Rivista Anarchica Online
Al di là degli slogan
di Arturo Schwarz
Ancora una volta utilizziamo il
titolo "Al di là degli slogan" per un intervento
sulla questione medio-orientale. Dopo la presa di posizione
redazionale ("A" 152) ed il saggio di Gianfranco Bertoli
("A" 153), è ora la volta di Arturo Schwarz. Che,
tra l'altro, passa in rassegna l'atteggiamento, le politiche e le
stragi attuate dai regimi arabi contro i loro "fratelli"
palestinesi. E demistifica la retorica "laica" e
"progressista" tanto sbandierata dall'OLP.
Giorno dopo giorno, si allunga la
lista dei palestinesi - perlopiù giovani e ragazzi -
assassinati dall' esercito israeliano nei territori occupati. I
mass-media, ai quali è peraltro impedito di svolgere la loro
attività di documentazione in tutti gli altri paesi (arabi)
della regione, hanno proposto all'opinione pubblica internazionale
scene di una brutalità sconvolgente. Ancora una volta,
chiunque si fosse illuso sulla possibile esistenza di eserciti
"diversi", ha dovuto rendersi conto che la frase da noi
spesso ripetuta - "L'uomo finisce dove comincia il soldato"
- non è la solita frase fatta. Che siano "al servizio"
di stati democratici o di dittature medioevali, di "liberazione
nazionale", "rivoluzionari", "proletari" o
che altro, gli eserciti sono - e non possono che essere - strumenti
di morte, di guerra, di repressione. Nella loro struttura interna e
nelle loro finalità, nei "valori" che incarnano e
nelle conseguenze che provocano, non possono differenziarsi tra loro
più di tanto. Proseguendo l'approfondimento
storico e la riflessione sulla situazione medio-orientale (iniziati
sul numero di febbraio con il redazionale "Al di là degli
slogan" e proseguiti sullo scorso numero con il saggio di
Gianfranco Bertoli ed il botta/risposta tra Maurizio Strini e
Patrizio Biagi), proponiamo ora il testo dell'intervento di Arturo
Schwarz nel corso del dibattito sulla questione medio-orientale
tenutosi il 22 febbraio scorso presso il Circolo anarchico "Ponte
della Ghisolfa" di Milano. Nato in Egitto nel 1924 da famiglia
ebrea, Schwarz è stato tra i promotori della costituzione
della sezione egiziana (clandestina) della Quarta Internazionale
(trotzkista). Arrestato, ha conosciuto il carcere ed il campo di
concentramento. Nel '49 si trasferisce in Israele e vive dall'interno
l'esperienza dei kibbutz. Trasferitosi successivamente a Milano,
stringe numerosissimi rapporti con esponenti dei movimenti artistici
d'avanguardia, di cui diventa uno dei principali editori e storici.
Negli anni '50 dà vita alla casa editrice Schwarz (che
pubblica tra l'altro Fascismo e gran capitale di
Daniel Guerin). Membro, negli anni '60, di varie
organizzazioni anti-imperialiste (Comitato Vietnam - Sezione italiana
del Tribunale Russell, segretario del Comitato di solidarietà
militante con i popoli in lotta contro l'imperialismo, ecc.), è
stato nel '68 uno dei delegati italiani al Congresso Culturale
dell'Avana. Tra il '68 ed il '72 ha curato la pubblicazione della
rivista Quaderni del Medio Oriente,
cui hanno collaborato esponenti della sinistra israeliana (Matzpen) e
palestinese (Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina). Candidato nelle liste elettorali
del PSIUP (1963) e del Partito Radicale (1972) - allora si definiva
"marxiano-libertario" - Schwarz, da un quindicennio è
"approdato" all'anarchismo.
Vorrei esporre alcuni fatti e
circostanze - anche di carattere autobiografico - per tentare di dare
un quadro più articolato di una situazione estremamente
complessa che si presta facilmente alla teorizzazione di soluzioni
"ideali". Nell'epoca storica che viviamo - dominata da una
recrudescenza di fanatismo religioso e di sciovinismo - tali
"soluzioni" si riveleranno, alla prova dei fatti, del tutto
inattuabili. Non ho l'intenzione di difendere una
tesi. Sono parte in causa, nonostante il mio desiderio di essere
obiettivo, la mia visione della realtà mediorientale non può
beneficiare del distacco emotivo che s'impone per evitare un
coinvolgimento sentimentale e un giudizio parziale. Inoltre, la mia
valutazione della realtà quotidiana vissuta dagli abitanti di
Israele e dei territori occupati, è viziata in partenza
dall'impossibilità di raffigurarmi tutti i suoi aspetti. Come vive un israeliano che subisce da
quarant'anni la minaccia di genocidio proclamata apertamente e
costantemente? Come reagisce alle violenze terroristiche che, dal
1921 (questa data segna l'inizio dei primi pogrom fomentati da
Amin El Hussein(1), gran Mufti pronazista di Gerusalemme negli anni
Venti e Trenta) continuano a colpire, anche in Israele, donne,
bambini, anziani, colpevoli soltanto di essere nati ebrei? E qual è
lo stato d'animo di un popolo costretto a vivere da rifugiati o da
esiliati sulla propria terra? È arduo calarsi in una realtà
non vissuta in prima persona. Guardiamoci anche da una visione
manicheista della questione. Siamo al centro di una gigantesca
operazione di lavaggio del cervello che propone un'Israele gendarme
dell'occidente e lunga mano dell'imperialismo yankee
