Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 18 nr. 157
estate 1988


Rivista Anarchica Online

Anarchici e pacifisti
di Cristina Valenti

Fondatrice con Julian Beck, a Brooklyn nel '47, del Living Theatre, Judith Malina ne ripercorre in quest'intervista alcune tappe: speranze, delusioni, difficoltà, conflitti, problemi organizzativi, ecc...

Dal 2 al 26 maggio si è tenuto a Bologna, nell'ambito del festival "Teatro e Università" un laboratorio rivolto agli studenti e condotto da Judith Malina e Hanon Reznikov, il suo compagno, che dirige con lei il teatro dopo la morte di Julian Beck e che ha firmato negli ultimi anni molte regie degli spettacoli del Living. Il lavoro laboratoriale ha avuto come esito il Living Restrospettacolo, che ha debuttato al Teatro Testoni il 29 e 30 maggio, spettacolo colossale ed emozionante che in tre ore e mezzo, attraverso 17 brani di altrettanti spettacoli del Living, ripercorre la storia del gruppo e quindi quella della rivoluzione delle scene e dei grandi mutamenti che sulle scene si sono riversati negli ultimi quarant'anni.
Il 30 maggio, all'indomani cioè del festeggiatissimo debutto dello spettacolo, abbiamo incontrato Judith Malina e Hanon Reznikov.

Parlando dell'importanza che il Living ha avuto nella storia del teatro e nei grandi mutamenti che si sono prodotti nel teatro a partire dagli anni '60, si tende spesso a sottovalutare o a non considerare affatto la pratica e il pensiero anarchico che hanno informato il vostro gruppo. Eppure, io credo, non si può prescindere dai principi anarchici per valutare la rivoluzione teatrale del Living, che si è realizzata - e che ancora influenza in maniera più o meno consapevole tante esperienze di teatro - secondo forme e modalità profondamente coerenti con quei principi. Che influenza ha avuto, nel concreto del lavoro del Living negli anni '60, il riferimento all'anarchismo classico e ai pensatori anarchici americani, Alex Berkman, Emma Goldman, Paul Goodman?

Judith Malina. Julian Beck e io avevamo abbracciato i fondamenti teorici dell'anarchismo fin dagli anni '40 e, alla fine degli anni '40, abbiamo cominciato ad organizzare parallelamente anche il nostro teatro. Quando parliamo degli anni '60, parliamo del risultato di 20 anni di lavoro e di sperimentazione del Living. All'inizio ci siamo avvicinati al pensiero anarchico non leggendo particolarmente testi americani, ma inglesi, russi, come Kropotkin, Bakunin e così via. I Russi in particolare hanno avuto grande influenza sul nostro concetto di cosa sia la vita, la vita individuale, la vita sociale, l'arte e la vita nell'arte, perché se non abbiamo un programma per sistemare la società abbiamo però l'idea che è possibile, realisticamente, al di fuori di certe strutture costrittive, di certi limiti, dare vita a gruppi creativi, a forme sociali nuove. Su questa idea fondamentale si è basato fin dall'inizio il nostro teatro: sulla necessità cioè di far procedere parallelamente la ricerca sui contenuti degli spettacoli e quella sul modo in cui crearli, in cui lavorare insieme, come individui impegnati a realizzare se stessi al meglio. La sperimentazione doveva consistere secondo noi nel rendere praticabile la speranza che sia veramente possibile essere creativi senza seguire le vecchie forme gerarchiche di lavoro. All'inizio, durante il maccartismo, abbiamo pensato che fosse necessario nascondere questo messaggio. Adesso pensiamo che sarebbe stato meglio scontrarci fin da subito col conflitto, come poi è avvenuto negli anni '60. Allora abbiamo creato una compagnia basata su un'organizzazione più o meno convenzionale, con Julian e me direttori, ma intendendo fin dall'inizio creare un certo messaggio attraverso gli spettacoli. Abbiamo iniziato con Gertrude Stein, che ha prodotto la rottura della forma linguistica (allo stesso modo in cui i cubisti hanno rotto la forma della visione) e che nel Dottor Faust dà luce alla luce ha fatto anche un discorso sulla morte e sull'inferno come condanna alla sofferenza.

In che modo i vostri principi hanno cominciato ad applicarsi anche all'organizzazione del vostro lavoro?

