Rivista Anarchica Online
Anarchici e pacifisti
di Cristina Valenti
Fondatrice con Julian Beck, a
Brooklyn nel '47, del Living Theatre, Judith Malina ne ripercorre in
quest'intervista alcune tappe: speranze, delusioni, difficoltà,
conflitti, problemi organizzativi, ecc...
Dal 2 al 26 maggio si è
tenuto a Bologna, nell'ambito del festival "Teatro e Università"
un laboratorio rivolto agli studenti e condotto da Judith Malina e
Hanon Reznikov, il suo compagno, che dirige con lei il teatro dopo la
morte di Julian Beck e che ha firmato negli ultimi anni molte regie
degli spettacoli del Living. Il lavoro laboratoriale ha avuto come
esito il Living Restrospettacolo, che ha debuttato al Teatro Testoni
il 29 e 30 maggio, spettacolo colossale ed emozionante che in tre ore
e mezzo, attraverso 17 brani di altrettanti spettacoli del Living,
ripercorre la storia del gruppo e quindi quella della rivoluzione
delle scene e dei grandi mutamenti che sulle scene si sono riversati
negli ultimi quarant'anni.
Il 30 maggio, all'indomani cioè
del festeggiatissimo debutto dello spettacolo, abbiamo incontrato
Judith Malina e Hanon Reznikov.
Parlando dell'importanza che il Living
ha avuto nella storia del teatro e nei grandi mutamenti che si sono
prodotti nel teatro a partire dagli anni '60, si tende spesso a
sottovalutare o a non considerare affatto la pratica e il pensiero
anarchico che hanno informato il vostro gruppo. Eppure, io credo, non
si può prescindere dai principi anarchici per valutare la
rivoluzione teatrale del Living, che si è realizzata - e che
ancora influenza in maniera più o meno consapevole tante
esperienze di teatro - secondo forme e modalità profondamente
coerenti con quei principi. Che influenza ha avuto, nel concreto del
lavoro del Living negli anni '60, il riferimento all'anarchismo
classico e ai pensatori anarchici americani, Alex Berkman, Emma
Goldman, Paul Goodman?
Judith Malina.
Julian Beck e io avevamo abbracciato i fondamenti teorici
dell'anarchismo fin dagli anni '40 e, alla fine degli anni '40,
abbiamo cominciato ad organizzare parallelamente anche il nostro
teatro. Quando parliamo degli anni '60, parliamo del risultato di 20
anni di lavoro e di sperimentazione del Living. All'inizio ci siamo
avvicinati al pensiero anarchico non leggendo particolarmente testi
americani, ma inglesi, russi, come Kropotkin, Bakunin e così
via. I Russi in particolare hanno avuto grande influenza sul nostro
concetto di cosa sia la vita, la vita individuale, la vita sociale,
l'arte e la vita nell'arte, perché se non abbiamo un programma
per sistemare la società abbiamo però l'idea che è
possibile, realisticamente, al di fuori di certe strutture
costrittive, di certi limiti, dare vita a gruppi creativi, a forme
sociali nuove. Su questa idea fondamentale si è basato fin
dall'inizio il nostro teatro: sulla necessità cioè di
far procedere parallelamente la ricerca sui contenuti degli
spettacoli e quella sul modo in cui crearli, in cui lavorare insieme,
come individui impegnati a realizzare se stessi al meglio. La
sperimentazione doveva consistere secondo noi nel rendere praticabile
la speranza che sia veramente possibile essere creativi senza seguire
le vecchie forme gerarchiche di lavoro. All'inizio, durante il
maccartismo, abbiamo pensato che fosse necessario nascondere questo
messaggio. Adesso pensiamo che sarebbe stato meglio scontrarci fin da
subito col conflitto, come poi è avvenuto negli anni '60.
Allora abbiamo creato una compagnia basata su un'organizzazione più
o meno convenzionale, con Julian e me direttori, ma intendendo fin
dall'inizio creare un certo messaggio attraverso gli spettacoli.
Abbiamo iniziato con Gertrude Stein, che ha prodotto la rottura della
forma linguistica (allo stesso modo in cui i cubisti hanno rotto la
forma della visione) e che nel Dottor Faust dà luce alla
luce ha fatto anche un discorso sulla morte e sull'inferno come
condanna alla sofferenza.
In che modo i vostri principi hanno
cominciato ad applicarsi anche all'organizzazione del vostro lavoro?
