Rivista Anarchica Online
Il loro cortile ed il mio
di Agostino Manni
"In verità, se
guardiamo le cose senza pregiudizi, siamo portati ad ammettere che
non è vero che il servizio militare non serve proprio a
niente. Un obiettivo lo realizza, quando
ottiene da questi ragazzi che rinuncino ai loro sogni, alla loro
speranza in un mondo migliore e li trasforma in tanti pupazzi
senz'anima". In questa nuova lettera dal carcere
militare di Santa Maria Capua Vetere, dove sta scontando un anno per
obiezione totale, Agostino Manni parla dei suoi carcerieri. E di
altro ancora.
Avrei voluto scrivere un "pezzo"
sulla proposta di una campagna per l'abolizione della coscrizione
obbligatoria, che recentemente è stata discussa in una
riunione antimilitarista organizzata dal giornale Senzapatria,
tenutasi a Bologna agli inizi di novembre.
L'ultimo numero di questo giornale (n.
45, dicembre '88/gennaio '89) , tra l'altro, parla diffusamente di
questo argomento e pubblica anche lo stralcio di una mia lettera,
nella quale - in maniera, a dire il vero, piuttosto superficiale -
motivavo la mia adesione a questo progetto. Avrei voluto parlarne più
diffusamente dalle pagine di questa rivista, ma - come ho già
spiegato ai suoi redattori - le mie idee in proposito sono ancora
troppo confuse e, più che raccontate, meritano di essere
chiarite.
Ci sono altre cose, però, delle
quali vorrei parlare e sarei grato a questa rivista se mi permettesse
di comunicarle a quanta più gente è possibile.
Si tratta di questo.
La parabola del pastore
Io, che non ho fatto il servizio
militare, dovrei essere la persona meno indicata a parlarne, a
denunciarne la brutalità, a descriverne i meccanismi di
controllo e di distruzione della personalità. Ma l'ambiente
nel quale mi trovo (paradossalmente, proprio per aver rifiutato di
essere un soldato) è, mio malgrado, un ambiente militare.
Il Comandante del carcere militare di
Bari-Palese ebbe a definire questi luoghi, una volta, "caserme
senza libera uscita"; e tali essi veramente sarebbero, se
qualcuno ogni tanto non si ribellasse alla loro disciplina, se noi
anarchici non opponessimo continue disobbedienze ai regolamenti che
vi sono applicati, all'arroganza ed al paternalismo che vi dominano.
Ma un detenuto "comune", qui
dentro - e, più ancora, un obiettore "testimone di Geova"
- svolge anche lui un servizio, ed è un servizio essenziale
al mantenimento dell'aspetto più totalitario di tutto il
militarismo, e cioè al funzionamento del carcere militare
stesso.
Ma, a parte queste contraddizioni nelle
"scelte" di alcune persone (le quali, in realtà, se
sono qui, non è per una qualche opposizione all'esercito e al
militarismo, ma perché si considerano già soldati di
un'altra "armata", il cui capo - Geova - è
certamente il più sanguinario e vendicativo dei generali), a
parte queste contraddizioni, dicevo, io vivo qui fianco a fianco con
decine di militari di leva, con centinaia di giovani soldati.
Sono quasi tutti ragazzi sui vent'anni,
costretti, per "servire la Patria", a fare il mestiere più
schifoso del mondo, quello che, in una vecchia canzone di Claudio
Lolli, veniva illustrato con la parabola del pastore che, piuttosto
che diventare ladro, finiva col fare il "cane", messo a
guardia dei suoi pari, di quelli che erano nati nella sua stessa
miseria, che avevano alle spalle le stesse sofferenze, e davanti agli
occhi lo stesso altissimo impressionante muro, ma che avevano scelto
di scavalcarlo in un'altra maniera.
Che questi ragazzi siano "costretti"
a fare questo "lavoro", nessuno lo mette in dubbio: a
vent'anni difficilmente si è già così
opportunisti, così menefreghisti , così "carogne"
da mettersi a fare - per mestiere - il guardiano della libertà
altrui, quello che ogni notte dà la doppia mandata alla gabbia
dei ribelli. Sono "costretti" a fare
questo mestiere, è ovvio: sono "obbligati" dalla
consuetudine, dal conformismo ("lo fanno tutti e, allora, perché
non dovrei farlo anch'io?"), ma soprattutto dalla paura di
finire "al posto di Manni", di essere sbattuti nella mia
stessa cella (come promise che avrebbe fatto il Comandante del
carcere militare di Bari al caporalmaggiore che era di servizio quel
giorno, se avesse insistito nel non voler firmare la denuncia a mio
carico, la prima volta che rifiutai di indossare la divisa).
