Rivista Anarchica Online
Questi fantasmi
di Carlo Oliva
Alla fine, suppongo, ci spiegheranno
con abbondanza di argomentazioni come lo straordinario comportamento
del dottor Egidio De Luca, funzionario del Ministero di Grazia e
Giustizia, quello che s'è inventato, martedì 3 gennaio,
un classico rapimento con "gambizzazione" ad opera di un
nucleo delle Brigate Rosse (anzi, delle "Nuove Brigate Rosse"),
sia stato dettato da considerazioni affatto private. Già nel
momento in cui scrivo, le ipotesi non mancano: spaziano dal "disturbo
di personalità con note di rigidità paranoide"
("Corriere della Sera", 7 gennaio, p. 7) alla necessità
di occultare, a scanso di guai, l'intervento di "esponenti della
malavita", interessati alla restituzione di un ingente somma di
denaro ("Repubblica", 9/10 gennaio, p. 16).
La grande stampa, ora come ora, è
disposta a tutto, anche se di questo strano burocrate, in fondo,
parla con reticenza. Di fatto, uno che è stato via via
direttore di sezione al Ministero di Grazia e Giustizia, funzionario
della Direzione Generale degli Istituti di prevenzione e di pena,
addetto alle pubbliche relazioni nel gabinetto del Ministro, addetto
al Cerimoniale diplomatico del Ministero degli Esteri e al servizio
speciale per gli interventi nei Paesi in via di sviluppo,
nell'amministrazione pubblica è un pezzo abbastanza grosso:
per chi professa a priori rispetto per lo stato e i suoi
devoti servitori, l'alternativa tra il considerarlo uno psicolabile o
un ladro non è gradevole.
Forse qualche elemento di verità
si è perso per via: tutti, per esempio, glissano un po' sul
perché, a fine '86, il poveraccio sia stato rimosso dagli
Esteri e rispedito alla Giustizia, nel ruolo non eccelso di
vicedirettore a Rebibbia. Anche sui suoi rapporti con l'agente di
custodia coinvolto non tutto è chiarissimo: all'inizio ne
hanno parlato come di una guardia del corpo, poi hanno detto che era
lì per aiutare il capo in un trasloco e infine si sono
lasciati andare ad allusioni varie sull'intensità della sua
devozione per lui. Ma è inutile fare della dietrologia, anche
per non calunniare un cittadino che, poveretto, si è comunque
beccato una pallottola nel femore e, checché oggi si scriva in
tema di debiti di gioco, cattive compagnie e favori imbarazzanti
("Corriere della Sera", Ibid.) resta innocente fino
a prova contraria.
Chi vivrà vedrà.
Riflessi condizionati
Il problema, però, non è
quello della piaggeria della "grande" stampa verso il
potere e del parallelo disprezzo che ostenta per i diritti del
cittadino. Di questo vecchio vizio bifronte dei nostri giornali, in
fondo, si potrebbe citare quotidianamente abbondanza d'esempi. Il
malinconico episodio è indizio di una sindrome più
specifica: rinvia una tipica situazione di "nostalgia del
terrorismo". Con precisione pavloviana, il corpo speciale
reagisce a ogni stimolo facendo scattare veri e propri riflessi
condizionati.
Questi riflessi, naturalmente, non si
esauriscono nei titoli dei giornali, anche se , a posteriori è
abbastanza divertente andarli a rileggere (ma, forse, "divertente"
non è la parola esatta). Il modo con cui la stampa ha trattato
la notizia rappresenta un caso classico d'inettitudine professionale
(nessun controllo, scarsa conoscenza del fenomeno su cui scrive,
tendenza a sfruttare gli stereotipi in uso), ma deve ben esserci un
clima generale in cui questa inettitudine germina e prospera. Ne
fanno parte le dichiarazioni di politici, funzionari e magistrati. Ne
fa parte anche la fiducia un po' ebete con cui i cittadini in buona
fede accolgono la notizia che le br sono ancora sul piede di guerra.
I titoli, comunque. Mercoledì 4
gennaio, la notizia arriva tardi ma tutti, ovviamente, la danno in
prima. Nessun dubbio: "Le Br sparano ancora", secondo "la
Repubblica", "Le Br sparano" per "Il Messaggero",
eccetera. Semanticamente più audace il "Gambizzato dalle
Br vicedirettore di Rebibbia" del "Giornale". Un po'
banale l'"Agguato br a Tivoli" dell'"Unità".
"La Stampa", saggiamente, si attiene ai fatti: non rinuncia
a un "Gambizzato a Roma dirigente di Rebibbia", ma precisa
in occhiello "Da tre giovani che gridano: Siamo le nuove Br".
Solo il "Corriere", dimostra un po'
di prudenza e titola di un agguato "di probabile matrice
terroristica": farà ammenda il giorno dopo, nei servizi.
Scontato l'invito a "non abbassare la guardia" della "Voce
Repubblicana" e di altri portavoce dell'emergenzialismo
laico-forcaiolo. I commenti, per la verità, sono un poco più
cautelosi. Chi sa qualcosa di problemi e terminologie del terrorismo
(alcuni inquirenti compresi), sa anche che quel "nuove" del
"siamo le nuove Br" crea una montagna di difficoltà.