confrontato da una massa di rifugiati diseredati che lotta per la
libertà. La realtà è molto più complessa
e anche assai più semplice. Più complessa non soltanto
perché subentrano sentimenti irrazionali, quali l'integralismo
islamico o il massimalismo ebraico, ma anche perché arabi e
israeliani, volenti o nolenti, sono parte di un contesto geopolitico
più grande di loro, che vede competere sinistramente gli
interessi degli imperi statunitense e sovietico, e le ambizioni di un
nazionalismo arabo sunnita che si scontra contro quello
dell'espansionismo sciita. Più semplice perché la
via d'uscita all'attuale situazione di stallo è ovvia quanto
ineluttabile, e presto o tardi s'imporrà: Israele deve
ritirarsi dai territori occupati e agli arabi palestinesi deve essere
consentito di esercitare liberamente il diritto
all'autodeterminazione. Dopo l'evacuazione di Gaza e della
Cisgiordania toccherà agli abitanti decidere la forma dello
stato: totalmente indipendente o federato alla Giordania o altro
ancora. L'antisemitismo, di destra come di
sinistra, di origine laica o religiosa, ha trovato nella situazione
attuale un'occasione ideale per rilanciare le accuse più
ripugnanti, ed è nostro compito combattere anche l'incitamento
all'odio razziale che si avvale pure di una confusione semantica
sapientemente coltivata. La propaganda antisemita non fa distinzione
tra ebreo o israelita e israeliano o sionista. Inoltre, riversa
sull'israeliano le colpe del proprio governo.
Lo stato d'Israele uno stato
Io sono nato da genitori ebrei, e mi
considero ebreo anche se sono ateo, e se, dal punto di vista
culturale, mi sento debitore di un cinese (Lao Tze), di un greco
(Eraclito), di un ebreo olandese cacciato dalla propria comunità
(Spinoza), di un russo (Bakunin), di uno svizzero (Jung), di un
francese (Breton). Inoltre non sono sionista perché sono
contro ogni motivazione teocratica o razziale. Del resto, sentirsi
parte del popolo ebraico senza condividerne la religione o le
aspirazioni nazionalistiche, è una condizione largamente
diffusa tra noi. Lo stato ebraico non è diverso
da qualsiasi altro stato e i suoi governanti non sono migliori di
altri. È fare nuovamente prova di razzismo pretendere che essi
si comportino diversamente da come l'URSS si comporta in Afganistan o
in Armenia, l'Inghilterra in Irlanda, gli Stati Uniti in America
latina; oppure, nei propri territori, l'Africa del Sud, l'India, la
Cina, il Giappone, l'Egitto, la Siria, il Libano, la Giordania, la
Turchia, l'Iraq, l'Iran ecc. ecc. Eppure, soltanto gli ebrei e gli
israeliani sono condannati per le colpe del governo israeliano,
nonostante le più imponenti manifestazioni di protesta che ci
siano state contro i massacri di palestinesi ad opera dei loro
"fratelli" arabi si siano svolte proprio in Israele
(400.000 ebrei manifestarono a Tel Aviv per protestare contro il
massacro, ad opera dei falangisti, dei palestinesi nei campi di Sabra
e Chatila); nonostante le condanne più dure della politica dei
propri governanti partano proprio dagli israeliani. In quanto anarchici sappiamo meglio di
chiunque come lo stato sia il braccio armato di una classe sociale
che per difendere i propri interessi non esita a fomentare guerre e a
esercitare quotidianamente la violenza e la sopraffazione. Proprio
noi dovremmo aspettarci dallo stato ebraico un atteggiamento in
contraddizione con la sua stessa natura? Mi si consenta ora di passare da
considerazioni di natura più generale a ricordi e esperienze
di carattere privato che possono chiarire quali sono, nella loro
cruda realtà, i reali rapporti tra ebrei e musulmani. Sono nato in Egitto dove ho abitato
per 25 anni, sino all'aprile del 1949 e parlo quindi di esperienze
vissute in prima persona. Non è vero che tra musulmani e ebrei
ci siano sentimenti di tolleranza e tanto meno di benevolenza. Diciamo le cose come stanno, e senza
giri di parole. I musulmani provano per gli ebrei (e per tutti gli
"infedeli" e le minoranze etniche come copti, drusi, bahai,
curdi, ecc.) soltanto odio e disprezzo. Quando è possibile, il
ricorso alla guerra santa (la gihad) ancora oggi è la
conseguenza naturale della loro fondamentale intolleranza(2). In Egitto sono stato tra i fondatori,
nel 1944, della sezione egiziana della Quarta Internazionale. Fui
arrestato più volte e passai quasi un anno nel campo di
concentramento di Abukir. Gli unici compagni con cui ho potuto
fraternizzare, sia in prigione, sia a Abukir, sono stati i copti. I
"compagni" musulmani, nonostante militassimo nella stessa
organizzazione, ci escludevano dalle mini-comuni che si erano formate
nel campo per meglio sopravvivere. Nel 1968, fui uno dei delegati
italiani al congresso culturale dell'Avana. Nell'aereo che ci portava
da Madrid a Cuba, un delegato siriano cominciò un lavoro di
auto-propaganda, poiché ambiva alla presidenza di una delle
commissioni. Arrivato alla mia fila, iniziò un cordialissimo
colloquio; a un certo punto gli dissi che avevamo molte affinità
essendo entrambi nati nel Medioriente, e precisavo di essere ebreo.