Questo è ciò che li
determina a comportarsi nel modo in cui tutti i loro coetanei si
comportano, ciò che li spinge a partir soldati, a servire lo
Stato, a farsi rubare quel tanto di ragionevolezza, di voglia di
vivere, di entusiasmo nel cambiare le cose, quel tanto di speranza
che nella loro adolescenza stava cominciando timidamente a venir
fuori, come un seme sotto la neve.
Con studiata cattiveria
Tutto questo, invece, finisce sotto la
violenza degli scarponi, dietro l'anonimo grigio e il verde uguale di
queste mura e di queste divise, schiacciato dalla paura di esser
diversi, di esser "notati" da qualche tenente, di essere
antipatici (non dico "ribelli", ma anche solo antipatici) a
qualche "nonno" o a qualche superiore che poi - possono
starne certi - in un modo o nell'altro gliela farà pagare.
E tutto questo, questo continuo
inevitabile stillicidio di offese, di umiliazioni, di minacce
(neanche tanto velate: "devi morire, spina", "ti
faccio fare i vermi!", "muto e stecca!"), questa
ossessionante interminabile "saponata" sul loro cervello
viene condotta con studiata cattiveria (o con un'indifferenza
altrettanto voluta, altrettanto calcolata), nella solitudine più
mortificante, all'interno di rapporti umani degradati, insinceri,
dove sole leggi sono la competitività e la consorteria,
l'arroganza verso i più giovani e il servilismo verso i
superiori.
Ciononostante, questi ragazzi hanno
paura di finire al mio posto. . .
Vedeste le loro facce quando, per
sbaglio, ne chiudono qualcuno nella cella: taluni hanno il terrore,
negli occhi. Oh, non dico che la galera sia una bella esperienza; ma
la libertà, per me, è qualcosa di più che
potersene andare in giro, la sera, a respirare un po' d'aria, vedere
un film e mangiare una pizza, prima di tornare sotto la frusta del
comandante di reparto.
Il loro "cortile", in fin dei
conti, è soltanto un po' più grande del nostro; ma, in
compenso, io non scatto sull'attenti e non ho mai detto un "signorsì"
in vita mia.
Pupazzi senz'anima
"La rinuncia alla lotta per la
vita - ha scritto Emile Armand - alla Nostra lotta per conquistare la
Nostra vita, conduce alla rassegnazione, vale a dire ad uno stato
d'animo mille volte peggiore della prigionia, che dopotutto non è
che una limitazione dell'attività corporale". Ecco, se
una parola esiste, che possa definire lo stato d'animo di ognuno di
quei 200.000 ragazzi che ogni anno regalano un pezzo della loro vita
alla superbia dello Stato, io penso che sia proprio questa:
RASSEGNAZIONE.
Ed è la stessa con la quale
possiamo definire lo scopo di questa esperienza, il risultato
finale che lo Stato cerca di realizzare (e che il più
delle volte, purtroppo, ottiene).
Ogni parola, ogni gesto di questi
ragazzi lo conferma: tutti - nessuno escluso - odiano il servizio, ne
riconoscono tranquillamente l'inutilità sociale, la
negatività, ne disprezzano i meccanismi autoritari; ma
nessuno, nessuno di loro scommetterebbe cinque lire sulla possibilità
di eliminarlo, di trasformare il sistema di cose nel quale vive, di
realizzare per sé e per gli altri un'esistenza più
giusta, rapporti umani più solidali, un mondo più
libero.
In verità, se guardiamo le cose
senza pregiudizi, siamo portati ad ammettere che non è vero
che il servizio militare non serve proprio a niente, che non è
vero che è perfettamente inutile. Giacché invece un
obiettivo lo realizza, e pure molto importante, quando ottiene da
questi ragazzi che rinuncino ai loro sogni, alla loro speranza in una
vita migliore, quando li obbliga a buttare alle ortiche il meglio di
se stessi - la solidarietà, il rispetto, l'amore per la
libertà - e li trasforma in tanti pupazzi senza anima, in
tante scimmie addestrate a saltare allo schiocco della frusta.
Anche per questo, io credo che la leva
dovrebbe essere abolita, e dovrebbe essere stabilito una volta per
tutte che lo Stato non ha alcun diritto di rubare a nessuno una sola
ora della sua vita, che si tratta di un abuso, di una violenza, di un
atto autoritario al quale ognuno di noi ha il diritto di disobbedire.
Certe volte, immagino il giorno in cui
saranno in tanti ad opporre questo rifiuto; e mi vien da ridere, al
pensiero che non ci saranno posti sufficienti in nessuna galera, per
rinchiudere tutti questi ribelli.
Quello - non ne ho alcun dubbio - sarà
il giorno più bello di tutta la mia vita.
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