Rivista Anarchica Online
Proudhon al Sud
di Ottavia Fara
Tutti si lamentano della presunta
latitanza dello Stato al Sud. E ne sollecitano una presenza più
incisiva e visibile: caserme, investimenti, leggi speciali, ecc... E
se invece l'unica strada percorribile per il riscatto del Sud fosse
l'abolizione, o per lo meno l'indebolimento dello Stato? Come, tra l'altro, proponeva oltre
un secolo fa Pierre-Joseph Proudhon.
Sono apparsi recentemente su vari
giornali, ed in particolare sul quotidiano "La Repubblica",
alcuni servizi dedicati alla "questione meridionale".
Trattandosi di una questione eterna, poiché eternamente
irrisolta, essa è oggetto ormai di un dibattito permanente,
nel quale mi sembra opportuno inserire anche un contributo di
ispirazione libertaria.
Sulle pagine di "Repubblica"
si parla, in verità, della nascita di una "nuova
questione meridionale", per il fatto che l'eterno problema viene
presentato nei termini di un vero e proprio capovolgimento degli
estremi del rapporto Nord/Sud: non più un Sud come terra di
sfruttamento e "colonizzazione" da parte del Nord, bensì
un Nord che, pur lavorando duramente e onestamente, pur reggendo
quasi da solo tutto il peso dell'economia nazionale, si trova poi
depauperato dal Sud, al quale lo stato elargisce regolarmente
svariati miliardi di lire, destinati al risanamento dell'economia e
delle strutture sociali nel Meridione, in realtà incamerati
dai gruppi dirigenti locali (tutti ovviamente più o meno
avviluppati nei tentacoli della piovra mafiosa). Insomma, le potenzialità di
espansione economica del Nord che, se lasciate libere,
permetterebbero a questa parte del Paese di raggiungere i vertici
della scala economica mondiale, sono invece brutalmente e
vergognosamente bloccate dalla presenza di quell'enorme parassita
rappresentato dalle regioni meridionali, regioni che, ormai, secondo
il parere non solo dell'articolista di "Repubblica" ma
anche di alcuni insigni specialisti in materia, solo il continuo
afflusso di denaro, prodigalmente elargito loro dal nostro governo,
salverebbe dalla caduta in condizioni di vita da Terzo Mondo.
Mi astengo da qualsiasi presa di
posizione in favore dell'una o dell'altra parte, in primo luogo
perché mi sembra che la questione sia ancora molto
ingarbugliata e che i dati non siano in numero sufficiente da
permettere una decisione obbiettiva, in secondo luogo perché
la questione, ben lungi da dar luogo a faziosità, campanilismi
o "guerre civili" a colpi di articoli a stampa, chiede
piuttosto di essere risolta con urgenza estrema. E, su questo punto,
la soluzione proposta da "Repubblica" (2 settembre) mi
lascia a dir poco allibita; cito testualmente: "Rendere più
evidente la presenza dello stato: meno clientelismo, più
rispetto per i cittadini, più servizi, più magistrati,
più poliziotti, più uomini di cultura, giornali più
liberi. In altre parole, una nuova classe dirigente".
Premesso che non capisco come
l'intensificata presenza dello stato possa conciliarsi col maggior
rispetto dei cittadini e la maggior libertà di stampa, non
posso far a meno di riconoscere l'assoluta improponibilità di
tale soluzione.
Ma come, rafforzare la presenza dello
stato in un territorio nel quale tutti i problemi sono sorti proprio
dal momento in cui questa presenza vi si è installata? Invece
di precipitarsi a tamponare le falle, l'unico sistema di intervento
che il nostro governo sembra conoscere, è necessario
affrontare il problema davvero radicalmente, e queste "radici"
non si possono e non si devono cercare al di fuori della storia.
Solo il cosciente ripensamento della
storia, per il quale mi accingo a fornire qui alcune tracce
direttive, può permetterci di ricostruire in maniera completa
il quadro delle origini, della natura, degli sviluppi della questione
meridionale.
A questo proposito si rivela di
utilissima consultazione un testo, abbastanza sconosciuto purtroppo,
di uno dei padri (se non "il" padre) del movimento
anarchico: Pierre-Joseph Proudhon.
