Rivista Anarchica Online
A teatro con Sylvia Plath
di Alessandra Calanchi
A ormai venticinque anni dal suo
suicidio, Sylvia Plath è assurta a simbolo del movimento di
liberazione della donna. Uno spettacolo teatrale allestito
dal laboratorio Teatro 4 ne ripropone il pensiero e la sensibilità.
I.-
"Mi sento lenta come la terra. Sono molto paziente, girando
intorno al mio tempo, i soli e le stelle mi considerano con
attenzione".
(Tre
donne: prima voce)
Chi ricorda Sylvia Plath, poetessa
americana suicidatasi nel 1963 all'età di trent'anni,
ricorderà anche il carattere essenzialmente drammatico della
sua poetica, sempre in bilico fra confessional poetry e
monologo - o dialogo - tragico. Mi ero chiesta, in passato, se il suo
linguaggio spezzato e le sue immagini metaforiche e quasi metafisiche
non potessero trovare una espressione sul palcoscenico; e per questo
ho seguito con interesse lo spettacolo "Sylvia" allestito
da una modesta compagnia di provincia - il Laboratorio Teatro 4 - che
si è esibita in prima nazionale a Castello d'Argile (Bologna)
il 31 ottobre scorso.
Il testo ricalca fedelmente Tre
donne. Poema per tre voci, un radiodramma in versi trasmesso per
la prima volta dalla BBC il 19 agosto 1962 (lo stesso anno in cui
Sylvia Plath ebbe il secondo figlio, Nicholas); ma ad esso sono
aggiunti e sovrapposti elementi tratti da varie poesie e una serie di
"quadri" che vogliono spezzare il ritmo della narrazione
sottolineando l'irruenza dell'"incalcolabile malignità
del quotidiano" nella vita così come in quella che è
la rappresentazione della vita stessa: il passaggio del tempo, la
marcia dei militari, Sylvia bambina e il padre nazista immaginario,
Hiroshima e l'uccisione dei coniugi Rosenberg sulla sedia elettrica,
il boogie-woogie dei tempi del college, lo sterminio ebraico sono
tutti "flash" che colpiscono con violenza la vista e
l'udito degli spettatori, sono altrettanti buchi nella mente di
Sylvia, "mancanze", occasioni di sofferenza o di memoria.
La maternità - è questo il tema di Tre donne -
viene vista da tre angolazioni (la madre che tiene il figlio, quella
che abortisce e quella che lascia il proprio figlio in adozione), ma
la regista - Daniela Nicosia - vuole suggerire che "le tre
voci... divengono in realtà tre proiezioni di un unico
pensiero, che si frantuma nell'esperienza di ritrovarsi riflesso
nello specchio in cui forse giace nascosta la verità
dell'individuo e della vita".
2.-
"È questo dunque il mio peccato, questo vecchio morto
amore della morte?"
(Tre
donne, seconda voce)
Il tema della maternità acquista
un'importanza particolare se pensiamo al suicidio di Sylvia Plath,
convinta di uccidere il male che era dentro di lei, e quindi
spiegabile - pure nella sua ottica distorta - con un ardente
desiderio di vita. La nascita diventa simbolo di questa stessa vita,
è la prova del continuo passaggio fra concepimento,
distruzione e rigenerazione. Questo ci fa capire la "consuetudine"
di Sylvia con la morte e la sua visione del suicidio come punto di
passaggio. Il suicidio, per la Plath, rientra nei gesti liberatori:
"La morte vera è quella inflitta dalle istituzioni (...),
si chiami esecuzione dei Rosenberg sulla sedia elettrica o
elettroshock".
In secondo luogo, i neonati
rispecchiano l'innocenza del mondo, come gli ebrei torturati dalle
SS, come i deboli sopraffatti dai più potenti. E una madre è
ancora più fragile, se si pensa all'enorme compito e
responsabilità che le vengono affidate; per questo motivo
all'inizio della versione teatrale di Tre donne il verso "non
era pronta" viene ripetuto in un'eco infinita, viene frantumato
in molteplici voci che si rincorrono e si rispondono l'un l'altra. A
questo proposito è molto importante il gioco delle ombre e
delle luci sul palcoscenico; luci violente e improvvise che ricalcano
la violenza di una sala parto, o viceversa oscurità assolute
che avvolgono palcoscenico e spettatori in una morsa inquietante
eppure, nello stesso tempo, rassicurante come quella del feto,
dell'embrione. Scrive Sylvia Plath ne La campana di vetro:
"Pensavo che la cosa più bella al mondo fosse l'ombra,
tutte le forme che si muovevano a milioni e i vicoli ciechi d'ombra".
