Rivista Anarchica Online
Gli artigli della medicina
di Paolo Finzi
Il sistema sanitario, si sa, fa schifo.
Uso questo eufemismo perché al momento non mi viene alcuna
definizione più appropriata - e necessariamente molto più
drastica. Basta andarsi a leggere i risultati
della documentatissima indagine "sul campo" svolta
recentemente dal Tribunale per i diritti del malato (ne ha riferito
ampiamente anche la trasmissione di RAI 2 "Diogene"), per
trovare innumerevoli conferme e sempre nuovi spunti per un simile
giudizio.
Francamente, penso che basti
l'esperienza diretta o indiretta di ciascuno di noi, a contatto con
le strutture istituzionali (pubbliche e private) della Medicina con
la "M" maiuscola, per comprendere il cinismo e l'assurdità
del sistema sanitario in Italia (ma non solo qui).
Alla faccia di riforme promesse,
roboanti dichiarazioni e via discorrendo, la situazione di fondo è
sempre la stessa. Il cittadino "malato" (e già su
questa definizione ci sarebbe tanto su cui discutere) formalmente al
centro di un sistema che si fonda - a parole - sulla soddisfazione
dei suoi bisogni, è l'ultima ruota di un ingranaggio
mastodontico, farraginoso, kafkiano: certamente assurdo e spesso
patogeno, quando non assassino, ma altrettanto certamente non assurdo
- anzi, perfettamente logico e funzionale - se visto dalla parte
della classe medica, dei baroni-primari, della lobby dell'industria
farmaceutica, ecc.: di chi, insomma, sulla Medicina ci marcia,
eccome. Le responsabilità di questa
situazione sono molteplici, tra loro intrecciate, incancrenite nel
tempo. Si va dalla politica sanitaria dei vari governi che si sono
succeduti, al ruolo particolarmente pesante giocato in questo settore
dalle istituzioni religiose (con tutto il peso condizionante
dell'ideologia cattolica), dal menefreghismo di molti a pesanti
retaggi culturali.
È
facilissimo - e più che legittimo - parlare male del sistema
sanitario. Più complesso, come sempre, è cercare di
approfondire la conoscenza di suoi singoli aspetti, metterne in luce
mentalità abominevoli e pratiche conseguenti, e soprattutto
operare concretamente per contribuire a cambiare le cose.
Spunti decisamente interessanti per
riflessioni di questo tipo li ho colti assistendo ai lavori del
convegno internazionale "Prima le donne e i bambini. Nascita e
parto, cosa cambiare", promosso dal Centro Studi e Ricerche
sulla Maternità (via Bagutta 12, 20121 Milano) e tenutosi
presso l'ospedale milanese San Carlo il 19 ed il 20 novembre.
Decine di relazioni, proiezioni di
diapositive, tabelle, ecc... presentate da operatrici ed operatori
del "settore", hanno affrontato la questione
gravidanza/parto, una volta tanto sottratta agli artigli della
Medicina e restituita a chi di questo processo assolutamente
"naturale" dovrebbe essere protagonista ed invece - una
volta entrato nel mondo della Medicina - ne diviene solo un oggetto,
a volte una vittima: la donna (gestante, puerpera) ed il bambino.
È
stata proprio l'ineluttabilità della medicalizzazione della
gravidanza ad essere al centro dell'approccio critico di molte delle
intervenute. Sull'argomento vi sono numerosi saggi, ricerche, studi
scientifici: impossibile riassumerne in questa sede nemmeno le tesi
principali. Ci si accontenti - per intendere la portata del problema
- della constatazione che da tempo, in Italia, praticamente il 100%
dei parti (con pochissime eccezioni) avviene in ospedale. E che in
ospedale, diciamo nel 95% dei casi, la donna è sottoposta ad
un trattamento di routine, che di tutto tiene conto fuorché
delle necessità sue e del nascituro/neonato.
Grazia Colombo, sociologa presso la
USSL 67 di Garbagnate Milanese, ha presentato i risultati di
un'indagine condotta estensivamente negli ospedali lombardi (regione,
si badi bene, considerata all'avanguardia in Italia in questo campo),
da cui risulta che - per esempio - praticamente mai medici e
ostetriche "si presentano" alla partoriente (dicendo il
proprio nome), né le spiegano che cosa le stanno per fare o le
stanno facendo né il perché, tantomeno le chiedono se è
d'accordo. Da questa e da altre relazioni emerge la realtà di
una vera e propria "catena di montaggio", tarata sulle
necessità e le comodità degli "operatori
sanitari": da più parti si è sottolineato che
tutta una serie di interventi anche di tipo "chirurgico"
(quindi per niente irrilevanti per la donna) - quali il taglio
cesareo o l'episiotomia (un'incisione tra vagina ed ano "per
evitare lacerazioni") - vengono effettuati in modo sistematico
solo per rendere più rapido il parto, senza alcuna
attenzione alle opinioni della donna e alle conseguenze sulla sua
pelle.