Il volto del siriano tradì un sentimento di intenso odio e
ribrezzo. Senza aggiungere una sola parola, si allontanò
immediatamente troncando di netto il discorso iniziato. Il disprezzo dei musulmani per gli
ebrei ebbe modo di manifestarsi in forme particolarmente
raccapriccianti. Qualche anno fa, tre fedayn di Al Fatah furono
condannati a morte da un loro tribunale per avere stuprato una
ragazza araba. La sentenza stabilì che fossero sotterrati nel
cimitero ebraico. Le pietre tombali dei cimiteri ebraici del Monte
degli Ulivi furono utilizzate a suo tempo dai giordani per la
costruzione di latrine nella Gerusalemme araba.
Gli stati arabi contro i
palestinesi
L'OLP pretende di volere uno stato
laico e democratico dove arabi e ebrei potrebbero vivere in pace.
Vediamo, alla luce dell'esperienza di questi ultimi vent'anni, quanto
sia sincero questo proposito. Cominciamo a chiederci perché in
Libano, in Siria, in Giordania e in Egitto, i palestinesi sono
riusciti soltanto a farsi odiare dalle popolazioni ospitanti, tanto
che "l'antipalestinesimo a livello di popolazione è
diventato viscerale" (L. George, Le Monde, 6-7 marzo
1988). La verità è che in Egitto e in Siria i
palestinesi si sono alleati con gli elementi più reazionari, i
Fratelli musulmani, nel tentativo di rovesciare il regime che li
aveva accolti, mentre in Libano e in Giordania hanno tentato di
creare uno stato nello stato, imponendo tasse e esazioni di ogni
genere, trattando da sudditi conquistati i loro ospiti, e imponendo
loro ogni tipo di sopraffazione. Il risultato è che in Libano,
prima i cristiani falangisti, poi i musulmani sciiti e persino i
sunniti, infine i drusi, si sono ribellati ed è iniziata la
guerra dei campi, non ancora conclusa, con i relativi massacri
periodici. I 32 mesi di assedio dei campi palestinesi ad opera delle
milizie Amal (espressione delle classi arabe più povere) hanno
provocato 2500 morti, oltre 7500 feriti e la sparizione del campo di
Sabra (8000 abitanti). (Le Monde, febbraio 1988). In Siria e in Giordania, stati più
forti del Libano lacerato da conflitti interconfessionali, la
soluzione è stata più rapida e sbrigativa. Assad ha
espulso i palestinesi verso il Libano. Nel settembre del 1970, per
ostacolare i progetti egemonici dei palestinesi, Hussein ha scagliato
contro di loro le sue legioni beduine, massacrando 3400 quadri. In
Egitto è stata decretata la chiusura di tutti gli uffici
dell'OLP e i funzionari e i civili palestinesi sono stati espulsi
verso la Libia e altri paesi arabi. Non dimentichiamo che gli stati arabi
hanno una parte enorme di responsabilità nella creazione del
problema dei rifugiati, perpetuato per servire da arma contro
Israele(3). Questo l'appello diffuso da Radio Cairo il 16 maggio
1948: "Fratelli arabi di Palestina! I nostri sette eserciti
libereranno in qualche giorno il territorio sacro profanato dalle
bande criminali atee. Affinché gli ebrei, mille volte
maledetti da Allah, non si vendichino vigliaccamente contro di voi
prima del loro annichilimento totale, vi invitiamo a essere i nostri
ospiti. Gli arabi vi aprono i loro focolari e i loro cuori. Vinceremo
gli infedeli! Schiacceremo le vipere!". Sappiamo come la promessa di
accogliere fraternamente gli esuli palestinesi sia stata mantenuta. I
campi d'internamento di Gaza furono creati dagli egiziani. Gaza era
considerata territorio occupato. Il governatore militare dipendeva
dal Ministro della guerra e aveva diritto di veto. Non fu mai
permesso agli abitanti di prendere parte alla vita politica egiziana.
Nel 1962 e 1963, tra i rifugiati esasperati dal regime di occupazione
egiziano, apparvero dei manifesti che chiedevano di "cacciare i
tiranni faraonici che ci affamano e ci opprimono". Oggi in Giordania la situazione non è
migliore. Nel campo di Bakaa sopravvivono precariamente oltre 200.000
palestinesi in condizioni catastrofiche e senza alcuna prospettiva di
miglioramento. Le baracche, senza acqua corrente, sono di terra
battuta e a un solo piano perché viene negato il diritto di
costruire case di mattoni. Il risultato è che le abitazioni
sono immerse nel fango durante la stagione delle piogge, sono gelide
d'inverno, e forni d'estate(4). Non si creda che l'atteggiamento
aggressivo e intollerante dei palestinesi sia una loro caratteristica
peculiare. Essi si adeguano al modo di esistere di tutti gli altri
stati musulmani in Africa, come in Asia. Vorrei ricordare alcuni
esempi tra i più clamorosi. Il fanatismo islamico raggiunge la sua
espressione più compiuta con Khomeiny che da anni continua una
guerra costata ai contendenti milioni di morti. L'Iran manda al
macello anche bambini di otto anni, massacra le minoranze etniche (i
curdi), politiche (la sinistra laica) e religiose, i bahai.