Il testo in questione si intitola: "Del
principio federativo" e la sua composizione risale al 1863, due
anni soltanto dopo la proclamazione dell'unità d'Italia. In
quest'opera Proudhon, che già nel 1840 non esitava a definire
se stesso "anarchico" (era un atto coraggioso per un'epoca
in cui l'aggettivo costituiva ancora un vero e proprio insulto e il
termine "anarchia" non significava altro che disordine,
caos) espone un sistema di organizzazione della vita sociale ispirato
ai più autentici principi libertari e da proporsi in
sostituzione all'attuale sistema degli apparati statali. Tale
proposta prende il nome di "federalismo", per il fatto che
difende, come unica forma di rapporto sociale in grado di conservare
completamente la libertà del singolo, la sua umanità e
la sua indipendenza, il rapporto federativo. In una società
ormai liberata da gerarchie e da burocrazie costruite dall'autorità
statale, Proudhon auspica l'instaurarsi, fra gli esseri umani, di una
fitta rete di rapporti federativi, dapprima a livello di gruppi
professionali, poi di unità territoriali sempre più
vaste (che possono continuare a chiamarsi comuni, province e stati,
ma ormai del tutto svuotati dal significato che attualmente
attribuiamo loro) fino alla costruzione di una gigantesca federazione
europea, o addirittura mondiale.
Per Proudhon, l'essenza del rapporto
federativo è di natura economica: si tratta cioè di un
rapporto che ha come unico scopo l'ottenimento di vantaggi di tipo
economico, e che, in quanto tale, pone i contraenti su un piano di
assoluta parità (ciascuno dà quanto riceve), pone loro
delle condizioni che li vincolano in misura minima e, soprattutto,
può essere sciolto in ogni momento (a differenza per esempio
del contratto sociale di Rousseau, che viene stipulato agli albori
dell'umanità e poi da questa "ereditato" per
sempre).
Ma come attuare il principio
federativo?
È
possibile, sia pure all'interno di una società organizzata per
mezzo di strutture statuali, dar vita a federazioni?
Proudhon cerca, a questo punto, di
scendere a un compromesso con la realtà: dal momento che la
distruzione dell'apparato statale è cosa di non facile e non
immediata realizzazione, egli si chiede se sia possibile, pur
conservando, almeno in parte, strutture organizzative statali, dar
vita a rapporti di tipo federativo. E questo è il luogo che ci
interessa da vicino, perché è esattamente a questo
proposito che Proudhon affronta il problema dell'Italia. Problema al
quale egli ha dedicato, oltre che il capitolo centrale del "Principio
Federativo", anche uno scritto su "La federazione e l'unità
in Italia" e diversi interventi giornalistici.
L'Italia, infatti, essendosi appena
unificata, non ha ancora potuto darsi una organizzazione statale a
livello nazionale: essa si presenta, nel 1861, ancora come un
aggregato di piccoli stati di dimensioni regionali. Ebbene, la
proposta di Proudhon è la seguente: NON CREARE UNO STATO
NAZIONALE, BENSÌ
UNA LIBERA FEDERAZIONE DI STATI REGIONALI.
In Italia, dunque, Proudhon sperava di
veder finalmente attuato il suo progetto di una federazione tra
piccoli gruppi amministrativi, a carattere regionale appunto, nei
quali il potere estremamente indebolito e fortemente decentrato e la
preminenza del rapporto di tipo economico (paritario) su quello di
tipo politico (gerarchico) avrebbero garantito la massima autonomia e
il massimo rispetto dell'indipendenza e della libertà, tanto
agli individui quanto ai gruppi professionali e alle amministrazioni
regionali.
