Rivista Anarchica Online
S'io fossi israeliano...
Il dibattito svolto sulle pagine di
"A" a proposito della questione medio-orientale mi ha
sollecitato fin dal primo ottimo intervento ("A" 153) di
Gianfranco Bertoli, ma a stimolarmi ulteriormente sono stati gli
interventi di Salvo Vaccaro ("A" 150 e 158) e quello di
Antonio Donno ("A" 158) che, a mio parere, pongono alcuni
problemi che travalicano la specifica questione israelo-palestinese
per toccare il cuore di problematiche che molti anarchici sentono
oggi come fondamentali e che ruotano attorno alle modalità ed
al senso dell'azione anarchica in questo nostro tempo.
Entrando subito nel tema principale del
dibattito, devo dire che - anche se, come dice Vaccaro, abbiamo pochi
"crediti" da riscuotere fra i protagonisti di quella
tragica situazione - non mi pare pura retorica cercare di individuare
cosa faremo noi se vivessimo in Israele o in un campo profughi della
Cisgiordania o di Gaza.
Personalmente penso che se fossi un
ebreo israeliano mi batterei innanzitutto perché Israele
continui a vivere autonomamente ed indipendentemente, ma farei
obiezione - come stanno facendo molti israeliani - per non andare a
combattere nelle zone dove infuria l'Intifada. Sarei quindi,
probabilmente, un militante di Shalom Akshaw ("Pace ora",
il movimento pacifista israeliano) e, grazie anche alle correnti
libertarie presenti nella cultura ebraica, mi batterei per Israele,
ma contro l'attuale governo, sostenendo la necessità che anche
i Palestinesi abbiano una loro terra in cui gestirsi ed organizzarsi
come meglio credono.
Se invece fossi un palestinese di un
campo profughi, certamente sosterrei la necessità di una
"patria" anche per il mio popolo (che, come tutti i popoli
ne ha il diritto "giuridico" e storico) e lotterei contro
il governo israeliano e contro il suo esercito repressore.
Cercherei tuttavia, come già
fanno alcuni intellettuali palestinesi, di non identificarmi con
l'OLP e, soprattutto, di non cadere nella trappola della crociata
antiebraica, magari mascherata sotto i paludamenti del pan-arabismo o
dell'antisionismo.
In ogni caso, sia che fossi palestinese
o ebreo, mi batterei per una coesistenza, nell'autonomia e nella
diversità, fra due popoli distinti per storia, cultura,
lingua, religione anche se imparentati dal punto di vista etnico. In
altre parole concordo con quanto scriveva, su "Il Manifesto"
del 9/11/88, Ugo Caffaz: "Se si ha interesse veramente ad una
pace giusta in Medio Oriente, dove Israele e palestinesi possano
convivere (...), non si può ragionare, oggi men di ieri, in
termini di buoni e cattivi. Israele ha diritto ad esistere davvero
indipendentemente dal governo che ha e i palestinesi hanno diritto
alla loro autodeterminazione indipendentemente dalla politica che
attuano e che, ancor più, attueranno quando raggiungeranno la
loro autonomia".
Io credo che sia questa la base su cui,
poi, si possono fare tutti i discorsi, le precisazioni, i distinguo
che si riterranno utili o necessari. Fuori da questa impostazione ci
sono solo, comunque li si voglia "giustificare" o
mascherare, razzismo, intolleranza,volontà di potenza. Fra
l'altro, è proprio partendo da una base come quella
tratteggiata da Ugo Cattaz che, io credo, le tendenze libertarie
israeliane potranno giocare un ruolo significativo, così come
diventerà possibile che correnti libertarie nascano
all'interno della cultura araba che sino ad oggi non ne ha espresse
(almeno di significative).
Questa lunga premessa mi è parsa
oltremodo necessaria soprattutto perché mi pare che, in
particolare nell'intervento di Donno, si tendesse a spostare
l'accento della questione su altre problematiche che, per quanto
giuste e giustificate, non rappresentano il fulcro della questione
medio-orientale, il quale è, lo ribadisco ancora una volta, né
più né meno quello tratteggiato da Cattaz nel suo
ottimo intervento su "Il Manifesto". Chiarito tutto questo
vengo ad alcuni problemi che Vaccaro e Donno sollevano nei loro
interventi.