Ricordiamo che i bahai credono nell'unità della razza umana,
nell'eguaglianza dell'uomo e della donna e nella necessità di
rendere l'educazione obbligatoria e accessibile a tutti. La fede
bahai è di carattere sincretico e s'ispira alla Torah ebraica,
al Nuovo Testamento, al Corano e alla Bhagavad Gîtà. In Indonesia, il massacro dei
militanti del maggiore partito comunista dell'Asia è
cominciato con l'incitamento all'odio contro le minoranze cinesi,
parola d'ordine del Partito dei Fratelli musulmani (Parti Nachtadue
Uluma Moslem). Col pretesto di una guerra santa condotta in nome
dell'Islam, il "Movimento del 30 Settembre" (Gestapu) di
Suharto-Nasution ha scatenato la repressione più feroce del
nostro tempo contro democratici e comunisti; in meno di un anno, il
genocidio delle minoranze etniche cinesi ha condotto al massacro di
circa un milione di militanti indonesiani. Nel Sudan, prima il governo di Hassan
Mahdjub poi quello attuale perseguita i cinque milioni di negri che
popolano le tre provincie meridionali del Sudan. Questi rifiutano il
processo di arabizzazione totale che viene loro imposto da Khartoum.
Da anni la lotta si è trasformata in lotta armata, le forze di
liberazione del Sudan del Sud, con il nome di Anya-Nya si battono
contro il governo di Khartoum. Il fronte di liberazione dell'Azande
(nome storico del Sudan del Sud) di cui l'Anya-Nya è l'ala
militare, accusa apertamente gli arabi di genocidio. Joseph Oduko,
primo presidente del Fronte di Liberazione dell'Azande, in una
intervista pubblicata nel numero del Nouvel Observateur del 27
dicembre 1967, ha dichiarato: "Gli arabi vogliono la terra, la
nostra terra, e per questo sono pronti a sterminarci. Essi sono
sostenuti da tutto il mondo arabo... mentre noi siamo soli... ognuno
sa che, per gli arabi, il negro del Sud è solo lo schiavo che
si uccide quando rifiuta di obbedire... Non c'è oggi una vera
democrazia in Africa. Il giorno in cui finalmente la parola sarà
data al popolo africano le cose cominceranno a cambiare: tra l'altro,
le frontiere attuali, che non corrispondono ad alcuna realtà
etnica, e che sono state imposte al seguito del colonialismo, saranno
rivedute e modificate e l'unità negra sarà più
facile da farsi". In Iraq, la politica razzista,
culminata nel genocidio delle popolazioni curde continua da decenni,
e malgrado tutti i cambiamenti di regime. Ricordiamo che questa
politica di genocidio è stata denunciata anche dall'Unione
Sovietica al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Per il
governo iracheno la lotta contro i curdi è un mezzo eccellente
per sviare l'attenzione delle masse dalla lotta di classe.
I rappresentanti del
Partito comunista iracheno hanno dichiarato, nell'aprile 1967, al 7°
Congresso del Partito socialista unitario a Berlino: "Migliaia
di comunisti e di progressisti sono in prigione e vengono torturati
nel corpo e nello spirito... I dirigenti attuali privano le forze
nazionali della loro libertà... I dirigenti sciovinisti non
hanno fatto nulla per risolvere il problema dei curdi... Hanno aperto
la porta ai capitali stranieri... I dirigenti dell'Iraq lanciano
slogan demagogici sulla solidarietà araba, la neutralità
positiva e la lotta contro l'imperialismo. Ma la loro è una
politica di compromesso con l'imperialismo e la reazione".
In Siria, con il pretesto della mobilitazione antiisraeliana le
minoranze etniche sono oppresse e perseguitate: nel Nord i curdi
fanno le spese della politica razzista siriana, mentre nel Sud le
fanno i drusi. Un episodio è sufficiente per illuminare la
natura del regime clerico-militare siriano prima di Al-Atassi e ora
di Assad (entrambi grandi proprietari terrieri), che si è
alienato l'appoggio delle masse operaie e contadine e che
rappresentano solo gli interessi della casta militare al potere.
Il 5 maggio 1967 il
comandante Aduan Hamman, direttore responsabile della rivista Djaysh
Al Sha'b, organo ufficiale dell'esercito, l'allievo ufficiale
Fatih Samani, coredattore capo, e l'allievo ufficiale Ibrahim Khalas,
autore di un articolo apparso in questa rivista il 25 aprile 1967,
sono arrestati e processati per la pubblicazione di un articolo di
Khalas il cui titolo è "Il modo per creare un uomo arabo
nuovo".
Khalas aveva scritto tra
l'altro "L'unica via per edificare la civiltà e la
società araba è quella di creare l'uomo socialista
arabo nuovo, convinto che Dio, le religioni, il feudalesimo, il
capitalismo, il colonialismo, i ricchi e tutti i valori che sono
prevalsi nella società precedente non sono che burattini
imbalsamati nel museo della storia". Evidentemente il razzismo
va di pari passo con il fanatismo religioso e la negazione dei valori
umanistici.