J.M.: Nei primi anni
'50 abbiamo cominciato a chiederci come andare più avanti,
come dare ai principi anarchici e pacifisti un posto nella cultura
teatrale e nella vita artistica di New York. Siamo stati fortunati a
essere parte di un momento storico nel quale l'energia è
andata sorgendo sempre più. Noi, in quanto partecipi di
quell'energia, abbiamo potuto sviluppare certe forme che appartengono
all'esperienza e al concetto di gruppo che sono propri
dell'anarchismo. Noi anarchici sosteniamo da sempre che è
necessario creare piccoli gruppi per sistemare il grande mondo. Il
confronto all'interno del proprio piccolo gruppo consente di
sperimentare nel presente, qui e ora, chi siamo e cosa significhi
essere anarchici, egualitari, libertari, pacifisti. L'organizzazione
del lavoro all'interno di un piccolo gruppo, così per gli
artigiani, i tipografi, come per i gruppi teatrali, è quella
che consente la forma migliore di sperimentazione, che permette di
lavorare come in un laboratorio, per verificare cosa funziona, come
risolvere i conflitti al proprio interno, come ragionare da un punto
di vista collettivo.
Il Living ha rappresentato in questo
senso un modello di comunità anarchica e, contemporaneamente,
un laboratorio teatrale permanente.
J.M: Ma i problemi sorgono e
sono sorti inevitabilmente, perché siamo tutti condizionati
dal mondo esterno, dalle logiche competitive, ecc. Inoltre noi
abbiamo sempre voluto lavorare alla creazione di spettacoli, e questo
ha per noi un significato molto altruistico: la nostra idea di
laboratorio è quella di un lavoro che sia utile per noi e per
il nostro sviluppo, certamente, ma che crei anche qualcosa per il
pubblico, per gli spettatori. Il rapporto con gli altri è
sempre stato fondamentale per noi: noi siamo un piccolo gruppo ma
abbiamo sempre una prospettiva esterna, più ampia, che è
quella che ci aiuta a superare i problemi del gruppo, i problemi
della competitività, della gerarchia, tutti problemi
fondamentali dal punto di vista dell'organizzazione anarchica.
Abbiamo fatto un lungo viaggio per diventare un collettivo, per
perdere la centralità di Julian e mia. Negli anni '60, quando
è cresciuta l'energia, Julian ed io avevamo già 20 anni
di lavoro alle spalle. Si trattava di utilizzare la nostra
esperienza, ma non in modo gerarchico, e di utilizzare al tempo
stesso la nuova energia dei più giovani e il loro contributo
fresco. I conflitti da risolvere sono stati quelli del "machismo"
dentro la compagnia, della convivenza fra vecchie strutture
famigliari e nuove unioni sessuali, c'erano i problemi domestici coi
bambini e le bambine, i problemi della comunità e della
collettività. Così abbiamo potuto fare molte
esperienze, e abbiamo avuto anche molte difficoltà,
naturalmente, perché non siamo santi e non possiamo andare
immediatamente ad una situazione utopistica, ma abbiamo anche avuto
il privilegio di essere un gruppo di affinità che ha avuto
questa possibilità, di creare insieme questa esplosione.
C'erano altre esperienze analoghe in
America in quegli anni, di gruppi che si muovevano su queste basi,
con questi progetti?
J.M: Anche oggi ci sono a New
York piccoli gruppi teatrali, o culturali, ma sono molto poveri e
lottano molto per l'esistenza. Oggi in America è un brutto
momento per l'arte, particolarmente per l'arte più povera,
quella non accettata dal sistema culturale. Questo è il
risultato delle sovvenzioni statali, che sono il modo per dare
contributi, creando una differenza e poi tagliarli, come è
successo, lasciando gli artisti nell'impossibilità di
sostenersi autonomamente, perché non è possibile
sostenersi in base agli incassi.
Questo è il problema, vivere
nella società del denaro. Noi anarchici naturalmente vediamo
un altro sistema, dove lo scambio del denaro non è necessario
ma ora non siamo in quella situazione.
Era meglio quando il teatro si
reggeva sugli incassi, era pagato cioè da quelli che volevano
vederlo. Ma ora non è più possibile e stiamo soffrendo
il risultato della beneficenza dei padroni che, dopo aver sostenuto
molti gruppi, adesso hanno tagliato i fondi. Noi anarchici diciamo
che questo è normale, è una logica che conosciamo molto
bene: se dipendiamo economicamente da qualcuno, siamo nelle sue mani.