Terra di conquista
Per quanto agli occhi dei nostri
contemporanei possa apparire bizzarra, la proposta di Proudhon si
rivela estremamente significativa nel momento in cui l'autore stesso
espone, con una lucidità e una chiaroveggenza davvero
straordinarie, le conseguenze in cui sarebbe incorsa (e in cui
effettivamente è incorsa) l'Italia, se avesse attuato (come
effettivamente ha attuato) uno stato unitario invece di uno stato
federativo. Proudhon rileva che, nel momento stesso in cui l'Italia
si è costituita come stato unitario su piano nazionale, sono
nate anche la questione romana e, appunto, la questione meridionale:
la prima relativa al rapporto tra stato e chiesa, la seconda al
rapporto tra Nord, piemontese, e Sud, ex-borbonico. E tali questioni,
nate insieme allo stato italiano, connaturate potremmo dire alla sua
essenza più profonda, non potranno estinguersi in altro modo
che con l'abolizione dello stesso. Anche lo stato italiano, infatti, così
come tutti gli altri stati della cui formazione la storia ci è
testimone, ha avuto come fattori genetici la violenza, la
prevaricazione, l'usurpazione. Esso ha tratto origine
dall'estensione, del tutto illegittima e imposta mediante un atto di
forza, delle leggi e dei sistemi amministrativi piemontesi a tutto il
territorio nazionale. Le regioni del Sud, in particolare, vennero
considerate dalla classe dirigente settentrionale come una vera e
propria terra di conquista, passibile di una vera e propria
spoliazione e colonizzazione, le quali furono attuate mediante
l'imposizione di un sistema fiscale insostenibile e l'invio di
contingenti militari con lo scopo di sradicare, con le maniere
"forti", il male endemico di quelle regioni: il
brigantaggio.
Quello che gli statisti piemontesi del
1861 non compresero, e che l'attuale classe dirigente sembra
continuare a non voler comprendere, è che la "questione
meridionale" è connaturata all'essenza dello stato
italiano, e continuerà ad esserlo, perché all'origine
di esso ci fu quell'atto di prevaricazione, di oppressione, di
autentica invasione, violenta e del tutto illegittima, di una parte
dell'Italia nei confronti dell'altra parte, in poche parole: del Nord
nei confronti del Sud. E come pretendere, allora, che questa iniziale
violenza venga come per miracolo dimenticata, e non continui, invece,
a gravare sulla successiva storia del nostro paese, quasi come una
eredità infamante, alla quale tuttavia il nostro passato e il
nostro destino ci impediscono di sottrarci?
L'analisi della situazione dell'Italia
post-unitaria condotta da Proudhon affronta in seguito altri
problemi, come la condizione generale del proletariato italiano (che
nel nuovo stato non sembra avere alcuna possibilità di
risollevare le proprie sorti) o la politica estera (l'Italia si
inserisce come nuova potenza nello scacchiere europeo rompendo il
precario equilibrio tra gli altri paesi, per ciascuno dei quali
rappresenta un nuovo possibile antagonista) e la critica costante al
principio dell'"unità" del paese, al quale tanto
Mazzini quanto i Savoia hanno sacrificato principi ben più
nobili quali l'uguaglianza e la democrazia. Questi ultimi, osserva
Proudhon, sono assolutamente incompatibili con il concetto di "stato
unitario"; infatti, laddove l'unità richiede
necessariamente un potere autoritario e un dirigismo sia politico che
economico, l'uguaglianza, la libertà e la democrazia
richiedono invece lo smantellamento dell'apparato burocratico
nazionale a favore di una amministrazione decentrata, l'eliminazione
dell'apparato militare a favore di patti di non belligeranza tra gli
stati, la fine di un sistema di rapporti sociali imposto dall'alto a
favore di un sistema di legami e di contratti costruito a partire dal
basso; insomma: l'estinzione progressiva dell'autorità
statale, e dell'istituzione statale stessa, a favore della libera
società federativa.
L'insegnamento dunque che le pagine di
Proudhon ci lasciano, come spunto di riflessione e forse, un giorno,
di azione, è il seguente: la questione meridionale, così
come la questione romana e tutte le altre questioni che costituiscono
la spina nel fianco dello stato italiano, non può risolversi
altrimenti che con l'abolizione, o per lo meno l'indebolimento, dello
stato stesso, e con la costruzione di un sistema di organizzazione
sociale del tutto diverso, del tutto nuovo, perché non più
originato da un atto di prevaricazione e di conquista, bensì
dalla serena e consapevole adesione di ogni singolo individuo ad un
insieme di rapporti umani volti a preservare la sua libertà,
la sua indipendenza, la sua capacità di espressione vitale,
sociale e economica, al di fuori e al di là di qualsiasi
struttura coartante.
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