In Egitto, la crisi
arabo-israeliana serve da pretesto a Mubarak per continuare la
persecuzione di tutti gli elementi di sinistra, anche di quelli più
moderati, proseguendo così nella politica dei suoi
predecessori: Nasser, Neguib e Faruk; persecuzione che va di pari
passo con quella dei copti al Nord e dei nubiani al Sud. Lo sceicco
Hassan el Bakuri, già ministro dei Wakf, spiegava: "Se
affermiamo che gli arabi sono la migliore nazione proposta agli
uomini è perché si tratta di un fatto rivelato dal
Corano e di una verità enunciata nei suoi versetti". Per
quanto riguarda il clericalismo della casta militare al potere basta
ricordare che la Carta d'azione nazionale di Nasser esige dal
cittadino "Una fede incrollabile in Dio, nei Suoi profeti, nei
Suoi santi, che Egli ha inviato per guidare e portare la verità
agli uomini, in ogni tempo e in ogni luogo".
Marx aveva denunciato il
pericolo del panislamismo che si identifica con il pan-arabismo
quando scriveva: "Il Corano e la legislazione musulmana che ne
deriva riducono la geografia e l'etnologia a una distinzione comoda e
semplice tra due paesi e due nazioni, i fedeli e gli infedeli. La
nazione infedele è harbij, cioè nemica.
L'islamismo non riconosce il diritto alla esistenza alle nazioni
degli infedeli e postula uno stato di ostilità permanente tra
musulmani e non credenti"(5).
Ricordiamo che le
costituzioni di tutti gli stati arabi (con la sola eccezione di
quella libanese) proclamano l'Islam religione di stato: Algeria (art.
4), Egitto (art. 5), Giordania (art. 2), Iraq (art. 3), Kuwait (art.
2), Libia (art. 5), Marocco (art. 6), Siria (art. 3)(6). L'ultimo
Rapporto di Amnesty International per il 1987 dà ampi
ragguagli sulle persecuzioni e i massacri di oppositori politici e
delle minoranze etniche nei paesi arabi. Come in Indonesia,
l'islamismo serve da alibi per la persecuzione della sinistra
egiziana. Queste persecuzioni implacabili erano dirette, ai tempi di
Nasser (non conosco la situazione attuale), da ex-nazisti: il capo
della polizia politica egiziana, era l'ex SS Sturm Bahnführer
Seipel che ha preso il nome di Emmad Zuher, mentre alti funzionari
della Gestapo dirigevano i campi di concentramento dove furono
assassinati gli elementi migliori e più coraggiosi del popolo
egiziano: Willerman (che ha preso il nome di Nami Fahoum) dirigeva il
campo di concentramento di Samara. L'influenza dei nazisti nella
struttura del regime nasseriano è del resto enorme: i
movimenti giovanili erano diretti dalla SS Moser, ricercato dai
sovietici per crimini di guerra in Ucraina.
La sezione israeliana del
Ministero della Propaganda egiziana era diretta da vari nazisti
notori: Hans Applen (che ha assunto il nome di Salah Chaffar), Luis
Heiden (autore della traduzione araba del Mein Kampf,
best-seller nei paesi arabi), Erich Bunzel, Franz Bartel (El Hussein),
Wilhelm Bockler, e la SS Baumann che hanno partecipato entrambi allo
sterminio degli ebrei nel ghetto di Varsavia(7).
È
il caso di stupirsi se la propaganda araba e gli scopi della guerra
chiaramente dichiarati riprendevano senza alcuna modifica i temi e i
fini nazisti della "soluzione finale del problema ebraico"
preconizzata da Hitler? Le vignette che illustrano questo testo sono
eloquenti al riguardo.
Vorrei anche ricordare
alcune dichiarazioni significative per dare un'idea del clima di odio
alimentato dai governanti arabi.
Il 14 maggio 1948, in
conformità con la risoluzione delle Nazioni Unite, fu
proclamata l'indipendenza di Israele. Lo stesso giorno gli eserciti
dell'Egitto, Giordania, Siria, Iraq e Libano aggredirono il nuovo
stato. Azzam Pacha, segretario della Lega araba dichiarò:
"Sarà una guerra di sterminio e di massacri dei quali si
parlerà come dei massacri dei Crociati e dei Mongoli"
(citato dalla B.B.C. il 15 maggio 1948). Il Primo ministro iracheno a
Radio Baghdad il 15 maggio 1948: "Schiacceremo il paese con i
nostri fucili e distruggeremo ogni luogo dove gli ebrei cercheranno
rifugio". Il Rettore dell'Università Al-Azhar del Cairo
prometteva, prima ancora della dichiarazione d'indipendenza:
"Getteremo a mare le bande sioniste criminali, e non rimarrà
un solo ebreo in Palestina" (Radio Cairo, 18 e 24 marzo 1948).
Nel 1967, nei giorni che
precedettero immediatamente lo scoppio del secondo conflitto il tono
non è diverso: "L'ora "x" sarà fissata
per scatenare l'attacco contro il nemico per distruggerlo e
annientarlo... Già da oggi, il fronte occidentale della
Giordania è diventato un luogo di massacro per Israele"
(La voce degli arabi, Radio Cairo, 31 maggio).