J.M.: Nei primi anni '50 abbiamo cominciato a chiederci come andare più avanti, come dare ai principi anarchici e pacifisti un posto nella cultura teatrale e nella vita artistica di New York. Siamo stati fortunati a essere parte di un momento storico nel quale l'energia è andata sorgendo sempre più. Noi, in quanto partecipi di quell'energia, abbiamo potuto sviluppare certe forme che appartengono all'esperienza e al concetto di gruppo che sono propri dell'anarchismo. Noi anarchici sosteniamo da sempre che è necessario creare piccoli gruppi per sistemare il grande mondo. Il confronto all'interno del proprio piccolo gruppo consente di sperimentare nel presente, qui e ora, chi siamo e cosa significhi essere anarchici, egualitari, libertari, pacifisti. L'organizzazione del lavoro all'interno di un piccolo gruppo, così per gli artigiani, i tipografi, come per i gruppi teatrali, è quella che consente la forma migliore di sperimentazione, che permette di lavorare come in un laboratorio, per verificare cosa funziona, come risolvere i conflitti al proprio interno, come ragionare da un punto di vista collettivo.

Il Living ha rappresentato in questo senso un modello di comunità anarchica e, contemporaneamente, un laboratorio teatrale permanente.

J.M: Ma i problemi sorgono e sono sorti inevitabilmente, perché siamo tutti condizionati dal mondo esterno, dalle logiche competitive, ecc. Inoltre noi abbiamo sempre voluto lavorare alla creazione di spettacoli, e questo ha per noi un significato molto altruistico: la nostra idea di laboratorio è quella di un lavoro che sia utile per noi e per il nostro sviluppo, certamente, ma che crei anche qualcosa per il pubblico, per gli spettatori. Il rapporto con gli altri è sempre stato fondamentale per noi: noi siamo un piccolo gruppo ma abbiamo sempre una prospettiva esterna, più ampia, che è quella che ci aiuta a superare i problemi del gruppo, i problemi della competitività, della gerarchia, tutti problemi fondamentali dal punto di vista dell'organizzazione anarchica. Abbiamo fatto un lungo viaggio per diventare un collettivo, per perdere la centralità di Julian e mia. Negli anni '60, quando è cresciuta l'energia, Julian ed io avevamo già 20 anni di lavoro alle spalle. Si trattava di utilizzare la nostra esperienza, ma non in modo gerarchico, e di utilizzare al tempo stesso la nuova energia dei più giovani e il loro contributo fresco. I conflitti da risolvere sono stati quelli del "machismo" dentro la compagnia, della convivenza fra vecchie strutture famigliari e nuove unioni sessuali, c'erano i problemi domestici coi bambini e le bambine, i problemi della comunità e della collettività. Così abbiamo potuto fare molte esperienze, e abbiamo avuto anche molte difficoltà, naturalmente, perché non siamo santi e non possiamo andare immediatamente ad una situazione utopistica, ma abbiamo anche avuto il privilegio di essere un gruppo di affinità che ha avuto questa possibilità, di creare insieme questa esplosione.

C'erano altre esperienze analoghe in America in quegli anni, di gruppi che si muovevano su queste basi, con questi progetti?

