Rivista Anarchica Online
Viviamo tutti a Bhopal
di George Bradford
Quattro anni fa, in India,
l'incidente ad uno stabilimento chimico dell'Union Carbide:
tremila morti, decine di migliaia di invalidi. In questo articolo, scritto "a
caldo" dopo quella tragedia, si spiega perché non si è
trattato di un incidente, bensì del frutto logico e di un
modello di sviluppo chiamato "progresso".
Le ceneri dei roghi funebri di Bhopal
(1) sono ancora calde e le fosse comuni sono ancora fresche, ma i
media asserviti alle grandi compagnie hanno già cominciato a
recitar sermoni in difesa dell'industrialismo e dei suoi innumerevoli
orrori. Circa 3.000 persone sono perite per colpa della mortale nube
gassosa e oltre 20.000 rimarranno menomate per sempre.
Il gas velenoso, che si è
diffuso su un'area di 25 miglia quadrate a sud-est degli stabilimenti
della Union Carbide, ha seminato la morte tra gli uomini e gli
animali. "Pensavamo che fosse scoppiata una pestilenza" ha
raccontato una delle vittime. E lo era, infatti: una pestilenza
chimica, una pestilenza industriale.
Ceneri, ceneri, cadono giù!
L'apparato propagandistico del
Progresso, della Storia, della "Vita Moderna" ci rassicura:
è stato soltanto un terribile, sfortunato " incidente".
Del resto, si sa che c'è un prezzo da pagare - per garantirsi
uno Standard di Vita più Elevato e un'Esistenza Migliore
bisogna pur correre qualche rischio.
Il Wall Street Journal,
portavoce della borghesia, ha scritto: "Non bisogna dimenticare
che la fabbrica di insetticida della Union Carbide e la popolazione
circostante si trovavano dov'erano per forza di cose. L'agricoltura
indiana si sta sviluppando, offre migliori condizioni di vita a
milioni di contadini, e tutto ciò grazie anche alle moderne
tecnologie agricole, che comportano l'uso di insetticidi".
Secondo questo sermone, è
indiscutibile e universalmente riconosciuto il fatto che l'India,
come qualsiasi altro paese, "ha bisogno della tecnologia. La
miseria, come quella che si vede a Calcutta, scomparirà a mano
a mano che l'India potrà importare i benefici della
rivoluzione industriale e dell'economia di mercato occidentali".
Per quanti pericoli ciò possa comportare, "i vantaggi
sono superiori ai costi" (13 dicembre 1984).
Una verità almeno il Journal
l'ha detta - non v'è dubbio che gli stabilimenti e la
popolazione si trovassero ambedue in quel luogo per forza di cose:
per le piccole comunità, dalle quali quella gente era stata
sradicata, la forza dei rapporti di mercato capitalistici e
dell'invasione tecnologica è irresistibile come quella di un
uragano. Ma l'autore dell'articolo si è ben guardato
dall'osservare che in realtà i paesi come l'India non riescono
a importare i benefici del capitalismo industriale, giacché
essi devono essere esportati per ripagare i debiti e
rimpinguare le casse dei banchieri e degli industriali vampiri che
leggono il Wall Street Journal per sapere come vanno i loro
investimenti. Agli Indiani toccano soltanto i rischi e l'eventuale
scotto da pagare; tanto per loro, come per le masse impoverite che
vivono nelle baraccopoli del Terzo Mondo, non esistono rischi, ma
soltanto la certezza della fame, delle malattie e delle rappresaglie
delle squadre della morte contro chi osa criticare lo stato delle
cose.