Ma tanto, chi li legge i commenti? Giovedì 5, le prime pagine
sono tutte dedicate all'aggressione americana alla Libia. Siccome la
si considera un colpo di coda di Reagan, che non impegna gran che il
futuro, si azzarda persino qualche critica all'odioso episodio.
Venerdì 6, Epifania di Nostro
Signore, arrivano le smentite. Sono in taglio basso, e rivelano una
certa ovvia tendenza a minimizzare. "Repubblica" è
futile e brillante: "Macché Br, ha inventato tutto". "L'Unità", al solito,
ci va giù di piatto: "Arrestato il vicedirettore di
Rebibbia", (in sommario la classica "clamorosa svolta nelle
indagini"). Il "Corriere", più audace, si
sbilancia in taglio medio: "Manette al vicedirettore gambizzato
di Rebibbia".
Sabato 7 gennaio, Noblesse
oblige, il "Corriere" insiste sul taglio medio ("Non
volevo più lavorare a Rebibbia"), ma in ribattuta avanza
una prima ipotesi di difesa: "Quella torva follia di burocrate".
Gli articoli, s'è visto, sono a pagina 7 . "Repubblica",
con maggior senso della propria responsabilità ideologica, non
si muove dal taglio basso: "Per me Rebibbia era l'inferno e così
inventai l'agguato Br".
Gli articoli sono a pagina 19. Gli
altri si ripartiscono, con poca inventiva, secondo i due modelli.
Domenica... Beh, domenica dalle prime
pagine è sparito già tutto. Lunedì sul
"Corriere" c'è qualcosina a pagina 9. E questo è
quanto, finora.
Emergenza e ridicolo
Forse non è il caso di
scandalizzarci. Di incidenti professionali di questo tipo ne sono
capitati spesso, a giornalisti di ogni tendenza e colore. Non vorrei
neanche negare che qualche fenomeno di terrorismo possa ripresentarsi
inatteso: la capacità di sopravvivenza di alcune strutture
clandestine si è rilevata maggiore di quanto si potesse
supporre (anche se nessuno ha mai avuto il coraggio di ammettere che
questa capacità di resistenza è in contrasto con i
giudizi correnti sulle relative organizzazioni).
Il fatto è che quella che una
volta si definiva "cultura dell'emergenza" sembra sia stata
fatta propria dalla società italiana nel suo complesso. La
giurisprudenza premiale, quella che misura condanne e assoluzioni sul
metro ideologico delle dissociazioni e dei pentimenti continua a
funzionare: con qualche cautela a livello di inchieste capaci di
suscitare un po' di clamore (il "caso Sofri" insegna), con
implacabile normalità nel solito tran tran carcerario e
giudiziale. Non parliamo dei vari processi bis, ter e via dicendo che
si celebrano periodicamente per riciclare in vario modo imputati,
crimini e comportamenti. Il prossimo marzo alle Assise di Roma
dovrebbe avviarsi la più spettacolare di queste strane
operazioni: quella che accomuna praticamente tutti gli imputati di
terrorismo vagamente connessi con le br (o solo una prima tranche?
non ricordo bene) nell'accusa di aver organizzato in Italia
nientemeno che un'insurrezione armata.
C'è di più. La situazione
dei detenuti o dei latitanti che sono tali in seguito all'imputazione
di reati associativi o a condanne per "concorso morale" a
fatti commessi da altri, magari dopo anni che loro erano già
in carcere, è scandalosa, ma non sembra interessare nessuno.
La polemica sull'amnistia sembra ormai conclusa; i discorsi
sull'"uscita dall'emergenza" che si portano avanti sono o
trascurati o, al massimo, interpretati da un punto di vista premiale
(e quindi visti come discorsi di conferma dell'emergenza stessa, di
rinuncia a sanare i danni che ha causato alla sfera dei diritti del
cittadino).
Certo, sarebbe il caso di rivedere, in
qualche modo, almeno le situazioni di palese ingiustizia, e non si
vede come si potrebbe farlo altrimenti che rivedendo, anche alla luce
delle innovazioni legislative e procedurali, tutta una serie di
processi e di sentenze, ma chi se la sente di condurre la necessaria
campagna politica?
Insomma, non prendiamocela solo con i
giornali e i magistrati. Se da qualche parte è scritto che di
fronte al fantasma del terrorismo non si può far altro che
confermare lo status quo, senza arrischiare proposte di soluzione o
domande indiscrete, perché su di esso sono costruite, in
pratica, alcune importanti strutture ideologiche e amministrative,
non si vede perché chiunque si consideri per qualche motivo
nei guai non debba pensare di ricorrervi per coprire i suoi personali
problemi. È appunto
quello che fa tutti i giorni lo stato, e lo stato ha sempre ragione,
a costo di sfiorare il ridicolo. Il ridicolo passa, ma le leggi
d'emergenza restano. Degli imitatori incauti si potrà sempre
dire che sono mezzi matti. Anzi, che soffrono di disturbi della
personalità con note di fissazione paranoide: suona meglio.
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