A New York se la cavano ora solo certi artisti che fanno parte del
gran mondo, pittori in particolare, che possono vendere i loro quadri
per mezzo milione di dollari, ma sono pochi. Loro, a loro volta,
sostengono altri artisti: ma questa è solo carità.
È
quello che ci capitò trent'anni fa, quando fummo invitati dal
Théàtre des Nations a Parigi e il Ministero della
Cultura si rifiutò di darci i contributi per il viaggio.
Avevamo allora in repertorio tre spettacoli: The Connection,
Les Bonne e La giungla delle città
di Brecht. Siamo andati a Washington e abbiamo chiesto come mai non
ci veniva data la possibilità di andare a Parigi, come le
altre compagnie invitate. Siamo andati all'ufficio del presidente, e
abbiamo parlato con Pierre Salinger, l'assistente di Kennedy, e siamo
arrivati fino al Congresso. Il Dipartimento della Cultura ha fornito
il dossier del Living e alla fine ci è stata data la seguente
risposta: "Quanto denaro pensate che si possa chiedere al
Congresso degli Stati Uniti per mandare a Parigi una compagnia
americana che fa uno spettacolo sulla droga in America, uno
sull'omosessualità in America e uno scritto da un comunista?".
Allora furono gli artisti a darci un aiuto, organizzando un'asta coi
loro quadri, il cui ricavato servì a mandarci a Parigi.
Ginsberg ci ha dato il suo manoscritto per Kaddish.
Questo vuol dire che fummo mandati noi al Theatre des Nations dagli
artisti.
Ma oggi è difficilissimo
sopravvivere a New York se non si è parte del gran mondo. Ci
sono grandi teatri in America che sono sostenuti bene, ma che hanno
anche direttori amministrativi che lottano come animali, in una
logica di concorrenza spietata. Il sostegno di questi grandi teatri è
un grande business, e tutto il resto non viene preso in
considerazione.
Esiste al momento in America qualche
forma di collaborazione fra intellettuali ed artisti di matrice
libertaria?
J.M.: Il problema è
che ognuno si sente senza possibilità. Non esiste un movimento
in piedi. Esiste ancora, in America, uno spirito di ribellione;
quello che manca è la possibilità di riformare un
movimento che consenta di lavorare insieme alla creazione di qualcosa
di utile. Tuttavia questo è un momento importante, di
germinazione, di riflessione e di impianto di nuove idee che,
partendo dalle matrici libertarie, possono prefigurare nuovamente
l'azione.
Penso che per gli anarchici sia una
fase estremamente fertile, è come essere in un deserto, dove
però si siano già seminate certe cose, ormai storiche,
che potranno rivivere. Non dobbiamo sentirci disperati se oggi non
possiamo scendere nuovamente in strada e creare nuovi gruppi di base:
perché oggi possiamo lavorare a creare altre condizioni che,
partendo dall'esperienza già fatta, diano nuovo fondamento
alla nascita dei gruppi di base. È
il momento di essere ottimisti e pensare non che siamo vent'anni
lontani dal '68, ma che siamo vent'anni più vicini alla
rivoluzione che non nel '68.
Anche in America avete allestito un
Retrospettacolo. Avete lavorato con attori professionisti, o
in una situazione laboratoriale analoga a questa?
Hanon Reznikov:
La prima volta che l'abbiamo realizzato è stato con tutti gli
attori del Living, anche quelli dell'inizio. È stato un
momento bellissimo. Tutti sono rientrati a fare i ruoli che facevano
trent'anni fa. C'erano fra gli altri Joseph Chaikin e Steven Ben
Israel e Martin Sheen. Sono tornati per lavorare insieme di nuovo.
Alcuni non si erano mai incontrati nell'arco di tanti anni, perché
hanno fatto parte del Living in periodi diversi. Poi, dopo questa
esperienza, abbiamo scoperto, nel corso che teniamo alla Facoltà
di Teatro della New York University, che invece di far vedere solo i
film e i video del lavoro del Living, possiamo usare queste scene. Il
lavoro sui materiali del Living Retrospectacle offre la
possibilità agli studenti di confrontarsi con esperienze e con
generi diversi di teatro, dato l'eclettismo stilistico che ha
caratterizzato la storia del Living.