J.M: Anche oggi ci sono a New York piccoli gruppi teatrali, o culturali, ma sono molto poveri e lottano molto per l'esistenza. Oggi in America è un brutto momento per l'arte, particolarmente per l'arte più povera, quella non accettata dal sistema culturale. Questo è il risultato delle sovvenzioni statali, che sono il modo per dare contributi, creando una differenza e poi tagliarli, come è successo, lasciando gli artisti nell'impossibilità di sostenersi autonomamente, perché non è possibile sostenersi in base agli incassi.
Questo è il problema, vivere nella società del denaro. Noi anarchici naturalmente vediamo un altro sistema, dove lo scambio del denaro non è necessario ma ora non siamo in quella situazione.
Era meglio quando il teatro si reggeva sugli incassi, era pagato cioè da quelli che volevano vederlo. Ma ora non è più possibile e stiamo soffrendo il risultato della beneficenza dei padroni che, dopo aver sostenuto molti gruppi, adesso hanno tagliato i fondi. Noi anarchici diciamo che questo è normale, è una logica che conosciamo molto bene: se dipendiamo economicamente da qualcuno, siamo nelle sue mani. A New York se la cavano ora solo certi artisti che fanno parte del gran mondo, pittori in particolare, che possono vendere i loro quadri per mezzo milione di dollari, ma sono pochi. Loro, a loro volta, sostengono altri artisti: ma questa è solo carità.
È quello che ci capitò trent'anni fa, quando fummo invitati dal Théàtre des Nations a Parigi e il Ministero della Cultura si rifiutò di darci i contributi per il viaggio. Avevamo allora in repertorio tre spettacoli: The Connection, Les Bonne e La giungla delle città di Brecht. Siamo andati a Washington e abbiamo chiesto come mai non ci veniva data la possibilità di andare a Parigi, come le altre compagnie invitate. Siamo andati all'ufficio del presidente, e abbiamo parlato con Pierre Salinger, l'assistente di Kennedy, e siamo arrivati fino al Congresso. Il Dipartimento della Cultura ha fornito il dossier del Living e alla fine ci è stata data la seguente risposta: "Quanto denaro pensate che si possa chiedere al Congresso degli Stati Uniti per mandare a Parigi una compagnia americana che fa uno spettacolo sulla droga in America, uno sull'omosessualità in America e uno scritto da un comunista?". Allora furono gli artisti a darci un aiuto, organizzando un'asta coi loro quadri, il cui ricavato servì a mandarci a Parigi. Ginsberg ci ha dato il suo manoscritto per Kaddish. Questo vuol dire che fummo mandati noi al Theatre des Nations dagli artisti.
Ma oggi è difficilissimo sopravvivere a New York se non si è parte del gran mondo. Ci sono grandi teatri in America che sono sostenuti bene, ma che hanno anche direttori amministrativi che lottano come animali, in una logica di concorrenza spietata. Il sostegno di questi grandi teatri è un grande business, e tutto il resto non viene preso in considerazione.

Esiste al momento in America qualche forma di collaborazione fra intellettuali ed artisti di matrice libertaria?

J.M.: Il problema è che ognuno si sente senza possibilità. Non esiste un movimento in piedi. Esiste ancora, in America, uno spirito di ribellione; quello che manca è la possibilità di riformare un movimento che consenta di lavorare insieme alla creazione di qualcosa di utile. Tuttavia questo è un momento importante, di germinazione, di riflessione e di impianto di nuove idee che, partendo dalle matrici libertarie, possono prefigurare nuovamente l'azione.
Penso che per gli anarchici sia una fase estremamente fertile, è come essere in un deserto, dove però si siano già seminate certe cose, ormai storiche, che potranno rivivere. Non dobbiamo sentirci disperati se oggi non possiamo scendere nuovamente in strada e creare nuovi gruppi di base: perché oggi possiamo lavorare a creare altre condizioni che, partendo dall'esperienza già fatta, diano nuovo fondamento alla nascita dei gruppi di base. È il momento di essere ottimisti e pensare non che siamo vent'anni lontani dal '68, ma che siamo vent'anni più vicini alla rivoluzione che non nel '68.

Anche in America avete allestito un Retrospettacolo. Avete lavorato con attori professionisti, o in una situazione laboratoriale analoga a questa?

Hanon Reznikov: La prima volta che l'abbiamo realizzato è stato con tutti gli attori del Living, anche quelli dell'inizio. È stato un momento bellissimo. Tutti sono rientrati a fare i ruoli che facevano trent'anni fa. C'erano fra gli altri Joseph Chaikin e Steven Ben Israel e Martin Sheen. Sono tornati per lavorare insieme di nuovo. Alcuni non si erano mai incontrati nell'arco di tanti anni, perché hanno fatto parte del Living in periodi diversi. Poi, dopo questa esperienza, abbiamo scoperto, nel corso che teniamo alla Facoltà di Teatro della New York University, che invece di far vedere solo i film e i video del lavoro del Living, possiamo usare queste scene. Il lavoro sui materiali del Living Retrospectacle offre la possibilità agli studenti di confrontarsi con esperienze e con generi diversi di teatro, dato l'eclettismo stilistico che ha caratterizzato la storia del Living.

