Rivista Anarchica Online
Musica & idee
a cura di Marco Pandin (marcpan@tin.it)
Raccontare del MIMI Festival di
quest'anno è compito piuttosto arduo.
Non si è trattato di un evento
facilmente descrivibile, lontano com'è stato da qualsiasi idea
ci si potesse ragionevolmente fare. A più di due mesi di
distanza da quei giorni difficili, resi tali per scelta e per forza
di cose, mi rendo conto che le idee e le impressioni sono ancora un
po' confuse, accatastate in qualche angolo della mia soffitta-memoria
che non ho mai voglia di riordinare. A voler fare dei paroloni, il
confronto di culture e stili suggerito da questo incontro (divenuto
ormai di reale portata internazionale, senza tener conto dell'enorme
valore "affettivo") si è quantomeno trasformato in
uno scontro di contraddizioni. Complice, certamente, l'atteggiamento
del pubblico, eterogeneo come mai prima, folto di critici ed esteti
più che di musicisti ed amatori. Sebbene la terza uscita alla
scoperta delle musiche innovatrici sotterranee abbia portato non
poche sorprese, c'è da dire subito che, proporzionalmente, le
perplessità non sono state poche. Ma andiamo con un po'
d'ordine, perché il MIMI 3 necessita di alcuni chiarimenti e
di tranquillità d'animo per essere compreso.
Situazione antipatica
A rendere l'impresa degli
organizzatori più difficile del previsto hanno ben pensato le
autorità locali, che hanno concesso, e non senza fatica, il
permesso per lo svolgimento della manifestazione dalla sera della
domenica a quella del mercoledì, invece del richiesto e
consueto fine settimana.
Questo ha senz'altro avuto
ripercussioni negative sull'affluenza del pubblico, davvero poco
numeroso rispetto alle precedenti edizioni del festival. Mi riferisco
al pubblico "abituale", perché un'altra
caratteristica di questa edizione è stata quella di contare su
di un'audience particolare per ciascuna serata: i jazzofili per la
prima, gli amanti dell'afro-beat la seconda, i new-wavers la quarta.
A quanto ho sentito, poi, sembra sia stato negato all'ultimo minuto
il permesso d'utilizzare alcuni spazi, provocando la cancellazione
della prevista rassegna di rari filmati musicali e della consueta
serie di workshop gestiti in collaborazione coi musicisti
partecipanti. I concerti pomeridiani, durante i quali veniva offerta
la possibilità di condividere lo stage improvvisando in
compagnia di altri musicisti, sono stati organizzati nella palestra
delle scuole cittadine, una sala piuttosto ampia ma decisamente
scarsa dal punto di vista tecnico-acustico, resa ancora più
invivibile da un non meglio precisato divieto di tener aperte le
finestre (problemi di convivenza col vicinato, che hanno inoltre
gravato sull'ora di chiusura dei concerti serali all'Arenes
Coinon...).
A fare da sfondo a questa situazione
antipatica - tanto per usare un eufemismo - si aggiungano la scarsità
di fondi coi quali l'AMI (Aide aux Musiques Innovatrices) si è
trovata quest'anno a gestire la manifestazione, e la mancata
partecipazione di qualche artista di notorietà internazionale
(in una conversazione con Ferdinand Richard lo scorso inverno si era
parlato della possibile partecipazione della performer americana
Laurie Anderson e, anche se non per un concerto, del musicista
inglese Robert Wyatt). Ferdinand è comunque riuscito ad
organizzare un menu artistico di tutto rispetto e di qualità
musicale mediamente molto buona, nonostante la ricorrente sensazione
che il MIMI 3 sia stato un festival con più d'una
partecipazione "di ripiego". La decisione più
rischiosa è stata quella di raccogliere nelle quattro serate
di questa edizione proposte fatte da artisti relativamente poco
conosciuti e generalmente lontani dagli imperanti standard culturali
anglo-americani. Un prezzo piuttosto duro da pagare, anche in termini
di scarso impatto pubblicitario, ma allo stesso tempo un'orgogliosa
dichiarazione d'indipendenza.