Come valutate il rapporto didattico con
i giovani? Si parlava, prima, del collettivo come momento piccolo che
ha a che fare con il grande, come luogo di sperimentazione teatrale,
ma anche di crescita personale e politica. Quale credete sia stata
l'importanza di un laboratorio lungo e impegnativo come quello per la
preparazione del Living Retrospettacolo, per i ragazzi che l'hanno
seguito?
J.M.:
Questi ragazzi sono di mente molto aperta, ma non hanno la minima
idea di come andare avanti, di come organizzarsi a creare
qualcosa. Sono pronti a seguirci, ma forse
sono pronti a seguire anche qualcun altro. Questo spirito aperto è
comunque molto bello.
H.R.: Attraverso il
laboratorio, i ragazzi hanno verificato che il teatro non è
solo un luogo in cui si va a rappresentare, ma un luogo in cui essere
artisti in senso globale, con dei contenuti, con qualcosa da dire; e
anche un luogo in cui è possibile vivere insieme l'esperienza
di creare qualcosa e in cui maturare una coscienza politica ed
estetica, perché entrambe sono necessarie per fare teatro. È
il motivo per cui io sono entrato nel Living, perché era
l'unico teatro politico che mi piacesse anche per la ricerca estetica
che portava avanti. Così spero che altri innamoramenti del
genere si verifichino.
J.M.: Il prossimo passo è
molto bello. Se si finisce qui non è abbastanza. Speriamo di
essere stati un piccolo sasso gettato nell'acqua, che crea cerchi più
larghi tutt'attorno. Allora avremmo fatto qualcosa di utile, sennò
è stata un'esperienza bella ma non fertile.
H.R.: Basterebbe che qualcuno
fra i ragazzi o le ragazze fosse stato abbastanza colpito da darsi da
fare per creare un gruppo...
Living retrospettacolo
Ho avuto la fortuna di vedere Judith Malina lavorare con gli studenti che partecipavano al workshop per Living Retrospettacolo. Seduta su una vecchia poltrona di velluto giallo, in un angolo di proscenio del Teatro Testoni di Bologna, con un piccolo tavolino bianco alla sua sinistra, sul quale erano tre rose arancioni. Un microfono all'altezza della sua bocca. Un pacco di fogli in mano. Gli occhialini sul naso, sopra i quali sollevava lo sguardo, a tratti, per scrutare la platea dove stavano, un po' stanchi, ad ascoltare, i ragazzi che avevano seguito per un mese il suo laboratorio. L'ho vista improvvisare abbozzi di azioni, dettagli minimi, ma rivelatori dei più concreti e rigorosi principi del teatro, e del segreto di quel rigore e di quella concretezza. L'ho vista guidare i ragazzi a prendere coscienza delle condizioni materiali dello spettacolo - luci, rumori, prospettive, coordinazione dei movimenti - e l'ho vista recitare un brano di Antigone, per comunicare alla giovane ragazza che l'avrebbe interpretato nel Retrospettacolo l'energia ribelle ed irriducibile di quell'eroina che, per via dell'interpretazione pluriventennale del Living, è diventata figura paradigmatica, sulle scene mondiali, dell'individuo che si ribella alle leggi degli uomini.
Poi l'ho vista trasformata in una regina, la sera della prima, la piccola Judith ormai curva di tanti anni di nomadismo ribelle, per le strade ed i teatri del mondo, fatta d'un tratto così ingombrante ed impossibile da recuperare di fronte alla cattiva coscienza della cultura teatrale e alle sue celebrazioni di rito. Seduta sulla stessa poltrona gialla, ha semplicemente raccontato, fra una scena e l'altra dello spettacolo, la storia della vicenda che ha cambiato il teatro contemporaneo: ma bastava che muovesse le braccia, alzasse gli occhi, girasse la testa, sussurrasse o gridasse al microfono, che il teatro era suo, perché lei è il teatro.
"La gente che insegna storia", ha recentemente dichiarato in un'intervista "la vede in modo diverso da quelli che la vivono in prima persona. Il problema dell'insegnante o dell'artista che vuole trasmettere qualcosa della propria esperienza, è di capire questo limite. Ognuno ha il suo Paradise Now, come ognuno che ha fatto una guerra vede la battaglia in cui si è trovato come il centro di questa esperienza storica. Ma è anche uno sguardo distorto. Io ricordo il maggio a Parigi, quando abbiamo occupato l'Odeon, ma questo è un piccolo fatto nella grande cosa che è successa".
