare l'area libertaria potrebbe
intervenire in maniera significativa, allargando il dibattito e
portandolo sui temi centrali dell'educazione antiautoritaria, del
rifiuto di ogni tipo di insegnamento dogmatico, di una preparazione
culturale che non si limiti solo ad interpretare la realtà ma si
proponga anche di intervenire per cambiarla. Altro nodo, nella
discussione troppo spesso trascurato, è il ruolo della scuola
pubblica, nei confronti del quale si possono individuare, all'interno
del movimento socialista e progressista, fondamentalmente due
atteggiamenti diversi: da una parte la difesa acritica e ottusa della
scuola di stato; dall'altra il suo rifiuto, senza un effettivo
superamento del problema, con episodiche fughe - se si eccettua il
periodo d'oro della rivoluzione spagnola con la presenza diffusa
degli "atenei libertari" - verso la creazione di "isole
felici", paradisi della "cultura alternativa" (asili
libertari, scuole aperte, ecc.). Pur trainanti dal punto di vista
della sperimentazione, tali iniziative, per episodicità e
limitatezza strutturale, non sono riuscite a proporsi come reale
alternativa a livello di massa. La costruzione di una scuola diversa
non può passare che tramite l'intervento dall'interno nelle
strutture esistenti per deprivarne gli elementi statuali, per mettere
in mora le pesanti ingerenze dell'amministrazione, per ripensare
completamente la metodologia e riportare la scuola al territorio ed
il territorio alla scuola, ponendo così definitivamente in
discussione (e non in astratto) l'istituzione-scuola onde attribuire
alla società civile il primato su stato e autorità.
Quali strutture
organizzative
A livello più
generale la polemica spicciola lascia sempre più spazio alla pratica
di schieramenti contrapposti più o meno costituiti che, eliminando
il confronto e viaggiando sul "partito preso", tende a
frantumare l'unità del movimento vuotando di contenuti il pluralismo
e sancendo di fatto quello che tutti dicono di voler combattere,
ossia la lottizzazione del potere e della rappresentatività nei
comitati di Base. Il momento
dell'elaborazione della piattaforma, la quale dovrebbe esplicitare i
contenuti del movimento, non solo in ordine agli obiettivi
rivendicativi ma anche ad un progetto più complessivo - pur con le
riserve sopra esposte - è di fatto passato in subordine sia sul
piano ideale che cronologico rispetto al problema dell'individuazione
delle strutture organizzative. Nell'assemblea
nazionale del 1° novembre si è verificato un grosso scontro sulla
mozione che ha indetto, in modo sofferto, l'incontro del 15 dello
stesso mese con gli altri settori in lotta del mondo del lavoro cui
hanno partecipato circa 2.000 persone, ove si sono poste le basi per
successive iniziative comuni come le manifestazioni di Roma del 12
dicembre per riaffermare il diritto di sciopero. La necessità del
collegamento con gli altri comparti per la difesa comune di alcune
garanzie essenziali, in questo momento particolare caratterizzato
dall'attacco alle più elementari libertà dei lavoratori, era
avvertita già da tempo dall'ala più sensibile del movimento e
costituisce quindi una conquista determinante, sulla via della
costruzione di un progetto più complessivo d'intervento nel mondo
del lavoro e nella società. Sono state così sconfitte le eccessive
remore di coloro che temevano sopra ogni cosa la nascita di un
cosiddetto "Intercobas"; s'è avviato invece un processo non
di unificazione appiattente, bensì di coordinamento nel rispetto di
specificità e differenze. La stessa assemblea
nazionale ha però sancito, senza particolari traumi, una stretta
organizzata asfissiante, con buona pace dei "movimentisti"
della prima ora che l'hanno approvata senza colpo ferire quando, fino
a qualche mese or sono, facevano fuoco e fiamme contro ogni nuova
ipotesi di strutturazione. Una Commissione esecutiva Nazionale
composta di 20 delegati sorge sulle ceneri della commissione Tecnica
Nazionale, dove erano previsti 2 rappresentanti per ogni provincia,
ed avocherà a sé tutte le funzioni, comprese le eventuali
trattative contrattuali, sinora demandate a portavoce eletti di volta
in volta dalla stessa assemblea nazionale. I membri del "direttorio",
destinati a rimanere in carica per 3 mesi con la possibile
turnazione di un solo quarto di essi, costituiranno anche la
redazione nazionale degli organi di stampa del movimento. Inutile
dire che la cosa è assai limitativa. Basti pensare che lo stesso