Come valutate il rapporto didattico con i giovani? Si parlava, prima, del collettivo come momento piccolo che ha a che fare con il grande, come luogo di sperimentazione teatrale, ma anche di crescita personale e politica. Quale credete sia stata l'importanza di un laboratorio lungo e impegnativo come quello per la preparazione del Living Retrospettacolo, per i ragazzi che l'hanno seguito?

J.M.: Questi ragazzi sono di mente molto aperta, ma non hanno la minima idea di come andare avanti, di come organizzarsi a creare qualcosa. Sono pronti a seguirci, ma forse sono pronti a seguire anche qualcun altro. Questo spirito aperto è comunque molto bello.

H.R.: Attraverso il laboratorio, i ragazzi hanno verificato che il teatro non è solo un luogo in cui si va a rappresentare, ma un luogo in cui essere artisti in senso globale, con dei contenuti, con qualcosa da dire; e anche un luogo in cui è possibile vivere insieme l'esperienza di creare qualcosa e in cui maturare una coscienza politica ed estetica, perché entrambe sono necessarie per fare teatro. È il motivo per cui io sono entrato nel Living, perché era l'unico teatro politico che mi piacesse anche per la ricerca estetica che portava avanti. Così spero che altri innamoramenti del genere si verifichino.

J.M.: Il prossimo passo è molto bello. Se si finisce qui non è abbastanza. Speriamo di essere stati un piccolo sasso gettato nell'acqua, che crea cerchi più larghi tutt'attorno. Allora avremmo fatto qualcosa di utile, sennò è stata un'esperienza bella ma non fertile.

H.R.: Basterebbe che qualcuno fra i ragazzi o le ragazze fosse stato abbastanza colpito da darsi da fare per creare un gruppo...