Il presidente iracheno Aref
indirizzandosi ai piloti della base di Habbaniya: "Figli miei,
questo giorno è un giorno di vendetta e di lotta... Con
l'aiuto di dio ci ritroveremo tutti a Tel-Aviv e a Haifa" (citato da
Radio Baghdad, 1° giugno). Il quotidiano giordano Al-Kuds:
"La morsa d'acciaio che strangolerà lo Stato gangster si
è stretta" (31 maggio).
Le minacce di sterminio
sono esplicite: "Il popolo arabo è fermamente deciso a
cancellare Israele dalla faccia della terra e a restaurare l'onore
arabo in Palestina" (Radio Cairo, 25 maggio). Il ministro
siriano degli affari esteri dichiara: "Siamo pronti a prendere
l'iniziativa della liberazione stessa e a fare scoppiare l'esistenza
sionista aggressiva nella nostra patria araba" (citato da
Al-Thoura, quotidiano damasceno, 20 maggio). Re Hussein:
"Dobbiamo andare avanti nella via che porta alla cancellazione
della nostra vergogna e alla liberazione della Palestina" (Al
Khayat, quotidiano di Beirut, 2 giugno). Il presidente algerino
Bumedienne: "Fratelli, la libertà reale della patria
intera passa per la liquidazione dello stato dei sionisti"
(Radio Algeri, 4 giugno).
Nel quadro di questa
campagna non si esita a riesumare un famigerato falso antisemita
dell'Ottocento: "Israele è stato costituito per
realizzare il piano elaborato dai Savi di Sion nei loro famosi
Protocolli, nei quali essi diffondono il loro veleno e indicano le
direttive per eliminare la civiltà e rendere schiavi tutti i
popoli, soggiogandoli al popolo cosiddetto eletto da Dio. Questo
piano è diventato la costituzione del movimento sionista".
(Cairo Review, N°. 21, 22 luglio 1967)(8).
Quale confederazione per
quale pace? Nell'OLP, l'organizzazione
più progressista e più disponibile a un dialogo arabo
israeliano è il Fronte Democratico di Liberazione della
Palestina (FDLP) diretta da Nayef Hawatmeh. Vediamo quali sono le
prospettive offerte agli israeliani, senza soffermarci sul fatto che
il patto Nazionale palestinese del 1964 - tuttora vigente - prevede
la distruzione dello Stato d'Israele e l'espulsione di tutti gli
ebrei giuntivi dopo il 1948 (articoli 9, 19, 21, ecc. ). Posizione
ribadita da George Habbash che tra altre amenità, definisce
Israele "la bestia", "il tumore pericoloso" ecc.
nel corso di un'intervista a Antonio Ferrari (Corriere della
Sera, 27/2 e 8/3/1988).
Nel gennaio del 1970 in una
dichiarazione di Hawatmeh al quotidiano francese Le Monde si
accenna per la prima volta alla struttura del futuro stato
palestinese: "Bisognerà edificare uno stato veramente
democratico che farà parte di una grande federazione
socialista araba nella quale il potere, tutto il potere, sarà
esercitato dai consigli operai, dai consigli dei braccianti e dei
soldati. Poco importa la forma costituzionale di questo nuovo stato,
che potrà avere le strutture di una federazione o d'una
confederazione di tipo jugoslavo o cecoslovacco. L'essenziale, sarà
il suo contenuto sociale, la sua natura di classe, il tipo di
governo"(9). Un'intervista pubblicata quasi
contemporaneamente su AfricAsie, ridimensiona
considerevolmente la portata di questa dichiarazione. Vi si precisa
infatti che "il futuro stato sarà integrato in una
federazione o una confederazione araba (sull'esempio di quella
jugoslava o cecoslovacca)"(10). In altre parole, non sarà
lo stato palestinese ad avere una struttura federativa o
confederativa, ma sarà la Palestina araba che farà
parte di una più vasta federazione o confederazione che
riunirà tutti gli stati arabi della zona. Una dichiarazione posteriore
rilasciata da Hawatmeh a Edouard Saab, corrispondente libanese di Le
Monde, ripresenta la stessa formulazione ambigua: "Noi
rifiutiamo le soluzioni d'ispirazione sciovinista, proponiamo la
creazione in Palestina di uno stato democratico e popolare che
comprenderebbe arabi e ebrei nel quadro di un sistema socialista, con
il diritto per ciascuna comunità di conservare la propria
cultura e di operare per il suo sviluppo. La forma costituzionale del
nuovo stato non è un problema. Si potrà prendere in
esame il modello jugoslavo e l'esistenza di governi autonomi che però
dipendono tutti da un solo potere per quanto riguarda l'economia, la
sicurezza e la politica estera"(11). Se per "propria cultura"
s'intende "propria religione", come precisato dallo stesso
Hawatmeh nell'intervista a Fieneut citata prima, e se per "forma
costituzionale del nuovo stato" ci si riferisce a una federazione o
confederazione araba della quale dovrebbe fare parte una Palestina
araba e non binazionale, come chiarito da Hawatmeh a AfricAsie,
è chiaro che questa dichiarazione, così come tutte le
altre formulate con la stessa ambiguità di termini, viene
svuotata da ogni significato rivoluzionario. Questi dubbi vengono rafforzati dalla
lettura del Progetto di risoluzione presentato dal FDLP alla
Conferenza mondiale dei cristiani per la Palestina: "Domandare
ai rivoluzionari arabi di riconoscere il diritto
all'autodeterminazione del popolo israeliano significa rovesciare i
problemi e ignorare la specificità della questione
palestinese, cioè il fatto che la creazione, da parte degli
ebrei, di uno stato indipendente in Palestina (e diritto
all'autodeterminazione significa diritto alla separazione) viola il
diritto del popolo palestinese all'autodeterminazione"(12). La risposta a questa posizione è
data da un militante del Matzpen: "Noi chiediamo ai rivoluzionari
arabi di essere internazionalisti e di riconoscere il diritto
all'autodeterminazione della nazione ebraico-israeliana, perché
di nazione si tratta e non di comunità religiosa come pretende
Al Fatah nel suo programma. Non lo chiediamo per noi, ma
nell'interesse della rivoluzione. Le masse qui vivono pensando che
saranno sterminate e buttate a mare. Non puoi chiedere a una persona
che la pensa in questo modo di unirsi a una lotta rivoluzionaria se
non sa cosa gli succederà dopo la vittoria della rivoluzione.