Nonostante il brutto tempo, che ha
allagato l'Arenes Coinon per buona parte del sabato, domenica sera
l'inaugurazione. È
stato lo stesso Ferdinand Richard che, in compagnia del sassofonista
Bruno Meillier ha fatto di BRUNIFERD una proposta elegante e gustosa.
Come ho avuto già occasione di raccontare (vedi A 151),
Bruniferd è un episodio del tutto particolare della musica
contemporanea: esile e complicata, la musica del duo è intrisa di
poesia e luce lunare, d'una grazia brillante ed emozionante.
Nonostante l'apparente semplicità estetica e formale,
Ferdinand e Bruno nascondono riflessi preziosissimi. Un concerto
indimenticabile, con un unico appunto da fare: come mai lo show è
lo stesso dello scorso autunno? Non c'è proprio nessuna novità
sotto il cielo di Bruniferd?
Per avere risposta non ci resta che
attendere i due di ritorno dal tour in Giappone e dalle registrazioni
per il nuovo album, attorno al quale è calata l'impenetrabile
cortina del "no comment"... Subito dopo il maxi-gruppo
lionese della MARMITE INFERNALE, una delle formazioni più
rappresentative del jazz creativo francese contemporaneo. Partiti in
quarta proponendo una composizione assolutamente travolgente, che
rifletteva in pieno le recensioni che li definivano "... un
ciclone di suoni, humour, sensibilità e creatività...",
i musicisti hanno via via perso in magnetismo e personalità.
Toccato quasi il fondo della sopportazione con una lunga sequenza
fatta di dialoghi e intersezione tra sassofoni, trombe e tromboni, la
Marmite Infernale ha risollevato un poco gli animi giocando
sull'ottima preparazione, sul senso dell'humour e sull'aspetto ed i
gesti - decisamente buffi - di alcuni componenti del gruppo.
Intrappolata in un vestito assai strano
e ridicolo, che la faceva assomigliare a un quadro di Kandinsky più
che a una cantante pop, CATHERINE JAUNIAUX ed il suo gruppo hanno
dato il via alla seconda serata. Tanto per non smentire
l'imprevedibilità di questo festival, Catherine ha organizzato
un recital divertente e gustoso, molto distante dagli acquarelli
sonori dell'album "Fluvial" da lei realizzato qualche tempo
fa assieme all'inglese Tim Hodgkinson. Frammenti quasi d'opera,
citazioni stralunate, molto divertimento intelligente e simpatia che
hanno non poco agitato il pubblico, affluito in grande numero per
applaudire lo show delle TÉTES BRULÉES, un gruppo
rock proveniente dal Camerun, che già aveva ottenuto un
colossale successo un paio di settimane prima durante un concerto
tenuto nelle vicinanze. A parte il fatto che la nuova musica africana
gode di una grande popolarità in Francia, c'è da dire
che in molti, tra il pubblico, hanno reagito "male" a
questa partecipazione così diversa, ritenendola una specie di
effetto/ritorno del colonialismo culturale o, in maniera molto più
snob, un'intromissione troppo colorata in una manifestazione che, non
senza un pizzico di sofisticato masochismo, avrebbe preferito
concettualmente più fumée ed intellettuale. Il discorso
è secondo me un po' diverso: che la loro musica, e l'afro-beat
in genere, piaccia oppure no.
Le Tètes Brulees hanno
dimostrato un'eccezionale padronanza tecnica dei loro strumenti
(raramente visti e sentiti un batterista ed un chitarrista di così
alta levatura nei numerosi concerti rock ai quali ho assistito) ed
una strategia dello spettacolo decisamente accattivante.
Presentatisi sul palco in una curiosa
tenuta fatta di pigiami a strisce e pois, zainetti, scarpe da
ginnastica nuove di zecca e occhiali da sole, faccia e braccia
dipinte come si vedeva una volta nei sussidiari delle scuole
elementari, le cinque "teste bruciate" (spero sia questa la
traduzione: il mio francese fa proprio pena...) hanno saltato in
lungo e in largo, facendo letteralmente impazzire grande parte
dell'audience. Naturalmente in molti hanno storto il naso,
specialmente tra gli abituées dei festival: cosa ci faceva un
gruppo rock, non importa di dove, in mezza ad un festival così
serio? Cosa saranno mai stati quei ritmi così ballabili? Cosa
sarà stato mai quel divertimento plateale, smodato e poco
colto?