Rispetto al primo intervento di
Vaccaro, ed in particolare al suo modo di vedere il processo
attraverso cui si forma uno stato-nazione, devo dire che (come rileva
anche Donno nella sua lettera) mi pare che Vaccaro - che ha davanti
agli occhi i processi storici che hanno portato alla formazione degli
stati nelle parti del mondo influenzate dalla cultura europea –
si faccia paladino di una visione della storia dominata da "leggi"
ritenute valide e necessitanti in qualsiasi luogo e qualsiasi tempo. Io credo invece che quelle che Vaccaro
identifica siano solo linee di tendenza che, per quanto
importantissime, non possono, e non devono, far dimenticare che la
storia non esprime "leggi" ineludibili ma, al massimo,
"tendenze" che la volontà umana può
modificare nel senso desiderato ("quanto" siano
modificabili tali tendenze è sì una questione che in
gran parte dipende dalle circostanze storiche).
In secondo luogo, se è vero che
il Medio Oriente è una realtà con sue caratteristiche
ben precise, è altrettanto vero che essa non è più una
situazione del tutto indipendente dal resto del mondo, per cui non è
vero che soluzioni valide in altre parti del pianeta siano
inapplicabili in quelle terre. Questo significa da un lato che non è
del tutto impossibile che non si possano "vantare crediti"
libertari anche nei confronti dei palestinesi (come per certi versi è
dimostrato dal fatto che "alcuni studenti palestinesi"
leggano "A" e sentano il bisogno di scriverle), dall'altro
che non è vero che maniere europee di gestire la forza (come è
nel caso della diplomazia) siano inapplicabili anche fra quei popoli.
Venendo a quanto scrive Donno, devo
dire innanzitutto che, proprio per i motivi detti sopra, concordo con
lui nel sottolineare come anche la creazione dello stato d'Israele
(dovuta anche all'accordo diplomatico fra le potenze mondiali) sia
stata frutto del "processo storico" al pari della creazione
degli stati europei; un processo storico che, proprio perché
frutto delle vicissitudini umane, è trasformabile dalla
volontà umana che può " inventare" e
praticare soluzioni e modelli sociali non resi ineluttabili dallo
sviluppo storico precedente.
Certo questo, come sottolinea Vaccaro,
crea problemi, conflitti, contrapposizioni, ma quale situazione non
ne ha? Quale società non li conosce o può eliminarli?
Il problema, a mio parere, non è questo, quanto quello di come
tali conflitti e contrapposizioni vengono viste, gestite, negate o
risolte. Così come il problema non è tanto quello dell'uso
della "forza" (che, come sottolineava Stirner già
150 anni fa, è comunque la principale regolatrice delle
questioni sociali) quanto di come tale "forza" si esprime,
se attraverso le armi ed i conflitti armati o se attraverso
contrattazioni, conflitti politici, accordi.
Ma quello circa la nascita di Israele è
uno dei pochi punti con cui concordo con Donno. Come mette in luce
Vaccaro nel suo secondo intervento, Donno svolge il suo ragionamento
a partire da una lettura estremamente ristretta (al punto da essere
spesso faziosa) dell'intera questione.
È
vero infatti che, come dice Donno, in Medio Oriente si confrontano
anche una concezione democratico-liberale dello stato con concezioni
autoritarie e/o feudali dello stesso (a questo punto mi si permetta
un inciso: per quanto riguarda Israele tale concezione
democratico-liberale mi sembra essere messa molto in pericolo dalle
leggi repressive che quasi quotidianamente il governo Shamir vara,
cui non può non aggiungersi la condanna per come Israele
tratta, anche giuridicamente, i palestinesi sottoposti alle sue
leggi. Legga Donno - di cui ho molto apprezzato il saggio su
Voltairine De Cleyre ne "La sovranità dell'individuo"
(ed. Lacaita, 1987) da lui curato - il libro dell'ebreo israeliano
David Grossman "Il vento giallo" pubblicato da Mondadori),
ma leggere tutta la realtà solo attraverso questo prisma è
non solo falsante, ma contraria al buon senso e a quegli stessi
presupposti democratico-liberali cui Donno mi pare si richiami.
È
certo vero che le idee libertarie hanno più possibilità
di attecchire laddove c'è un "tessuto democratico",
ma Donno dovrebbe sapere meglio di me che tale "tessuto"
non è determinato solo dall'esistenza di uno stato democratico
liberale.
Inoltre l'esistenza di uno stato
democratico da sola non basta, e non deve bastare (non solo per gli
anarchici, ma anche per i liberali conseguenti), per far scegliere
tout court, in situazioni ingarbugliate come quella mediorientale,
una delle due parti in causa. In situazioni come quella, io credo che
vadano tenute in conto altre questioni (come ad es. il diritto, di
ogni popolo che si riconosca come tale, ad un territorio in cui
vivere come meglio crede) che, fra l'altro, contribuiscono a creare
quel "tessuto democratico" al pari dell'esistenza di uno
stato democratico-liberale.
