Rivista Anarchica Online
Il commissario-finestra
di Patrizio Biagi
Oggi c'è chi cerca di
ricostruirgli un'immagine "dal volto umano". Ma si tratta
di un'impresa disperata, perché il commissario Luigi Calabresi
non era certamente quello che oggi molti vorrebbero far apparire.
Sedici anni fa il dott. Luigi
Calabresi, commissario della squadra politica della questura di
Milano, veniva avvicinato da alcune persone che dichiararono in
seguito di averlo fatto nell'intento di "scambiare quattro
chiacchiere come si usa tra amici". Alle contestazioni mossegli
da costoro, circa le sue palesi responsabilità nell'assassinio
dell'anarchico Giuseppe Pinelli, il commissario negò
decisamente ogni addebito. Ma quando, per tendergli un trabocchetto,
gli fu detto: "Calabresi confessa, che il tuo amico Allegra ha
parlato", il commissario, dopo essersi sbiancato in volto,
mormorò: "È
la fine della polizia di stato", poi con mossa felina (il gesto
fu talmente repentino che nessuno riuscì a fermarlo. Solo uno
dei presenti riuscì a togliergli la terza delle due pistole
che aveva con sé) afferrava una pistola e si sparava un colpo
in testa.
Una rapida inchiesta archiviò
subito il caso come morte accidentale (non volendo usare il termine
suicidio che risultava essere un tantino forte), ma le patriottiche
coscienze non potevano accettare una simile tesi e l'inchiesta fu
così riaperta, dimostrando che non di morte accidentale (o
suicidio) si era trattato, bensì di malore attivo: infatti il
Calabresi alla notizia della confessione di Allegra sarebbe dapprima
impallidito, poi, colto da malore attivo (malore che invece di
provocare un accasciamento nel colpito, provoca in lui un raptus
attivo) afferrò, senza rendersene conto, la pistola
d'ordinanza e, sempre inconsciamente, si sparò il famoso colpo
alla testa.
Questa ricostruzione dei fatti è
ovviamente fantasiosa e non risponde certo alla realtà dei
fatti, come fantasiose e non rispondenti alla realtà dei fatti
furono le varie versioni sul "volo" di Pinelli date
dalla questura e le due inchieste che ne archiviarono la morte, prima
come "morte accidentale" (??!!) e poi come "malore
attivo".
Come non ci convinse allora la tesi del
suicidio (troppo spudorate furono le menzogne della questura e di
quella magistratura che queste menzogne aveva fatte sue), non ci
convincerà in seguito, ne ci convince tuttora, la ridicola
tesi del malore attivo, tesi partorita nel clima politico di
"compromesso storico" (l'inchiesta fu chiusa nel 1975) che
sempre più si stava facendo strada, tra le forze politiche
istituzionali, nella seconda metà degli anni '70.
Pinelli cadde a piombo sotto le
finestre della questura. Un malore attivo lo avrebbe dovuto portare
(lui alto 1,67) ad oltrepassare con un balzo il davanzale di una
finestra che (con l'aggiunta di una piccola ringhiera) misurava ben
94 cm. Salto abbastanza difficile da attuare se si pensa che avrebbe
dovuto compierlo da fermo, stando vicino al davanzale e senza
prendere nessun tipo di rincorsa. In più il corpo in caduta
avrebbe dovuto descrivere una parabola, che avrebbe allontanato il
suo corpo di qualche metro dal muro dell'edificio, e non cadere a
piombo come un oggetto inerte. Un'altra cosa: in quale paese
"democratico" si è mai visto un inquisito che,
durante l'interrogatorio, viene lasciato libero di avvicinarsi ad una
finestra aperta, senza che venga presa la benché minima
precauzione onde evitare tentativi di suicidio derivanti dalla
durezza dell'interrogatorio.