Non pochi puristi hanno abbandonato la
platea dell'Arénes Coinon, e preferito le discussioni al
tavolo di qualche bar del paese. Che posso dirvi? Nonostante la mia
riluttanza alle agitazioni danzerecce, sono costretto ad ammettere
che, nonostante la durata eccessiva, il concerto delle Tètes
Brulées mi è proprio piaciuto (a parte un paio di
orribili canzoni in lingua francese, evidentemente composte per
motivi contrattuali e conseguenti necessità commerciali..).
Al solito, un punto interrogativo: come
mai, visto l'orientamento degli organizzatori nel proporre artisti
legati all'ambiente ed al circuito indipendente, si è optato
per un gruppo che ha di recente firmato un contratto discografico per
una potente etichetta angloamericana?
I tasti giusti dell'animo
C'è gente che sopporta di
tutto: dall'arte concettuale alle performance
cruente. C'è gente che ha assistito per intero alle sei ore
abbondanti del sonno di John Giorno immortalate da Andy Warhol in
"Sleep", e che l'ha dichiarato un capolavoro (credo neanche
il grande Andy si prendesse così sul serio...). Ho pensato a
tutta questa gente durante la performance dei francesi LES ANTIPODES,
in apertura della terza serata. Contrariamente a buona parte del
pubblico non ho apprezzato minimamente il tessuto di nastri
pre-registrati (suoni misteriosi, tuoni ed acquazzoni), percussioni e
strumenti provenienti da chissà quali paesi del mondo, ordito
da Patrick Portella e soci.
Grandi nuvole nere all'orizzonte: il
mio smarrimento si è trasformato in gioia (ed è dire
poco!) non appena la conturbante IVA BITTOVA ha fatto il suo ingresso
sul palco del MIMI 3. Un'autentica rivelazione! Di una bellezza
aggressiva, accentuata da una mise graffiante, Iva Bittova è
cecoslovacca, suona divinamente il violino e benissimo la chitarra,
canta con voce stupenda e... insomma, ne sono rimasto letteralmente
conquistato (al punto che ho sognato di fuggire romanticamente con
lei in chissà quali paesi lontani). Accompagnata dal
percussionista Pavel Fajt, quella splendida creatura ha snocciolato
una serie di piccole canzoni cristalline, minime ed emozionanti.
Peccato non capire una sola parola. Perché non organizzare,
per le prossime volte, un libretto, magari dei volantini, con testi e
traduzioni? In ogni caso, anche senza passare per le strade della
comprensione linguistica, Iva ha toccato i tasti giusti dell'animo:
richiamata a gran voce per più di un bis, ha indubbiamente
costituito uno dei vertici del MIMI Festival, edizioni precedenti
comprese.
Se il MIMI 3 si fosse concluso qui
molta gente sarebbe stata più che soddisfatta (chissà
in quanti hanno, come me, sognato di avventure nei Paesi
dell'Est...). Purtroppo c'è stata la serata conclusiva. Sugli
spagnoli MACROMASSA forse è meglio sorvolare: non contenti
delle sevizie imposte al pubblico durante uno show piuttosto triste e
monocorde, i tre (due sassofoni elettrificati e trattati, più
un chitarrista di gusto disastroso) hanno concluso in disgrazia
proponendo un rifacimento di un vecchio brano dei Black Sabbath. Da
dimenticare, quasi come i successivi inglesi BLURT, già visti
in forma migliore in Italia qualche tempo fa.
A forza di distruggere il rock ed il
jazz, il sassofonista Ted Milton ha fatto piazza pulita anche della
propria creatività.
Questi Blurt sono piaciuti solo a una
manciata di wavers accalcatisi sotto il palco, mentre la platea si
assottigliava inesorabilmente.
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