La rivoluzione verde un incubo
Di fatto, una miseria come quella che
si vede a Calcutta è il risultato dell'industrializzazione del
Terzo Mondo e della cosiddetta "rivoluzione verde,"
industriale nell'agricoltura. La rivoluzione verde, che avrebbe
dovuto rendere più produttive le agricolture dei paesi
"arretrati", ha beneficiato soltanto le banche, le grandi
compagnie e le dittature militari che le proteggono. L'introduzione dei fertilizzanti, della
tecnologia, degli insetticidi e di un'amministrazione burocratica ha
sgretolato economie rurali millenarie fondate sulle colture di
sussistenza, creando una classe di agricoltori più abbienti,
vincolati alle tecnologie occidentali che consentono di produrre
colture commerciali destinate all'esportazione, come il caffè,
il cotone e il grano, mentre la maggior parte della popolazione
contadina, rovinata dalla concorrenza mercantile capitalista, è
stata costretta a emigrare dalle campagne nelle città in
continua espansione. Queste vittime, al pari dei contadini
europei di qualche secolo fa, rovinati dalla rivoluzione industriale,
sono andate a incrementare l'eterna sottoclasse dei disoccupati e dei
sub-occupati, che popola le baraccopoli e lotta per la sopravvivenza
ai margini della civiltà, oppure sono diventate carne da
macello proletaria nelle varie Bhopal, San Paolo e Giacarta di un
mondo in fase di industrializzazione - un processo attuato, come
tutte le industrializzazioni della storia, a spese della natura e
della popolazione delle campagne. Naturalmente, in qualche caso la
produttività alimentare aumenta, ma soltanto in senso
quantitativo - alcuni alimenti scompaiono, mentre altri vengono
prodotti tutto l'anno, anche per l'esportazione. L'agricoltura di
sussistenza, però, viene distrutta. Ne subiscono le
conseguenze non soltanto il paesaggio rurale, che comincia a patire
per effetto dell'incessante susseguirsi dei raccolti, ma anche la
massa della popolazione - i lavoratori della terra e gli abitanti
delle brulicanti baraccopoli che crescono intorno agli insediamenti
industriali - condannati alla fame dal circolo vizioso dello
sfruttamento, mentre il grano viene esportato per acquistare assurdi
beni di consumo e armi.
Ma l'economia di sussistenza è
anche cultura; distruggendo l'una si distrugge anche l'altra, e la
popolazione si trova sempre più intrappolata nel labirinto
tecnologico. È
l'ideologia del progresso, decantata a gran voce da coloro che hanno
qualcosa da nascondere e usata come copertura per giustificare
saccheggi e massacri senza precedenti.
L'industrializzazione del Terzo
Mondo
Il fenomeno dell'industrializzazione
del Terzo Mondo è ben noto a coloro che s'interessano, seppur
minimamente, a ciò che accade. I paesi coloniali non sono
altro che pattumiere e riserve di manodopera a basso costo per le
grandi compagnie capitalistiche, che vi inviano tecnologie obsolete e
vi installano impianti per la produzione di prodotti chimici,
medicinali e altre sostanze bandite nei paesi sviluppati. La
manodopera è a buon mercato, le norme di sicurezza sono scarse
o inesistenti e i costi sono ridotti. La formula
costi-benefici resta valida, solo che il prezzo viene pagato da
altri, dalle vittime della Union Carbide, della Dow Chemical, della
Standard Oil.
Le sostanze chimiche che si sono
rivelate pericolose e sono state messe al bando negli USA vengono
prodotte oltremare - il DDT è l'esempio più noto, ma ve
ne sono tantissime altre, come l'insetticida Leptophos, un prodotto
non registrato ed esportato dalla Valsicol Corporation in Egitto,
dove intorno alla metà degli anni '70 provocò morti e
malattie tra i contadini. Altri prodotti vengono semplicemente
scaricati nel Terzo Mondo, come il frumento inquinato dal mercurio,
esportato dagli Stati Uniti in Iraq nel 1972, che causò la
morte di 5.000 persone. Un altro esempio è quello
dell'inquinamento selvaggio del lago di Managua, in Nicaragua, a
opera di una fabbrica di cloro e soda caustica di proprietà
della Pennwalt Corporation e di altri azionisti, che determinò
un tasso elevatissimo di avvelenamento da mercurio nelle acque che
costituivano la principale fonte di approvvigionamento di pesce degli
abitanti di Managua.
Lo stesso ispettore della Union Carbide
ha ammesso che gli impianti di Bhopal non erano conformi alle norme
di sicurezza statunitensi, e un esperto delle Nazioni Unite per i
problemi relativi al comportamento delle aziende internazionali ha
dichiarato al New York Times che "numerosi fattori impediscono
un adeguato livello di sicurezza industriale" nei paesi del
Terzo Mondo. "Sotto questo aspetto, la Union Carbide non si
differenzia da tutte le altre aziende chimiche". Secondo il
Times, "In una fabbrica di batterie della Union Carbide a
Giacarta, in Indonesia, più della metà degli addetti ha
subito danni al fegato a causa dell'esposizione a mercurio e in una
fabbrica di cemento-amianto (2) della Manville Corporation, a 200
miglia da Bhopal, nel 1981 gli operai lavoravano costantemente in
mezzo alla polvere di amianto, una pratica che qui non sarebbe
assolutamente tollerata" (12/9/1984).