Per mobilitarla bisogna dargli un'alternativa all'attuale situazione,
questa alternativa è l'autodeterminazione. Se dopo la
rivoluzione la gente vuole separarsi ne ha il diritto; se gli ebrei
preferiscono formare una entità a parte in un Medio oriente
socialista lo possono fare. Una cosa non possono fare: opprimere
un'altra nazione e realizzare i propri interessi a spese degli altri.
Questo non fa parte del diritto all'autodeterminazione. Non hanno
diritto allo stato d'Israele, fondato espellendo la popolazione
indigena"(13). L'atteggiamento massimalista anche della frazione
più avanzata dell'OLP, la mancanza di ogni prospettiva comune
e la minaccia di genocidio che ha pesato per anni sulla popolazione
israeliana fa il gioco della reazione e ha permesso di bloccare i
progressi dei movimenti di sinistra e di favorire la creazione di un
governo di unione nazionale che vede alleati l'estrema destra
dell'ex-terrorista Shamir e il leader laburista Peres. Il governo ha
dato un violento colpo di timone a destra e adottato una serie di
provvedimenti pro-capitalisti: congelamento dei salari,
incoraggiamento degli investimenti esteri, lotta contro i sindacati,
ecc.; contemporaneamente, i circoli sciovinisti annessionisti
rinforzano le loro posizioni, spalleggiati dai fanatici religiosi. La logica della storia impone la fine
dello sciovinismo e del razzismo, quindi il superamento dei
nazionalismi. Ma la logica della storia non è ineluttabile,
bisogna lottare per attuarla. Il razzismo, dividendo le masse
oppresse, le rende vulnerabili ai colpi della reazione e allontana
indefinitamente la prospettiva della rivoluzione socialista. Il
militante rivoluzionario deve dunque stare attento a non cadere nel
trabocchetto della reazione e denunciare in ogni occasione e senza
sosta tutti i tentativi di trasformare la lotta per l'emancipazione
dell'umanità in una lotta per l'asservimento razzista dei
popoli e delle minoranze etniche. La strada della liberazione dei popoli
non passa per la via dell'umiliazione razzista dei popoli. La libertà
è indivisibile e nessun popolo sarà libero se un solo
altro popolo - ovunque esso si trovi, qualunque esso sia - sarà
asservito. È chiaro che
non si potrà fare nessun passo avanti sulla via della
soluzione fin quando uno dei due protagonisti negherà
l'esistenza dell'altro; fin quando si confonderà l'identità
nazionale con quella confessionale. Questo reciproco riconoscimento,
chiaro e senza ambiguità, è di per sé un atto
rivoluzionario. Le difficoltà che si incontrano nell'ottenerlo
danno la misura dell'enormità delle responsabilità
storiche che incombono oggi sui due protagonisti di questo dramma.
Auguriamoci che nel loro stesso interesse, nell'interesse quindi
della rivoluzione, arabi ed ebrei potranno ritrovarsi sulla via della
fratellanza; una fratellanza cementata dalla lotta per una nuova
Israele e una nuova Palestina, socialiste, libertarie e felici.
(1) Per la collusione tra Amin El
Husseini e il regime nazista si veda Miriam Novitch: "Israel
doit étre anéanti", Presses du Temps Présent,
Paris s.d., pp. 132-143; per quella tra Gamal Abdel-Nasser e i
neo-nazisti, lo stesso testo: pp. 144:48.
(2) Sulla tragica sorte delle minoranze
etniche e religiose nei paesi arabi esiste una documentazione
sterminata, si veda anche Novitch, op. cit. pp. 172-178 e Jean
Goll: "Le mirage palestinien", C.I.D.,
Bruxelles 1969, pp. 17-20, 24-31.
(3) Sull'origine e lo sviluppo del
problema dei rifugiati si veda Novitch, op. cit., pp. 67-93.
(4) cfr. Véronique Maurus: "Avec
les Palestiniens de Jordanie dans le camp de réfugiés
de Bakaa", in Le Monde, 17 febbraio 1988.
(5) Marx: "War Declared/Musulman
and Christian" in New York Daily Tribune, n. 4054 (15-4-1854),
ripreso in Karl Marx/Friedrich Engels, Werke, Dietz Verlag,
Berlin 1961, vol. X, p. 170; trad. it. in La questione orientale,
L. Mongini, Roma 1903, p. 223.
(6) Peaslee: Constitutions of
Nations, Martinus Nijhoff, L'Aja 1965, vol. I, pp.