Ed è proprio per tutti questi
motivi che non concordo con Donno quando dice che gli anarchici
dovrebbero "riconsiderare la funzione dello stato storicamente,
quasi caso per caso". Certo tale considerazione non va negata o
dimenticata, ma proprio perché - come anche Donno dice - "la
storia" non ha mai risposto a formule preconfezionate ed ha
sempre rotto le gabbie interpretative semplicistiche e schematiche (e
perciò estremamente pericolose), non capisco perché
dovremmo, noi che partiamo da una valutazione negativa
dell'organizzazione statuale (una negazione la cui validità mi
pare confermata dalla cronaca di tutti i giorni), abbandonare la
nostra spinta antiautoritaria ed appiattirci su soluzioni statuali
che, per quanto migliori di quelle totalitarie, non rappresentano ciò
che noi vogliamo.
Anzi, è proprio perché la
storia non ha risposte alle gabbie preconfezionate che ha senso e
valore cercare e praticare soluzioni quanto più possibili
libertarie. Mi pare invece che Donno, nella sua
ottica da real politik contraddica lo stesso suo giudizio pragmatico
sulla storia e finisca per essere altrettanto ideologico degli
ideologismi contro cui si scaglia giustamente.
Detto tutto questo vorrei soffermarmi
sull'affermazione di Vaccaro nel suo secondo intervento: "L'ovvia
distinzione tra stato democratico e stato totalitario resta per gli
anarchici un dato di fatto che non traduciamo affatto in una
legittimazione sul piano del valore". Fino a qualche tempo fa la pensavo
anch'io così, ma oggi credo invece (anche in seguito a molti
dei dibattiti su tale tema apparsi soprattutto su "A" e
"Volontà") che tale giudizio vada in parte corretto
e puntualizzato. Se "valore" è (come
recita il "Dizionario di Filosofia" dell'Abbagnano) "ciò
che dev'essere oggetto di preferenza o di scelta", allora non
possiamo negare un "valore" superiore dello stato
democratico-liberale rispetto alle altre forme statuali. In una tale
forma di stato alcune delle libertà per cui ci battiamo sono
presenti e garantite (anche se in forme embrionali e limitate), così
come la maniera di gestire i conflitti sociali è spesso più
vicina a quanto vorremmo noi che non quella praticata negli stati
autoritari, che reprimono i conflitti quando emergono o in quelli
totalitari, in cui l'esistenza di tali conflitti viene addirittura
negata.
Tutto questo, se fa di noi dei
difensori della democrazia nei confronti dei totalitarismi (com'è
accaduto, ad es., durante la lotta al nazismo ed al fascismo), non
può e non deve tuttavia significare che ci si debba appiattire
su tale attribuzione di valore. Il dare valore alle democrazie, in
altre parole, non significa che dobbiamo rinunciare a quella
"ulteriorizzazione rivoluzionaria" che continua ad essere
necessaria, se veramente vogliamo rendere pienamente viventi quelle
che sono le nostre idee forza. Anzi, riallacciandomi a quanto si
diceva più sopra sulla storia e sulle sue "leggi",
io credo che agli anarchici spetti il difficilissimo, ma esaltante
compito di operare perché si crei - nei meccanismi sociali e
nell'immaginario cui le società e gli individui fanno
riferimento - quella mutazione culturale e pratica che, sola,
permetterà ad ogni individuo o gruppo di scegliere una "forma"
sociale invece di un'altra. Non solo, ma credo che, alla fin fine,
nostro compito sia quello di far sì che al limitatissimo
numero di forme sociali fra cui oggi si può scegliere, se ne
aggiungano infine altre, magari anche contraddittorie fra di loro.
Al contrario dei totalitarismi, che
vogliono semplificare il funzionamento delle società e
diminuire - fino a ridurlo ad uno - i modelli di organizzazione, noi
dobbiamo operare perché l'infinita varietà delle
possibilità emerga ed operi. I modi, i tempi, i movimenti, le lotte
attraverso cui tali mutamenti rivoluzionari possono diventare
operanti nella realtà sono ciò su cui, io credo, noi
anarchici dovremmo oggi più riflettere. Il dibattito sul Medio
Oriente mi pare sia stata, e sia, un'ottima occasione per farlo.
Franco Melandri (Forlì)
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