Calabresi, che oggi la stampa ha
rivestito degli "abiti nuovi" di poliziotto democratico che
fa il suo dovere per il bene della collettività (chissà
quale) ecc. ecc., fu tra gli artefici, insieme al giudice Antonio
Amati, all'allora questore di Milano Marcello Guida, al capo
dell'ufficio politico della questura Antonino Allegra, al giudice
Ernesto Cudillo, al pubblico ministero Vittorio Occorsio, al
giornalista del "Corrierone" Giorgio Zicari e ad altri meno
noti ma ben più pericolosi, di una vasta montatura tendente a
screditare i movimenti di emancipazione e della "nuova"
sinistra, nel tentativo di giustificare una involuzione più
autoritaria del sistema. Montatura che ebbe le sue punte massime
nell'addossare, contro ogni evidenza e ragionevolezza, la
responsabilità delle bombe del 25 aprile (Fiera Campionaria e
Stazione Centrale), dell'8 e 9 agosto (attentati a vari treni) e la
strage di stato del 12 dicembre 1969 agli anarchici.
Calabresi fu forse una figura di
secondo piano all'interno di questo vasto disegno reazionario,
cionondimeno il suo nome sarà di gran lunga il più
tristemente famoso di tutti e resterà per sempre e
indissolubilmente legato alla morte di Giuseppe Pinelli. Sarà
sempre ricordato, nella coscienza di molti che quei momenti hanno
vissuto, come il maggiore responsabile (assieme agli altri presenti
in quella stanza della questura: Panessa, Mucilli, Mainardi,
Caracuta, il ten. dei carabinieri Lo Grano, ...) della morte
dell'anarchico. Ma cerchiamo ora, con l'aiuto di alcuni brani di
scritti contemporanei alle gesta del nostro eroe, di ridefinire il
più nettamente possibile, anche se per sommi capi, un
"profilo" che la stampa, a seguito della riapertura delle
indagini sulla sua morte, ha contribuito a rendere oltremodo sfumato.
(...) Nel 1966, Calabresi fa un
viaggio in America: viaggio di istruzione; frequenta - si dice - un
corso di specializzazione presso la CIA. L'anno dopo arriva a Roma il
generale Edwin A. Walker (mente militare di Barry Goldwater, leader
della destra filofascista americana) e Calabresi gli fa da gorilla e
da accompagnatore nei salotti SIFAR-SID e gli presenta alcuni
colleghi generali, quali Aloia e De Lorenzo (...)[1].
Nel '69 viene trasferito a Milano
giusto in tempo per occuparsi a modo suo delle bombe del 25
aprile.
In tandem con il giudice Amati
indirizza subito, e a senso unico, le indagini verso gli ambienti
anarchici e dopo aver fatto passare molti anarchici al setaccio ne
tratterrà alcuni come colpevoli dei due attentati (Braschi,
Faccioli, Vincileoni e Corradini, ai quali si uniranno più
tardi Pulsinelli, Della Savia, Norscia e Mazzanti).
È
curioso notare il metodo, forse imparato dai suoi "maestri"
della CIA, da lui usato nel condurre le indagini e che lo portano
spesso a valicare i limiti del suo specifico ruolo di semplice
commissario aggiunto della squadra politica.
Difatti (...) È
lui che, sostituendosi ai magistrati, va in carcere a far fare
perizie calligrafiche ai detenuti ed estrae il Braschi da San Vittore
per fargli riconoscere ad ogni costo la cava fatale[2]:
è lui che notifica i mandati di cattura rabbiosamente emessi
da Amati dopo l'ordinanza della Corte d'Appello[3].
È lui che insieme ai suoi tre fedelissimi
percuote e minaccia Faccioli negli interrogatori, è lui che,
secondo le deposizioni e le lettere degli anarchici, non lascia
dormire il Faccioli per tre giorni e tre notti e con un pretesto lo
porta fuori Milano in macchina per farlo scendere ed ordinargli di
correre avanti, mentre lui vien dietro a fari spenti ("Possiamo
romperti le ossa come niente, e poi dire che è stato
un'incidente..."); è lui che, sempre secondo le deposizioni
degli imputati, picchia Braschi minacciando di imprigionare
sua madre e di infilargli della droga in tasca; è in questo
periodo che lo chiamano "il comm. Finestra";
è sempre Calabresi che mette la sua firma alla deposizione
della Zublena "dimenticandosi" di farla
firmare a lei: la deposizione riguarda le responsabilità
dinamitarde degli imputati Corradini che in dibattimento la Zublena
dichiarava di non conoscere. (...)[4].