Ogni anno circa 22.500 persone muoiono
per effetto dell'esposizione a insetticidi - e la percentuale delle
vittime nei paesi del Terzo Mondo è molto maggiore di quella
che ci si aspetterebbe in rapporto all'uso di questi prodotti in
quelle regioni. Molti esperti ritengono che la causa principale degli
incidenti e delle contaminazioni nei paesi "sottosviluppati"
sia la mancanza di una "cultura industriale".
Ma dove questa "cultura
industriale" esiste, la situazione è davvero migliore?
Come nei lager
Nei paesi industriali avanzati una
"cultura industriale" (e poco più di quella) esiste.
Ma ciò è servito a evitare disastri, come gli esperti
vorrebbero farci credere?
A dimostrazione del contrario,
basterebbe ricordare un evento non meno catastrofico di quello di
Bhopal, che causò la morte di circa 4.000 persone in un grande
centro abitato. A Londra, per la precisione, dove nel 1952 le
"normali" sostanze inquinanti concentratesi per diversi
giorni nell'aria stagnante, avvelenarono a morte o causarono danni
irreversibili a migliaia di persone.
Ma ci sono stati disastri anche più
vicini a noi nel tempo e nello spazio. Ad esempio, quello della fossa
di Love Canal (3) (le cui infiltrazioni interessano tuttora il
sistema idrico dei Grandi Laghi), o le massicce contaminazioni
provocate dalla diossina di Seveso, in Italia, e a Times Creek, nel
Missouri (4), per effetto delle quali migliaia di abitanti dovettero
abbandonare per sempre le loro case. O ancora la fossa clandestina
della Berlin & Farro a Swartz Creek, nel Michigan, dov'erano
stati sepolti bidoni contenenti C-56 (un prodotto secondario
dell'industria degli insetticidi, altamente inquinante), oltre ad
acido cloridrico e cianuro provenienti dalle fabbriche
automobilistiche di Flint (5). "Pensano che non siamo
scienziati, che non siamo abbastanza istruiti", disse, furente,
uno degli abitanti della zona, "ma chiunque abbia frequentato
il liceo sa che nei campi di concentramento usavano una miscela di
acido cloridrico e cianuro per ammazzare la gente".
Se ne ricava un'immagine davvero
impressionante: quella della civiltà industriale come un
unico, grande, puzzolente campo di sterminio. Viviamo tutti a Bhopal,
alcuni più vicini di altri alle camere a gas e alle fosse
comuni, ma tutti abbastanza vicini alle vittime. E quello della Union
Carbide, ovviamente, non è stato un caso - tutti i giorni,
dappertutto, veleni di ogni sorta vengono immessi nell'aria e nelle
acque, riversanti in fiumi, stagni e torrenti, dati in pasto agli
animali che poi saranno venduti sul mercato, disseminati su prati,
strade e coltivazioni.
I risultati possono anche non essere
drammaticamente evidenti, come a Bhopal (che in un certo senso è
servito quasi da diversivo, da fattore deterrente, capace di
distogliere l'attenzione della realtà pervasiva che Bhopal in
realtà rappresenta), ma sono altrettanto letali. Quando l'ABC
News ha chiesto a Jason Epstein, docente di sanità pubblica
all'Università di Chicago e autore di The Politics of
cancer (La politica del cancro), se un disastro come quello di
Bhopal avrebbe potuto verificarsi negli USA, questi ha risposto: "In
America non avvengono incidenti così clamorosi; quello a cui
assistiamo è una lenta - molto più lenta - e graduale
dispersione di sostanze nocive, che fanno aumentare i casi di cancro
e di anomalie alla nascita".
Di fatto, negli ultimi 25 anni le
anomalie alla nascita sono raddoppiate. E i casi di cancro sono in
aumento. In un'intervista concessa al Guardian, il professor
David Kotelchuck dello Hunter College, commentando le carte del
"Cancer Atlas" (Atlante del cancro) pubblicato nel 1975 dal
Ministero per la sanità, l'istruzione e l'assistenza sociale,
ha detto: "Mostratemi un puntino rosso su queste carte e lì
vi indicherò un centro industriale. Sulle carte non vi sono
toponimi, ma le concentrazioni industriali si individuano facilmente.