Living retrospettacolo

Ho avuto la fortuna di vedere Judith Malina lavorare con gli studenti che partecipavano al workshop per Living Retrospettacolo. Seduta su una vecchia poltrona di velluto giallo, in un angolo di proscenio del Teatro Testoni di Bologna, con un piccolo tavolino bianco alla sua sinistra, sul quale erano tre rose arancioni. Un microfono all'altezza della sua bocca. Un pacco di fogli in mano. Gli occhialini sul naso, sopra i quali sollevava lo sguardo, a tratti, per scrutare la platea dove stavano, un po' stanchi, ad ascoltare, i ragazzi che avevano seguito per un mese il suo laboratorio. L'ho vista improvvisare abbozzi di azioni, dettagli minimi, ma rivelatori dei più concreti e rigorosi principi del teatro, e del segreto di quel rigore e di quella concretezza. L'ho vista guidare i ragazzi a prendere coscienza delle condizioni materiali dello spettacolo - luci, rumori, prospettive, coordinazione dei movimenti - e l'ho vista recitare un brano di Antigone, per comunicare alla giovane ragazza che l'avrebbe interpretato nel Retrospettacolo l'energia ribelle ed irriducibile di quell'eroina che, per via dell'interpretazione pluriventennale del Living, è diventata figura paradigmatica, sulle scene mondiali, dell'individuo che si ribella alle leggi degli uomini.
Poi l'ho vista trasformata in una regina, la sera della prima, la piccola Judith ormai curva di tanti anni di nomadismo ribelle, per le strade ed i teatri del mondo, fatta d'un tratto così ingombrante ed impossibile da recuperare di fronte alla cattiva coscienza della cultura teatrale e alle sue celebrazioni di rito. Seduta sulla stessa poltrona gialla, ha semplicemente raccontato, fra una scena e l'altra dello spettacolo, la storia della vicenda che ha cambiato il teatro contemporaneo: ma bastava che muovesse le braccia, alzasse gli occhi, girasse la testa, sussurrasse o gridasse al microfono, che il teatro era suo, perché lei è il teatro.
"La gente che insegna storia", ha recentemente dichiarato in un'intervista "la vede in modo diverso da quelli che la vivono in prima persona. Il problema dell'insegnante o dell'artista che vuole trasmettere qualcosa della propria esperienza, è di capire questo limite. Ognuno ha il suo Paradise Now, come ognuno che ha fatto una guerra vede la battaglia in cui si è trovato come il centro di questa esperienza storica. Ma è anche uno sguardo distorto. Io ricordo il maggio a Parigi, quando abbiamo occupato l'Odeon, ma questo è un piccolo fatto nella grande cosa che è successa".
Ma il Living Retrospettacolo ci ha fatto capire che di sguardi distorti la storia, e la comprensione della storia, ne ha bisogno. Un'intera generazione di teatro ha incontrato nel Living il proprio Paradise Now e i "piccoli fatti" della storia del Living, i suoi spettacoli e il suo esempio di militanza politica e teatrale hanno sperimentato qualcosa di importante per il grande dei mutamenti complessivi in atto. Quello dell'esempio attraverso il teatro, dell'esperienza del teatro come esperienza formativa complessa è anche, nello specifico, uno dei livelli sul quale valutare l'importanza dell'allestimento del Living Retrospettacolo. Il lungo workshop che Judith Malina e Hanon Reznikov (con Raaja Fischer, Jerry Goralnick, Ilion Troy, Serena Urbani e Tom Walker, del Living Theatre) hanno condotto con cinquanta studenti (e non) dell'Università di Bologna nel corso di un mese, ha infatti affiancato allo stage pratico una prospettiva di indagine storico-critica, con incontri di approfondimento teorico a partire dalla proiezione di nove film sugli spettacoli e l'attività del Living. Un lavoro che, per la quantità di tecniche e di generi di teatro esplorati, e soprattutto per la sua peculiarità di unire la rivisitazione storica alla sperimentazione delle pratiche attoriche sedimentate, può a buon diritto essere considerato un'esperienza didattica ideale, un esempio di scuola di teatro che potrebbe farsi permanente.
Ma ci sono almeno altri due livelli da considerare nel Living Retrospettacolo. Uno riguarda, ovviamente, il risultato finale, evento di spettacolo di per se stesso importante, a differenza di quanto avviene il più delle volte per gli esiti delle esperienze laboratoriali. In tre ore e mezzo di rappresentazione, si annodano al racconto di Judith 17 scene tratte da altrettanti spettacoli del repertorio del Living dal 1951 al 1988.
Dalle prime sperimentazioni su testi della Stein e di Picasso, alla celebre regia del Stasera si recita a soggetto di Pirandello, nel 1955, alle prime infrazioni dello spazio recitativo, con il serpente umano che striscia sussurrando nella platea, nel Giovane discepolo di Paul Goodman, alla rottura dell'illusionismo scenico con The Connection, ricostruzione dell'attesa del "contatto" da parte di un gruppo di drogati, scandalosa nel 1959 e ancor'oggi tesa e forte; poi l'estremismo artaudiano di The Brig del 1963; l'approdo alla creazione collettiva e all'improvvisazione coi Mysteries, nel 1961, e col Frankenstein, che sperimentava lo spettacolo totale nel 1965; quindi l'Antigone del 1967, con lo straordinario esempio di controcanto della danza di Bacco, nella scena riproposta; e siamo al '68 di Paradise Now, seguito dall'uscita dall'uscita dagli spazi teatrali del gruppo, con il ciclo dell'Eredità di Caino (1970-78), che ha portato di nuovo il pubblico nella strada, per una processione laica davanti alla "casa del potere", la vicina scuola Testoni. "Sangue. Questo è il mio sangue" recitava il cerimoniale del noto rito pacifista del Living "il sangue di Sacco e Vanzetti uccisi dal potere dell'America democratica, il sangue di Nestor Mackhno ucciso dal potere bolscevico, il sangue di Giuseppe Pinelli, ucciso dalla democrazia borghese, il sangue degli anarchici spagnoli e di tutti gli anarchici morti combattendo il potere". Infine, di nuovo all'interno del teatro, il Prometeo al palazzo d'inverno, del 1978, e le più recenti produzioni, fino all'anno attuale.
Il terzo livello dello spettacolo riguarda la memoria del teatro contemporaneo, di cui è documento straordinario. Una specie di archivio vivente, non solo della storia del Living, ma della storia dei grandi mutamenti che hanno attraversato il teatro negli ultimi quarant'anni, scanditi da forti gesti di rottura, ma anche - è questa l'acquisizione che l'archivio vivente consente - da straordinarie prove registiche e attoriche, che andrebbero riconsiderate ben al di là degli unanimi riconoscimenti di rito rivolti al Living dalla cultura teatrale dominante.