Gigliotti, che passa per un "accentratore", si è espresso,
nel corso del colloquio avuto con lui per questo servizio, a favore
di una imposizione eterogenea dell'organismo preposto alla gestione
della stampa, onde poter garantire il dibattito complessivo, senza
mortificare nessuna posizione ed in modo da tener conto delle
"minoranze". I delegati restano, in linea teorica, sempre e
comunque "revocabili in ogni momento", però il principio
della permanenza effettiva, che sostituisce quello del rinnovo
automatico delle "cariche" ad ogni assise, è di piombo, in
particolare per quanto riguarda l'espletamento delle funzioni più
importanti, le quali esulano dal carattere meramente tecnico per
assumere giocoforza connotazioni squisitamente politiche. Si tenga
inoltre presente che non sono state stabilite scadenze precise per la
convocazione delle assemblee nazionali ed i meccanismi che possono
garantire a questa o quella provincia, alle minoranze, alla base
stessa, eventuali convocazioni straordinarie. La necessità di
una organizzazione strutturata, atta ad impedire però anche fenomeni
di autolegittimazione, è un'esigenza avvertita da tutti. La strada
intrapresa privilegia, al contrario, il rapporto tra il movimento e
l'esterno, tenendo conto solo in modo marginale della dialettica
interna. In tal senso le strutture organizzate, oltre ad essere il
portato di una crescita reale, dovrebbero assolvere anche una
funzione di stimolo, agendo da volano per l'allargamento
dell'aggregazione stessa. È questa la carenza principale della forma
organizzativa sancita dall'assemblea. Lo stato del movimento è
critico, da questo punto di vista. Rischi di una sterzata autoritaria
esistono concretamente: alcuni delegati, nella stessa data, sono
arrivati addirittura a proporre di stendere nella prossima assemblea
nazionale, in via definitiva, la famosa piattaforma, in seguito non
più suscettibile di modifiche. Se anche tale proposito non ha avuto
seguito, resta comunque il fatto che la smania di concludere - non si
capisce bene il perché, visto che c'è tempo fino al giugno '88 - si
è impadronita di tutti. Il referendum
previsto per la verifica delle linee generali che usciranno dal
prossimo incontro generale dei CdB della scuola è un'occasione da
non perdere per ristabilire in modo corretto i termini della
questione, onde ridare fiato ad un dibattito che rischia di venire
strozzato.
La vera partita
L'impressione che
parecchi mirino a costruire un apparato decisionale accentrato rimane
e va rafforzandosi di giorno in giorno. Tale tendenza, ben oltre le
differenti posizioni, accomuna gruppi di pressione e microorganismi
politici, che al di là dello spazio occupato nel movimento, sono
convinti di poter arrivare così, in un prossimo futuro, a gestire il
movimento stesso a mo' di partito. Del resto
l'illusione di voler costruire il contenitore (organizzazione) prima
del contenuto, rimane ben viva. Una logica simile, mutatis mutandis,
si era già imposta a settembre a Roma quando, presenti un ristretto
numero di scuole (circa 40) è stato ratificato dall'assemblea
provinciale un livello di formalizzazione che richiede ad ogni
aderente dei singoli CdB il versamento di L. 10.000. Questo modo di
fare, al di là dei contenuti, ha finito incontrovertibilmente con
l'allontanare diverse scuole, attive sino a giugno, ed ha creato
un'ulteriore spaccatura tra i lavoratori della scuola. La cosa
maggiormente da stigmatizzare è appunto il modo col quale la
decisione è stata veicolata, approfittando della scarsa
partecipazione, facilmente prevedibile alla ripresa dell'anno
scolastico. Se la logica era
quella di garantire una "dirigenza politica" al movimento,
la pratica non è stata delle più felici. Se l'intenzione era invece
di "guidare" il movimento oltre le secche del
"corporativismo", bisogna dire che ha portato a risultati
opposti, tanto che la radicalizzazione dello "scontro" non ha
fatto che favorire la fossilizzazione, nella sclerosi del "muro
contro muro". A trarne vantaggio è stato, per un certo periodo,
chi era convinto di avere già "la soluzione" in tasca ed
andava propagandando di scuola in scuola la sua "piattaforma"
beneficiando del vuoto propositivo prodotto dalla cristallizzazione
di un confronto fermo quasi unicamente alla questione organizzativa. La vera partita da
farsi è con la controparte: le polemiche dietro le quinte e la stasi
di un movimento ripiegato su se stesso non possono che allontanare
sempre più il conseguimento degli obiettivi dei CdB.