Il movimento anarchico cerca intanto di
reagire a questa montatura che non fa presagire nulla di buono.
Cominciano le stesure dei comunicati inviati alla stampa e da essa
sistematicamente ignorati, la stesura di documenti di analisi sulla
situazione, le conferenze, i sit-in davanti a San Vittore e al
Palazzo di Giustizia in solidarietà con gli anarchici
arrestati, gli scioperi della fame, le manifestazioni, ecc.. Ma se gli anarchici si muovono nemmeno
Calabresi e i suoi accoliti stanno fermi. Con ferocia aggrediscono a
sberloni gli anarchici che stazionano davanti al Palazzo di Giustizia
e distruggono diverso materiale di contro-informazione. In
quest'opera di repressione sembra che uno dei più attivi sia
stato appunto Calabresi. Il livore antianarchico di Calabresi è
talmente palese che durante una manifestazione del settembre,
arriverà persino, dopo averlo preso in disparte, a minacciare
rabbiosamente Giuseppe Pinelli: (...) a un certo punto a Pinelli
si era avvicinato Calabresi chiedendogli di sciogliere la
manifestazione. Non poteva scioglierla, dato che non
era stato lui ad organizzarla, aveva
risposto il Pinelli; in più i manifestanti avevano la sua
solidarietà. "Pinelli, stai attento",
aveva ribattuto Calabresi, "ché alla
prossima occasione te la faccio pagare, (...)[5].
Difatti nella notte tra il 15 e il 16
dicembre... 12 dicembre '69: scoppia una bomba in
piazza Fontana ed è strage.
Calabresi intervenuto subito dichiarerà
ai giornalisti presenti che per lui la strage è opera degli
anarchici.
In giornata vengono fermati 588
anarchici e militanti della sinistra extraparlamentare e 12 fascisti
(che saranno rilasciati subito dopo). Il fermo dei fascisti è
solo per fare un po' di polverone, per far vedere che si indaga in
ogni direzione senza alcuna prevenzione, ma la coppia Amati-Calabresi
ha già in mente su chi scaricare le responsabilità di
questa feroce carneficina.
Tra coloro che vengono fermati vi è
anche Giuseppe Pinelli, il quale sarà trattenuto oltre il
normale fermo di legge, senza che la magistratura venga informata di
questo prolungamento del fermo, diventando a tutti gli effetti (se
vista in un'ottica di formalità legale) un vero e proprio
sequestro di persona degno dei più biechi stati di polizia che
costellano il continente sudamericano. Pinelli entrò in
questura il pomeriggio del 12 dicembre e ne uscì (passando per
la finestra) a mezzanotte circa del 15 e in questi tre giorni fu
sottoposto a pesanti interrogatori nei quali non mancarono,
sicuramente, pestaggi, minacce e violenze morali.
(...) Verso sera un funzionario si è
arrabbiato perché parlavo con gli altri e mi ha fatto mettere
nella segreteria che è adiacente all'ufficio del Pagnozzi: ho
avuto occasione di cogliere alcuni brani degli ordini che Pagnozzi
lanciava ai suoi inferiori per la notte. Dai brani colti posso
affermare che ha detto di riservare al Pinelli un trattamento
speciale, di non farlo dormire e di tenerlo sotto pressione tutta la
notte. Di notte Pinelli è stato portato in un'altra stanza e
la mattina mi ha detto di essere molto stanco, che non lo avevano
fatto dormire e che continuavano a ripetergli che il suo alibi era
falso. Mi è parso molto amareggiato. (...). Io gli ho detto:
"Pino perché ce l'hanno con noi?" e lui molto amareggiato
mi ha detto: "Sì, ce l'hanno con me". (...). Verso
le otto è stato portato via e quando ho chiesto ad una guardia
dove fosse mi ha risposto che era andato a casa. (...). Dopo un po',
verso le 11,30, ho sentito dei rumori sospetti come di una rissa e ho
pensato che Pinelli fosse ancora lì e che lo stessero
picchiando. Dopo un po' di tempo c'è stato il cambio di
guardia, cioè la sostituzione del piantone di turno fino a
mezzanotte.