All'oscurità Sylvia associa il movimento, la vita, il
brulichio di forme e cose; al contrario la luce smaschera
l'illusione, scopre l'immobilità e la piattezza, che è
morte. Le facce, illuminate dalla luce, sono "flat", piatte
e senza volto (le "faceless faces").
La maternità è insieme
gioia e sofferenza, fa parte dei doveri verso la società, è
momento che cessa di essere individuale per diventare collettivo e
spersonalizzante; e questa collettività è di peso alla
donna, circondata com'è da uomini e specchi che le sottraggono
la propria identità. Gli uomini giocano un ruolo importante
nella rappresentazione: alle tre "madri" (le attrici sono
Piera Dattoli, Renata Mazzanti e Clara Libertini) si aggiungono il
padre di Sylvia (l'"uomo nero, (...) scarpa nera in cui
trent'anni ho vissuto", amato e perduto all'età di dieci
anni, tanto da far scrivere alla Plath ne La campana di vetro:
"ero vissuta pienamente felice
solo all'età di nove anni"), il marito Ted Hughes (che
sottolinea il momento felice in cui "le parole respirano",
ma che lascerà poi sola Sylvia col suo inferno di visioni), i
militari (simbolo di potere e violenza; la Plath, contro la guerra,
aveva già scritto un commento pubblicato sul "Christian
Science Monitor" nel 1950), e infine c'è il Tempo, figura
anch'essa simbolicamente personificata in un personaggio maschile,
che "dirige la grande orchestra dei destini dell'uomo. Scavalca
la sofferenza, inghiotte la gioia, avvolge la memoria". Sono tutti volti maschili
rappresentati da un solo attore (Labros'Mangeras), a indicare che si
tratta di tanti aspetti dello stesso potere e della stessa violenza.
Il" Tempo" in particolare, in apertura e chiusura della
rappresentazione, inizialmente singolo e alla fine duplicato
all'infinito in una serie di specchi labirintici, è una
interessante chiave di lettura di tutta la rappresentazione. È
il Tempo che accende e spegne le luci (simboleggiate dalla luna), che
"ricompone i frammenti, unifica e rivela"; è il
Tempo il padrone dei nostri destini, è il Tempo che unisce le
tre donne in una donna sola, che dà unità alla
rappresentazione stessa. Come Prospero ne La tempesta di
Shakespeare, è il Tempo, metà uomo e metà dio,
che stabilisce la fine e l'inizio della rappresentazione così
come della vita.
3.-
"Non ero pronta. Le bianche nuvole alzandosi ai lati mi
trascinavano in quattro direzioni. Non ero pronta".
(Tre
donne, terza voce)
Sylvia Plath, assurta in seguito a uno
dei simboli del "women's lib.", espresse più volte
il suo distacco dall'America nelle sue forme di violenza (le
esecuzioni capitali, le istituzioni come i manicomi, il sesso come
violenza carnale, l'etica del successo ad ogni costo). Ne La
campana di vetro, la maternità è qualcosa che si
impara anch'essa in maniera violenta.
C'è una scena in cui il
fidanzato, Buddy - studente di medicina e arrampicatore sociale, del
tutto privo di sensibilità - fa vedere a Esther, in ospedale,
"i bambini morti prima di nascere", e poi la porta ad
assistere ad un parto. Penso che la regista avesse in mente anche
questo brano quando ha portato sulla scena Tre donne:
"Voi ragazze non dovreste vedere
queste cose - sussurrò Will al mio orecchio. - Se le vedete non
desidererete più avere bambini". (…) entrammo
nella sala. Fui così colpita dalla vista del tavolo (...) che
non dissi una parola. Pareva una specie di orrenda tavola di tortura
(...) il ventre le si era sollevato al punto che non le scorgevo né
la faccia né la parte superiore del corpo. Pareva che non
avesse altro che un ventre enorme, come un grosso ragno (...) Bene,
ella se ne sarebbe tornata a casa a fabbricare subito un altro
bambino, perché la narcosi le avrebbe fatto dimenticare quanto
mostruoso fosse il dolore passato, e invece tutto il tempo, in
qualche parte segreta di lei, quel lungo e cieco corridoio del
dolore, senza porte e finestre, stava là in agguato aspettando
di aprirsi un varco per chiudercela dentro di nuovo (...)".
Essere "pronta", allora,
significa per la donna essere consapevole di tutto questo, accettare
questo "corridoio del dolore" che è tanto simile
come immagine al "braccio della morte" dei condannati, e
che riporta in realtà alla raffigurazione simbolica
dell'utero, da cui inizia la vita. Le suggestive voci fuori campo di
Alberta Tosi, specialmente quando il palcoscenico non è
illuminato, ci giungono come "un grido, la cosa nera che dorme
dentro di me"; un'eco senza volto di immagini sospese in un
cerchio di morte, ma in cui giace forse la verità della vita.
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