Ad esempio, in Pennsylvania sono evidenziate in rosso soltanto
Philadelphia, Erie e Pittsburgh. E in West Virginia ci sono solo due
macchie rosse, in corrispondenza della Kanawha Valley, dove sorgono
stabilimenti di nove industrie chimiche, compreso quelli della Union
Carbide, e in corrispondenza della fascia del fiume Ohio. È
sempre così, ovunque si guardi".
Negli Stati Uniti ci sono 50.000
discariche di rifiuti tossici. L'ente federale per la protezione
dell'ambiente (EPA, Environmental Protection Agency) ammette che il
novanta per cento dei 40 milioni di tonnellate di rifiuti
tossici prodotti annualmente dalle industrie statunitensi (per il 70%
dalle industrie chimiche) viene eliminato in modi "non
appropriati" (ma quali modi sarebbero da considerarsi
"appropriati?"). Questi prodotti letali della civiltà
industriale - arsenico, mercurio, diossina, cianuro e molti altri -
vengono semplicemente scaricati, "legalmente" o
"illegalmente", dove fa più comodo.
Le industrie utilizzano circa 66.000
composti chimici diversi. Lo scorso anno gli USA hanno prodotto quasi
un miliardo di tonnellate di insetticidi e diserbanti, comprendenti
225 sostanze chimiche diverse, e ne hanno importate altre 35 mila
tonnellate. Circa il due per cento di queste sostanze sono state
sottoposte a test per individuare gli eventuali effetti collaterali.
Solo negli Stati Uniti, 15.000 industrie chimiche producono
quotidianamente sostanze che seminano la morte tra la popolazione. Tutti questi rifiuti chimici filtrano
nelle acque. Negli Stati uniti, circa tre o quattromila pozzi (il
dato cambia a seconda della fonte d'informazione governativa) sono
inquinati o chiusi. Soltanto nel Michigan, 24 reti idriche urbane
sono da considerarsi contaminate e circa un migliaio di località
hanno subito gravi forme di inquinamento. Secondo il Free Press
di Detroit, nel "paradiso acquatico" del Michigan "il
conto totale dei siti contaminati potrebbe arrivare a 10.000"
(15 aprile 1984).
E anche qui, non meno che nel Terzo
Mondo, si va avanti a forza di inganni, e dissimulazioni. Basti
l'esempio della diossina: nel corso dell'inchiesta sull'Agente
Arancione (6) si scoprì che la Dow Chemical aveva sempre
mentito circa gli effetti della diossina. Benché le ricerche
avessero già provato che la diossina è "altamente
tossica", dotata di una "elevatissima capacità di
produrre cloracne e danni all'organismo", nel 1965 il più
autorevole tossicologo della Dow aveva scritto: "Non stiamo
cercando di nascondere i problemi. Ma non vogliamo assolutamente
creare situazioni che inducano gli organismi di controllo ad assumere
atteggiamenti restrittivi".
Così, a causa dell'uso massiccio
dell'Agente Arancione durante il genocidio perpetrato dagli USA, oggi
in Vietnam si assiste a una vera e propria epidemia di cancro al
fegato e a un'alta diffusione di tumori e altre malattie. I danni
subiti dai veterani americani sono un'inezia, al confronto. Ma la
recente scoperta della cosiddetta "pioggia diossinica"
dimostra che questa micidiale sostanza è diffusa un po'
ovunque anche qui, nell'ambiente che ci circonda.
Tornare al villaggio
Quando le autorità indiane e la
Union Carbide hanno iniziato il trattamento dei gas residui negli
stabilimenti di Bhopal, migliaia degli abitanti della zona sono
fuggiti, incuranti delle rassicurazioni del governo. Un vecchio,
interpellato da un corrispondente del New York Times,
ha detto che la gente "non si fida più di nessuno, né
degli scienziati, né del governo. Vuole solo salvare la pelle". Lo stesso giornalista ha raccontato
che un contadino è andato alla stazione ferroviaria
trascinandosi appresso tutte le sue capre, "sperando di portarle
con sé – ovunque, purché lontano da Bhopal"
(14 dicembre 1984). Il vecchio sopra citato gli ha detto anche: "Sono
tornati tutti al villaggio". Quando gli Indiani si sentono in
pericolo, ha spiegato il giornalista, fanno così: "tornano
al villaggio".
Una saggia e antica strategia di
sopravvivenza, grazie alla quale le piccole comunità sono
sempre riuscite a rinnovarsi quando gli imperi dai piedi d'argilla,
nelle età del bronzo, del ferro, dell'oro, andavano in rovina.