Poco dopo ho sentito come delle sedie
smosse ed ho visto gente che correva nel corridoio verso l'uscita,
gridando "si è gettato". Alle mie domande hanno
risposto che si era gettato il Pinelli: mi hanno anche detto che
hanno cercato di trattenerlo ma non vi sono riusciti. Calabresi mi ha
detto che stavano parlando scherzosamente del Pietro Valpreda,
facendomi chiaramente capire che era nella stanza nel momento in cui
Pinelli cascò. Inoltre mi hanno detto che Pinelli era un
delinquente, aveva le mani in pasta dappertutto e sapeva molte cose
degli attentati del 25 aprile.
Queste cose mi sono state dette da
Panessa e Calabresi mentre altri poliziotti mi tenevano fermo su una
sedia pochi minuti dopo il fatto di Pinelli (...)[6]. L'arresto dei due ex-dirigenti e dei
due ex-militanti della ex organizzazione Lotta Continua[7]
fa pensare che sia in atto qualcosa di più della
semplice ricerca della verità sulla morte di Calabresi, fa
pensare che qualcuno intenda cancellare e riscrivere la storia di un
periodo, che culturalmente e politicamente ha significato molto per
l'acquisizione di sempre più ampi spazi di libertà,
riconducendolo ad un semplice scontro violento e militare tra lo
stato e i suoi antagonisti, dove questi ultimi rappresentavano le
forze disgregatrici della "democrazia". Parola sempre
pronta ad uscire fuori, e molto spesso a sproposito, come il classico
coniglio dal cilindro del prestigiatore. Non solo. Nel frattempo si
tenta di "riabilitare", di fronte a chi ha la memoria corta
e non possiede memoria storica, un personaggio che non potrà
mai essere riabilitato.
Non vorremmo passare per gente che si è
costruita la sua bella "verità" preconcetta, ma
pensiamo che la verità sulla fine di Pinelli sia ancora
presente sui muri, e che basterebbe scrostare qualche strato di
vernice per trovarvi scritto sotto a caratteri cubitali: Pinelli è
stato assassinato!.
[1]Un uomo di
successo, articolo apparso su Lotta Continua e riportato in:
Crocenera Anarchica, Le bombe dei padroni, Biblioteca delle
collane Anteo e La rivolta, Catania, 1970.
[2] Cava dove Paolo Braschi,
assieme a Piero Angelo Della Savia, si sarebbe procurato, secondo
l'accusa, l'esplosivo per confezionare le bombe, e in cui, sarebbe
risultato in seguito, non si verificò alcun furto di
esplosivo.
[3] Dopo oltre sette mesi di
carcerazione, la Corte d'Appello concesse la libertà
provvisoria a cinque degli anarchici arrestati, ma mentre Eliane
Vincileoni e Giovanni Corradini poterono uscire, per gli altri tre
(Braschi, Faccioli e Pulsinelli) il giudice Amati spiccò
nuovi mandati di cattura evitando così la loro
scarcerazione e giustificando questo provvedimento con il fatto di
avere acquisito una preziosa supertestimone. La supertestimone di
Amati sarà Rosemma Zublema, una psicolabile che al processo
crollerà dimostrando di essere stata strumentalizzata dallo
stesso Amati e dal commissario Calabresi.
[4] Camilla Cederna, Pinelli una
finestra sulla strage, Feltrinelli, Milano, 1971.
[5] id.
[6] Stralci della testimonianza di
Pasquale Valitutti riportata in : Crocenera Anarchica op. cit.
[7] Un certo Manconi, ex militante di
Lotta Continua, ha scritto tempo fa sul Manifesto la "sua"
ricostruzione di quel periodo e dalla quale traspare esplicitamente
che l'opera di controinformazione sulle bombe del '69 sia stata
portata avanti completamente da Lotta Continua. Al riguardo si
potrebbe ricordare al suddetto Manconi che dall'aprile '69 alla fine
gennaio '70, momento in cui scesero in piazza tutte le formazioni
della sinistra m-l, gli anarchici si ritrovarono soli e quasi isolati
nel portare avanti l'opera di controinformazione a causa della miopia
politica delle organizzazioni parlamentari, che non essendo ancora
direttamente esposte (come invece lo erano gli anarchici) alla
repressione, forse pensavano di poterci passare attraverso indenni.
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