Ma il Living Retrospettacolo ci ha fatto capire che di sguardi distorti la storia, e la comprensione della storia, ne ha bisogno. Un'intera generazione di teatro ha incontrato nel Living il proprio Paradise Now e i "piccoli fatti" della storia del Living, i suoi spettacoli e il suo esempio di militanza politica e teatrale hanno sperimentato qualcosa di importante per il grande dei mutamenti complessivi in atto. Quello dell'esempio attraverso il teatro, dell'esperienza del teatro come esperienza formativa complessa è anche, nello specifico, uno dei livelli sul quale valutare l'importanza dell'allestimento del Living Retrospettacolo. Il lungo workshop che Judith Malina e Hanon Reznikov (con Raaja Fischer, Jerry Goralnick, Ilion Troy, Serena Urbani e Tom Walker, del Living Theatre) hanno condotto con cinquanta studenti (e non) dell'Università di Bologna nel corso di un mese, ha infatti affiancato allo stage pratico una prospettiva di indagine storico-critica, con incontri di approfondimento teorico a partire dalla proiezione di nove film sugli spettacoli e l'attività del Living. Un lavoro che, per la quantità di tecniche e di generi di teatro esplorati, e soprattutto per la sua peculiarità di unire la rivisitazione storica alla sperimentazione delle pratiche attoriche sedimentate, può a buon diritto essere considerato un'esperienza didattica ideale, un esempio di scuola di teatro che potrebbe farsi permanente.
Ma ci sono almeno altri due livelli da considerare nel Living Retrospettacolo. Uno riguarda, ovviamente, il risultato finale, evento di spettacolo di per se stesso importante, a differenza di quanto avviene il più delle volte per gli esiti delle esperienze laboratoriali. In tre ore e mezzo di rappresentazione, si annodano al racconto di Judith 17 scene tratte da altrettanti spettacoli del repertorio del Living dal 1951 al 1988.
Dalle prime sperimentazioni su testi della Stein e di Picasso, alla celebre regia del Stasera si recita a soggetto di Pirandello, nel 1955, alle prime infrazioni dello spazio recitativo, con il serpente umano che striscia sussurrando nella platea, nel Giovane discepolo di Paul Goodman, alla rottura dell'illusionismo scenico con The Connection, ricostruzione dell'attesa del "contatto" da parte di un gruppo di drogati, scandalosa nel 1959 e ancor'oggi tesa e forte; poi l'estremismo artaudiano di The Brig del 1963; l'approdo alla creazione collettiva e all'improvvisazione coi Mysteries, nel 1961, e col Frankenstein, che sperimentava lo spettacolo totale nel 1965; quindi l'Antigone del 1967, con lo straordinario esempio di controcanto della danza di Bacco, nella scena riproposta; e siamo al '68 di Paradise Now, seguito dall'uscita dall'uscita dagli spazi teatrali del gruppo, con il ciclo dell'Eredità di Caino (1970-78), che ha portato di nuovo il pubblico nella strada, per una processione laica davanti alla "casa del potere", la vicina scuola Testoni. "Sangue. Questo è il mio sangue" recitava il cerimoniale del noto rito pacifista del Living "il sangue di Sacco e Vanzetti uccisi dal potere dell'America democratica, il sangue di Nestor Mackhno ucciso dal potere bolscevico, il sangue di Giuseppe Pinelli, ucciso dalla democrazia borghese, il sangue degli anarchici spagnoli e di tutti gli anarchici morti combattendo il potere". Infine, di nuovo all'interno del teatro, il Prometeo al palazzo d'inverno, del 1978, e le più recenti produzioni, fino all'anno attuale.
Il terzo livello dello spettacolo riguarda la memoria del teatro contemporaneo, di cui è documento straordinario. Una specie di archivio vivente, non solo della storia del Living, ma della storia dei grandi mutamenti che hanno attraversato il teatro negli ultimi quarant'anni, scanditi da forti gesti di rottura, ma anche - è questa l'acquisizione che l'archivio vivente consente - da straordinarie prove registiche e attoriche, che andrebbero riconsiderate ben al di là degli unanimi riconoscimenti di rito rivolti al Living dalla cultura teatrale dominante.
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