COBAS scuola / Appunti di storia
Il Movimento dei Cdb della scuola nasce, quasi in sordina, nel giugno 1986, ma riesce ad aggregare consistenti fasce di lavoratori del settore già a partire dalle iniziative di dibattito e di mobilitazione dell'autunno dello stesso anno. Viene individuata, da subito, una serie di obiettivi, che pur se privi di una effettiva articolazione, lasciano intravedere una "filosofia" più complessiva. Si arriva così alla stesura della piattaforma del liceo Mamiani (Roma, dicembre 1986) che, elaborata collettivamente, vede i suoi punti più qualificanti nella richiesta di un recupero salariale di 400.000 lire nette uguali per tutti, di una riduzione del numero massimo di alunni per classe, della soluzione definitiva del problema del precariato e nel rifiuto della legge-quadro. Partono all'inizio dell''87 le Commissioni di lavoro aperte, con il compito di approfondire alcuni aspetti in ordine ai contenuti e alle questioni tecniche, mentre si impone la necessità di dotarsi di strumenti organizzativi più strutturati. Si propongono come guida le realtà locali di maggior peso, che deriva loro non solo dalla più ampia estensione, ma anche dall'aver proseguito nella lotta del blocco degli scrutini del I quadrimestre, mentre realtà locali più deboli avevano già sbloccato il 7 marzo. L'assemblea nazionale di Napoli (22 marzo 1987) definisce l'"organigramma": è prevista, sul modello di Roma, la costituzione dell'assemblea provinciale per delegati - mentre fino ad allora era data a tutti facoltà di parola e di voto - e la formazione di vari organismi (Commissione Tecnica Nazionale, Commissione ATA, Precari, ecc.). Il dibattito si attesta su queste posizioni, mentre i livelli di aggregazione continuano a salire, fino a giungere al culmine con la manifestazione nazionale del 25 maggio scorso a Roma, che vede la partecipazione di più di 50.000 lavoratori. In quel momento l'agitazione si estende a più della metà del corpo insegnante del Paese.
Dopo le avvisaglie di una campagna repressiva, tesa ad intimorire il Movimento, la perdurante attenzione della stampa e la massiccia mobilitazione, insieme alla crescente preoccupazione del Governo (si avvicina la convocazione degli scrutini finali, mentre alcune scuole attuano ancora il blocco per il primo quadrimestre) aprono la via all'incontro tra i rappresentanti dei Cdb e Fanfani (presidente del consiglio "a termine"), perdurando l'ostinazione del ministro Falcucci nell'ignorare le rivendicazioni dei lavoratori della scuola. Nel frattempo i sindacati, mentre invocano la precettazione in modo vergognoso, si propongono d'altra parte come mediatori nei confronti di un Movimento che li aveva già completamente delegittimati. Parallelamente, al momento della trattativa, si registrano le prime gravi divisioni all'interno dei Cdb.
All'accusa di gestire in modo poco limpido i rapporti con la controparte, puntando al ribasso, i "portavoce" si difendono, appellandosi alla specificità della contingenza politica e argomentando con la stanchezza della categoria, ormai esaurita da mesi di lotte, e con la non-praticabilità degli obiettivi. Di fronte a tante polemiche e al riaffiorare di certe "pratiche politiche" che strozzano il dibattito in assemblea, l'entusiasmo viene a scemare e di fatto l'unica "conquista" del Movimento sarà il decreto Fanfani. L'intervento legislativo, le cui concessioni erano già contenute negli accordi a latere del contratto siglato da CGIL, CISL, UIL e SNALS, non varrà comunque a scongiurare la proclamazione del blocco degli scrutini di fine d'anno. Il resto è storia recente.
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