Rivista Anarchica Online
Il pelo, non il vizio
di Carlo Oliva
Tra i tanti fantasmi che s'aggirano,
un po' spaesati, nel nostro gramo panorama ideologico, uno dei più
flessibili, probabilmente, è quello della cosiddetta "Dottrina
Sociale della Chiesa" (cattolica). Enciclica dopo enciclica,
enunciazione dopo enunciazione, dalla Rerum Novarum alla
Quadragesimo Anno, dalla Populorum Progressio alla
recente Sollicitudo Rei Socialis di papa Wojtyla, le
formulazioni che i pontefici e i loro collaboratori hanno saputo
esprimere in merito non sono mai riuscite ad emozionare nessuno. La cosa, del resto, è
abbastanza normale. Attraverso quei tipici documenti ufficiali che
sono le encicliche, la chiesa parla come istituzione tra le
istituzioni, come entità terrena solidamente radicata in una
rete di interessi e di equilibri che il suo ceto di governo, dal papa
in giù, non ha alcuna propensione a turbare. Deve dar voce
agli umili e tenere in conto i potenti, perché del consenso e
della non ostilità di entrambi si alimenta. Non è detto, naturalmente, che
un cattolico debba essere moderato per definizione. Può
benissimo essere progressista, o reazionario, magari a prezzo di
qualche contraddizione ideologica, che qui non ci può
interessare. Parlo di singoli, o di gruppi: non della chiesa nel suo
complesso, la cui posizione, su queste colonne, si può
ovviamente dare per scontata. Ma supponiamo tutti che da un documento
ufficiale non ci potremo aspettare che moderazione, e le
argomentazioni ispirate al principio dell'aurea mediocritas,
del colpo al cerchio e di quello alla botte, per quanti pregi possano
avere, restano irrimediabilmente noiose. Difatti, non si può certo dire
che il papa non faccia notizia, ma appena un mese dopo la
pubblicazione dell'ultimo dei documenti che ho citato, il coro dei
commenti e delle lodi, delle pacate critiche e delle analisi
incensatorie, si è già spento. È difficile
sfuggire alla impressione che non sarà certo il ricordo della
Sollicitudo Rei Socialis a segnare il posto che questo
pontificato avrà, se lo avrà, nella storia. Altre
saranno (e sono) le sue glorie e, dal nostro punto di vista, le sue
infamie. Che cosa dice, in definitiva, Sua
Santità? Nelle parti I e II, che il documento dedicato al
problema dal suo venerato predecessore era proprio bello (e
difficilmente avrebbe potuto dire che era una boiata pazzesca). Nella
parte III si spiega che, peraltro, il contesto di oggi non è
lo stesso di allora (tò!), che esiste ancora, e s'è
allargato, il fossato tra il Nord sviluppato e il Sud in via di
sviluppo e che alle differenze dei sistemi economici si sommano
quelle dei valori culturali, per cui il problema è proprio
grave. I popoli del sud , anzi sono afflitti da analfabetismo, da
"incapacità di partecipare alla costruzione della propria
Nazione" (?), da diverse forme di sfruttamento e da
discriminazioni di ogni tipo , tra cui odiosissima quella razziale.
