Rivista Anarchica Online
La loro droga
di Carlo Oliva
Si può dire quello che si
vuole, sull'ottimo Craxi, ma non che non abbia il genio di far
parlare di sé. Sarà un pessimo ideologo, non lo nego,
un politico discutibile, uno statista dalle dimensioni
drammaticamente inferiori a quelle che afferma di avere, ma come
protagonista di questa nostra società dello spettacolo è
grande. Dategli un cavallo bianco da cavalcare, o, fuor di metafora,
un argomento capace di far presa sull'immaginario popolare e su
quello dei media, e vedrete che dalla luce dei riflettori non
riuscirà più ad allontanarlo nessuno.
Così, da un paio di mesi ci sta
facendo discutere tutti, con notevole vantaggio della sua immagine
pubblica, e, suppongo, del suo ego, sulla proposta di "risolvere"
il problema della droga bastonando ben bene i tossici. Una proposta
tipicamente spettacolare, che affronta un problema drammatico con un
piglio ad effetto, secondo le regole di quella che una volta si
definiva strategia da caffè ("saprei io come metterli
tutti a posto, quelli..."), senza tenere in gran conto i dati
disponibili sull'argomento e le opinioni degli operatori qualificati.
Non gli importa, a quanto pare, se la bella pensata ha spiazzato il
suo partito, che l'ha fatta propria dopo molte esitazioni e in forma
variamente attenuata, e ha permesso di darsi un tono libertario e
permissivista con poca spesa ai suoi concorrenti diretti (persino ai
democristiani): quello che conta, evidentemente, al di là
della stessa dialettica politica, è la capacità di
tenere il campo delle comunicazioni pubbliche. E si sa che le
condizioni del circuito dell'informazione in Italia danno a questo
riguardo ogni desiderabile garanzia.
Come l'araba fenice
Sul merito, in fondo, non c'è
molto da dire. Si è già detto molto (vi ho accennato
anch'io, in altra sede) sull'insita immoralità di un progetto
che intende trasformare in colpevoli di una certa situazione coloro
che ne sono evidentemente le vittime. È un'immoralità
che fa parte della peggior tradizione politica italiana, e risale, in
ultima analisi, a una concezione dell'uomo che, in quanto peccatore,
si procura da sé i propri mali, che risale per lo meno alla
Controriforma, se non direttamente ad Agostino: nulla a che fare,
naturalmente, con il pensiero laico, per non dire di quello
socialista, ma comodo per chi governa, perché gli affida il
compito di impedire ai sudditi-cittadini di farsi del male,
generalmente mediante una serie di divieti e di punizioni.
Vietare e punire, naturalmente, è
molto più facile che non organizzare una società
complessa, disomogenea e ideologicamente disorientata, in cui, fra
l'altro, i propositi di severità, quando dichiarati,
raccolgono, proprio perché facili da comprendere, un appagante
consenso.
Naturalmente decidere che è
vietato drogarsi, e che chi si droga sarà punito è una
cosa, e dettagliare il principio e il relativo divieto in norme
positive è un'altra. La definizione scientifica di che cosa è
una droga è come l'araba fenice, soprattutto quando si vuole
comprendervi a priori i derivati dalla cannabis ed escludere
l'alcool e il tabacco, che fanno altrettanto male, ma hanno uno stato
giuridico e commerciale notoriamente diverso. La polemica tradizionale sulla
distinzione tra "droghe leggere" e "droghe pesanti"
è ingenua, e per di più risolve in partenza il
problema, perché unifica con il sostantivo ciò che
distingue con l'aggettivo, il che praticamente impone di stabilire il
principio, così caro a tutti i proibizionisti, per cui chi
comincia con le une finisce irrimediabilmente con le altre (e sarà
vero, forse, nelle condizioni attuali del mercato, ma è cosa
che da queste condizioni dipende, e del resto aspettiamo con ansia
un'analisi su cosa succede a chi comincia con il barbera o con le
emme esse). D'altronde, si sa che quella di "droga pesante"
è una categoria, al più, merceologica, che gli oppiacei
e la cocaina hanno effetti diversi e rispondono a modalità di
commercializzazione e di consumo diverse, che tutti i prodotti che si
trovano in farmacia con o senza ricetta sono un'altra cosa ancora. In
generale, la situazione è tale per cui è lecito
aspettarsi un provvedimento che irrigidisca la situazione, lasciando
tutto come sta, ma introducendo il principio della punibilità
dei consumatori, che sono l'anello più debole della catena e
quindi le vittime designate, oltre che della loro personale scelta di
morte, di un sistema che ha sempre trovato assai confacente ai propri
interessi il mostrarsi forte con i deboli.
Quella di definire a norma di legge un
principio morale concernente un comportamento privato è
certamente una bella pretesa. Ma fatto sta che, al di là delle
statuizioni morali, si è anche detto che l'abolizione del
principio della "modica quantità" (un altro dei
portati della cultura di quegli anni '70 cui oggi è uso
attribuire ogni possibile nocività), deve servire soprattutto
a permettere una repressione adeguata dell'attività degli
spacciatori. E qui la proposta, da semplicemente ineffabile, comincia
a farsi pericolosa, perché incorpora e afferma implicitamente
il principio per cui il problema principale è quello del
piccolo spaccio, a quel livello, diciamo così, terminale a cui
consumatore e spacciatore si identificano.
Un grande bla bla
Con il che, saremmo davvero a posto. La
nuova normativa assegnerebbe definitivamente alla malavita un intero
settore sociale che oggi si colloca piuttosto ai suoi margini,
affidandolo alle amorevoli cure delle forze dell'ordine e a quelle
degli staff carcerari (sulle cui potenzialità come strumento
di recupero sociale abbiamo tutti qualche idea), proprio quando
aumenterebbe la sua dipendenza dalle strutture della grande
criminalità, cui non si vede, d'altronde, quale gran danno dal
provvedimento potrebbe derivare. Il tutto, naturalmente, sarà
condito da un grande bla bla, sulla necessità di garantire il
recupero, prescrivendo magari l'affidamento del tossicodipendente a
comunità che non esistono (e quando esistono escludono, in
genere, come non efficace l'internamento coatto), sull'opportunità
che la scuola ammonisca i giovinetti su quanti rischi comporti
l'assunzione di certe sostanze, come se non lo sapessero già
tutti benissimo, e via dicendo. Di chiacchiere vane la classe
dirigente italiana è prodiga quasi quanto di divieti. Il
principio secondo cui dell'assoluta efficienza delle strutture messe
a disposizione dei cittadini non si deve mai dubitare, per quanto
universalmente nota sia la loro inefficienza effettiva, ha per i suoi
esponenti valore di dogma. Il fatto è che i bisogni della
gente, per costoro, sono qualcosa di ignoto e remoto, che non giunge
fino al mondo chiuso in cui giocano, a nostre spese, la loro partita.
Nessuno di loro saprà mai dell'infelicità che spinge
tanti esseri umani a percorrere fino in fondo la via della droga,
delle sue cause e delle relative responsabilità collettive.
D'altronde, perché dovrebbero curarsene? Non certo per agire:
ad agire, per lo più, non pensano affatto. Vietare e punire è
molto, ma molto più facile. E molto più appagante. È
la loro vera droga.
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