Ma le economie di sussistenza sono sempre state, e saranno sempre,
distrutte, e con esse la cultura. Che fare quando non ci sono
villaggi ai quali tornare? Quando viviamo tutti a Bhopal, e Bhopal è
ovunque?
Vengono in mente le parole di due
profughe, una di Times Creek (7) e una di Bhopal. La prima ha detto
del luogo in cui viveva: "Era un bel posto, una volta. Ora
dobbiamo sotterrarlo". L'altra ha detto: "La vita non
ritorna. Il governo può forse ripagare quelle vite? Potete
resuscitare quei morti?".
Gli avidi vampiri delle grandi
compagnie hanno saccheggiato, ucciso, sterminato, devastato. E quando
verrà il momento in cui dovranno pagare per i crimini commessi
contro l'umanità e il mondo naturale, non dobbiamo cedere a
sentimentalismi.
Dobbiamo superare tutto questo, tornare
a noi stessi: l'economia di sussistenza è stata distrutta, e
con essa la cultura. Dobbiamo ritrovare la strada del villaggio,
abbandonare la civiltà industriale e questo sistema
sterminatore.
Le Union Carbide, i Warren Anderson
(8), gli "esperti ottimisti" e i mendaci esegeti della
civiltà industriale devono scomparire, ma con essi devono
scomparire anche gli insetticidi, i diserbanti, le industrie chimiche
e un sistema di vita asservito alla chimica, che non è altro
che morte.
Perché questo è Bhopal,
ed è tutto ciò che abbiamo. Quello che "era un bel
posto, una volta" non deve essere semplicemente sepolto,
costringendoci a emigrare altrove. L'impero sta crollando. Dobbiamo
tornare al villaggio, o, come dicevano gli indigeni americani,
"tornare alla coperta", e dobbiamo farlo non cercando di
salvare una civiltà industriale ormai condannata, ma
ricostruendo la vita sulle sue rovine. Abbandonare questa vita
moderna non significa "darsi per vinti" o votarsi al
sacrificio, ma semplicemente scrollarsi di dosso un tremendo
fardello. Facciamo presto, prima di restarne schiacciati.
Originariamente pubblicato su Fifth
Estate (dicembre 1985), questo saggio è incluso
nell'antologia Questioning
Technology ("Mettendo in discussione la tecnologia")
recentemente pubblicata da Freedom Press (84b Whitechapel High St.,
Londra El 70X, Regno Unito).
La traduzione e le note sono di
Michele Buzzi.
(1) All'inizio di dicembre del 1984,
una nube tossica di metilisocianato (un composto chimico usato per la
produzione di insetticidi) si è sprigionata dagli stabilimenti
dell'industria chimica statunitense Union Carbide alla periferia di
Bhopal, un centro industriale di 672.000 abitanti a sud di Nuova
Delhi, in India, causando migliaia di vittime tra la popolazione.
(2) Il cemento-amianto è un
materiale usato in edilizia per tubature e lastre ondulate.
(3) Nel 1978 a Love Canal, Niagara
Falls, N.Y. la pioggia portò allo scoperto una discarica
clandestina in cui erano stati interrati bidoni con rifiuti chimici
nocivi.
(4) Svista dell'autore. In realtà
la località si chiama Times Beach, Missouri. I 2.200 abitanti
furono evacuati permanentemente nel 1983. L'ente federale per la
protezione dell'ambiente (EPA, Environmental Protection Agency)
dovette spendere 33 milioni di dollari per acquisire tutte le loro
proprietà (terreni e abitazioni, in pratica l'intera
cittadina). L'accesso alla zona è tuttora controllato.
(5) Charles Berlin e il suo socio Farro
gestivano un inceneritore di rifiuti che fu chiuso d'autorità
perché troppo inquinante. Nei pressi fu scoperta una fossa con
circa 33.000 bidoni contenenti rifiuti industriali di ogni sorta che
i due soci non avevano avuto il permesso di bruciare.
(6) Un defoliante usato dagli americani
durante la guerra in Vietnam. Uno dei componenti era il diserbante
2,4,5-T a base di diossina. Nel 1984 migliaia di veterani americani,
che avevano subito gravi danni per effetto dell'esposizione al
defoliante, hanno citato in giudizio la Dow Chemical e altre aziende
produttrici.
(7) Vedi nota 3.
(8) Warren Anderson era il presidente
della Union Carbide all'epoca del disastro.
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