Slalom dell'ovvietà
Giusto, certo, ma questo era per il
cerchio. Adesso tocca alla botte: non dimentichiamo che "nel
mondo di oggi tra gli altri diritti viene spesso soffocato il diritto
di iniziativa economica", il che, in nome di una pretesa
eguaglianza, produce un dannoso livellamento verso il basso. Nessun
gruppo sociale, "per esempio un partito" ha diritto di
usurpare il ruolo di guida unica, e le forme di povertà sono
molte e diverse, e il divieto di costituire un sindacato impoverisce
la persona umana "altrettanto se non maggiormente dalla
privazione dei beni materiali". Ancora una volta, niente da eccepire:
figuriamoci. Tanto più che il tutto (tocca di nuovo al
cerchio) va addebitato alla responsabilità delle Nazioni da
sviluppare e all'esistenza di "meccanismi economici, finanziari
e sociali, i quali, azionati dai paesi più sviluppati,
favoriscono gli interessi di chi li manovra e rendono più
rigide le situazioni di ricchezza degli uni e di povertà degli
altri". E neanche al Nord le cose vanno benissimo: disoccupazione,
crisi degli alloggi, eccetera. A livello mondiale, poi, (cerchio e
botte insieme), ci sono due blocchi contrapposti, ciascuno dei quali
"nasconde dentro di sé a suo modo la tendenza
all'imperialismo, come si dice comunemente". Onde produzione di
armi e commercio delle medesime, "il pericolo tremendo,
universalmente riconosciuto, rappresentato dalle armi atomiche",
milioni e milioni di rifugiati, la piaga del terrorismo, e guai
ancora peggiori, se pure non correlati, quali la caduta del tasso di
natalità e le campagne antidemografiche. Per fortuna che è
dovunque più viva la preoccupazione del rispetto dei diritti
umani, con la preoccupazione concomitante per la pace, e la
consapevolezza dei limiti delle risorse disponibili e la necessità
di rispettare l'integrità e i ritmi della natura. Insomma, una specie di slalom
dell'ovvietà, verso un traguardo altrettanto ovvio,
l'affermazione per cui l'autentico sviluppo umano, che non è
né sottosviluppo né supersviluppo, non si riduce ai
dati economici, ma va misurato secondo "il parametro interiore
della natura specifica dell'uomo", sulla quale, come sappiamo,
il papa ha le sue brave opinioni, e che comporta una dimensione
morale (parte IV) e la connessa indicazione operativa per cui "una
lettura teologica dei problemi moderni" suggerisce lo strumento
e l'impegno della solidarietà (parte V). Che è appunto
da sempre lo strumento ideologico mediante il quale la chiesa cerca
di esorcizzare lo spettro della lotta di classe, e, più in
generale, della rivoluzione, obiettivo in nome del quale non
risparmia ai potenti gli inviti a una certa moderazione, senza
formalizzarsi troppo se non li vede accolti praticamente mai.
Acritico conformismo
Di fronte a testi del genere si resta,
di solito, un filino imbarazzati. Si ha l'impressione che sottoporli
ad una adeguata analisi distruttiva sia un atto, in un certo senso,
indecoroso, degno di un maramaldo. Facile, troppo facile, sarebbe
denunciare il semplicismo delle singole tesi e proposizioni, e ancora
più facile sarebbe negarne la buona fede, appellandosi alla
storia della chiesa e a quella del suo attuale pastore,
rinfacciandogli, per dirne un paio, le benedizioni a Pinochet o la
facilità con cui giunge sempre a qualche accomodamento con i
regimi che più la sua stessa storia personale dovrebbe
spingerlo ad aborrire. Ma perché, in fondo? Chi, come me, ha pratica di
insegnamento tende a vedere nella "lettera enciclica"
l'equivalente, con le ovvie differenze formali e quantitative, di
quei temi di "cultura generale" sui problemi del nostro
tempo, cui s'aggrappano con sicuro istinto gli studenti desiderosi
d'evitare le analisi del canto tale della "Divina Commedia"
o quelle del rapporto tra la poesia del Foscolo e la Rivoluzione
Francese. Come in quelli, ogni frase è accettabile in sé,
e ogni affermazione andrebbe in sé rifiutata, in quanto
espressione di una insopportabile communis opinio,
manifestazione di acritico conformismo, al di là (o al di qua)
dei più lodevoli contenuti. Chi può negare che la pace
sia preferibile alla guerra, che la natura va rispettata, che i
diritti civili sono fondamentali per tutti? E chi non si irrita
vedendo tali affermazioni, su cui l'umanità ha speso tanta
parte di sé, ridotte a luoghi comuni? In realtà, questi testi
vogliono essere documenti politici, ma non hanno la caratteristica
essenziale di un documento politico, quella che lo può rendere
uno strumento utilizzabile nella battaglia delle idee. Non hanno la
capacità di schierarsi, non permettono di schierarsi. Nella
Sollecitudo Rei Socialis ce n'è per
tutti: potranno attingervi, e citarla, tutti, da Reagan a Gorbaciov,
dai neo liberisti ai teologi della rivoluzione. Il che non significa
che la chiesa cattolica non sappia e voglia schierarsi, che non sia
di fatto schierata, dalla parte che ben sappiamo. Significa che non
intende dichiararlo in un documento ufficiale. Ma questa è
storia vecchia.
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