436, 562, 601, 991; Vol. II, pp. 474, 537, 1138.
(7) Per un'ampia documentazione sui
nazisti nell'amministrazione egiziana si veda Novitch, op. cit.,
pp. 109, 122-132.
(8) Sono centinaia le dichiarazioni
analoghe, per una scelta più ampia della mia, cfr. Novitch,
op. cit., pp. 59, 65, 69-72, 115-121, 161-67.
(9) Nayef Hawatmeh: "Per una
soluzione democratica ai problemi palestinesi e israeliano"
(Le Monde, 27-1-1970), in Quaderni del Medio Oriente, n. 7
(Maggio 1970), p. 39.
(10) Nayef Hawatmeh: "Per uno
Stato multirazziale in Palestina" (AfricAsie,
19-1/1-2-1970) in Quaderni del Medio Oriente, n. 7 (Maggio
1970), p. 37.
(11) Intervista di Nayef Hawatmeh a
Edouard Saab in Le Monde, 31-5/1-6-1970.
(12) Progetto di risoluzione
presentato dal FDLP alla Conferenza mondiale dei cristiani, Beirut,
1970, in Quaderni del Medio Oriente, n. 8 (Novembre 1970), p.
23.
(13) citato da Michele Sacerdoti in
"Diario israeliano", Quaderni del
Medio Oriente, n. 9 (Dicembre 1970), pp. 34-35.
L'altra Israele si fa sentire
Sul n. 30 (gennaio/febbraio 1988) del bollettino The Other Israel ("L'altra Israele"), organo del "Comitato israeliano per la pace israelo-palestinese", sono pubblicati - tra gli altri - i seguenti due documenti, che testimoniano dell'esistenza e della vivacità dell'opposizione alla politica del governo di Shamir-Peres.
Il primo documento, intitolato "Il vero istigatore" (in polemico riferimento alle tesi governative, secondo cui la rivolta palestinese sarebbe esclusivamente frutto di manovre dell'OLP), è costituito dalla risoluzione adottata il 16 dicembre scorso dal citato "Comitato israeliano per la pace israele-palestinese" (e pubblicata il 20 dicembre scorso sul quotidiano Ha'aretz).
Il secondo documento riproduce il testo della petizione, proposta dal movimento Yesh Gvul ("C'è un limite") e firmata da 160 riservisti (tra cui un maggiore ed alcuni capitani) dell'esercito israeliano. Il 5 gennaio di quest'anno è stato effettuato il primo arresto di questi riservisti obiettori: Ofer Kasiv, 23 anni, rifiutatosi di raggiungere il suo Corpo a Gaza, è stato subito condannato a 28 giorni. Il suo processo ha avuto una forte risonanza sui mass-media, provocando - tra l'altro - numerose nuove adesioni alla petizione dei 160.
Il 23 gennaio, poi, due enormi dimostrazioni contro la politica governativa nei territori occupati hanno avuto luogo a Tel Aviv (90.000 partecipanti) ed a Nazareth (35.000).
Ecco, nell'ordine, i due documenti.
Il vero istigatore
Il sangue dei giovani palestinesi che è versato quotidianamente nei territori occupati macchia le mani di tutti i ministri del governo d'Israele - di Yitzhak Rabin e di Yitzhak Shamir, di Shimon Peres e di Ariel Sharon. Questo governo di cosiddetta "Unità nazionale" è unito nel negare al popolo palestinese il diritto di vivere nel proprio stato sovrano ed indipendente.
Il regime di occupazione nella striscia di Gaza e in Cisgiordania è il vero istigatore. L'occupazione è la causa della ribellione e del sollevamento. Le deportazioni, le "detenzioni amministrative", le demolizioni delle case, la confisca della terra per i coloni, l'umiliazione quotidiana dei palestinesi fermati ai blocchi stradali, questo è ciò che istiga, ciò che infiamma i territori occupati.
Chiediamo alla popolazione israeliana di gridare il suo rifiuto e di fare ascoltare la sua protesta. Chiediamo un'inchiesta completa e indipendente sulla condotta dell'esercito d'Israele e sulle guardie di frontiera nei territori occupati; un'inchiesta su tutti i casi di spari, ferimenti, uccisioni, di tutti gli esempi di umiliazioni e di maltrattamenti. Noi diciamo che esiste una sola via per raggiungere una soluzione politica e fermare lo spargimento di sangue da entrambi i lati: aprire le negoziazioni tra il governo di Israele e l'Organizzazione di Liberazione della Palestina per avviare la creazione di uno stato palestinese indipendente affiancato allo stato di Israele.
C'è un limite
Il popolo palestinese è in rivolta contro l'occupazione israeliana. Più di vent'anni di occupazione e di repressioni non hanno fermato la lotta palestinese per la liberazione nazionale. Il sollevamento nei territori occupati e la repressione brutale da parte delle forze di difesa d'Israele (FDI) illustra drammaticamente il costo terribile dell'occupazione e l'assenza di soluzioni politiche. In quanto riservisti del FDI dichiariamo che non possiamo più sopportare il peso della responsabilità per questa negazione morale e politica. Noi proclamiamo che rifiuteremo di prendere parte a soffocare il sollevamento e l'insurrezione nei territori occupati.
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