Per analoghe ragioni, c'è chi ha
evidenziato che negli ospedali spesso si interviene in vario modo per
far anticipare o ritardare l'evento-parto, in modo che non avvenga
quando è "scomodo" per i medici (di notte, per
esempio). Lo stesso uso e abuso di pratiche
dolorose (la visita interna "invasiva") o in varia misura
"a rischio" (dall'ecografia all'amniocentesi), così
come la raccomandazione alla gestante di frequenti visite
ginecologiche (che, anche quando fatte nell'ambito della struttura
pubblica, vengono fatte passare come visita privata, quindi
profumatamente pagata... "a meno che Lei voglia mettersi in
lista, tenga presente che per i prossimi due mesi però il
dottore e impegnato"), tutto ciò viene fatto passare per
il "progresso della scienza" mentre incrementa solo il
portafogli dei ginecologi e soprattutto - quel che è ancora
peggio - perpetua quel sistema di delega totale della propria vita,
salute e dignità che è la cornice - e la base di
legittimazione - dell'attuale sistema assurdo e disumano.
Le resistenze al cambiamento, in questo
come in molti altri campi, sono fortissime. Ne è un esempio il
sostanziale naufragio della legge regionale lombarda n. 16/1987,
"legge di iniziativa popolare" è stato sottolineato,
che ha fissato sulla carta tutta una serie di principi e di
provvedimenti in netta controtendenza con la sempre più
accentuata medicalizzazione della maternità. Ed anche dove il
personale medico e paramedico si è impegnato a fondo in questa
direzione, senza aspettare - per quanto possibile - l'aiuto delle
strutture sanitarie ufficiali e ristrutturando in senso più
umano i luoghi ed i tempi dell'evento-parto (come nell'ospedale
pubblico di Zevio - Verona), la struttura ospedaliera si è confermata
in sé ostacolo per certi aspetti insuperabile per una sua
umanizzazione. Se interessante è apparsa
l'esperienza delle "case di maternità" diffuse ormai
a centinaia negli Stati Uniti e presentate al convegno dall'ostetrica
newyorkese Ruth Watson Lubik, indubbiamente l'iniziativa più
stimolante anche da un punto di vista libertario è quella
portata avanti a Milano da alcuni anni dal gruppo della Lunanuova.
Si tratta di un gruppo composto
(attualmente) da sei ostetriche, tutte con esperienza di lavoro nelle
strutture pubbliche, impegnate - come si legge nel loro statuto - a
"diffondere informazioni sull'evoluzione della gravidanza, del
parto, del puerperio, per consentire alla donna una gestione maggiore
della propria salute, per contribuire alla demedicalizzazione
dell'evento nascita". In pratica, questo gruppo - oltre ad
organizzare gruppi di incontro settimanali durante la gravidanza e
periodici durante il primo anno del bambino - assicura consulenze e
visite ostetriche, assistenza durante il travaglio ed il parto in
ospedale e soprattutto assistenza al parto in casa (hanno
"realizzato" a tutt'oggi 29 parti in casa) ed al puerperio
dopo dimissione precoce dall'ospedale.
Niente di sovversivo, certo. Eppure
dalla lucida relazione al convegno di una di loro (Rossana Schejola)
e, in parallelo, dalle mille denunce della situazione ospedaliera, è
emersa la carica dirompente - innanzitutto sul piano culturale -
delle proposte e dei metodi di lavoro della Lunanuova (per contatti:
Clara Chiodini).
Contrastare concretamente la
medicalizzazione del parto e addirittura impegnarsi per sottrarlo ai
luoghi della Medicina (simboleggiati dall'Ospedale) e riportarlo nel
suo ambito naturale - la casa - senza per questo rinunciare a quanto
di positivo può assicurare la scienza, non è cosa di
poco conto. Il fatto che i Baroni e la Medicina ufficiale guardino
alla loro esperienza con un misto di sufficienza e di derisione non
può che essere fonte di conforto e di impegno a proseguire.
Prima le donne e i bambini, dunque. E
fuori i baroni.
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