Rivista Anarchica Online
Giù
le mani dal jazz
Cari amici, ho letto con crescente
stupore l'articolo di Pino Bertelli, Cinema e rock, apparso su
"A" 160. Per un cultore di jazz come me è difficile
digerire il discorso di Bertelli, sia sul piano squisitamente
artistico che su quello dei risvolti sociali del rock. È
assolutamente inconcepibile ravvisare le radici del rock, nato negli
anni '50, nel blues di Jefferson, Leadbetter o addirittura di Ma
Rainey o Bessy Smith. Il rock nasce come fenomeno prettamente
bianco ed è assurdo affermare che vi sia stato un rock nero,
nato nei campi di cotone o ad Harlem. Siamo su terreni completamente
diversi; e se è vero che il rock nasce dal country, si deve
pur dire che il country è un fenomeno bianco. Ma Rainey e
Bessy Smith non c'entrano assolutamente alcunché. Al massimo
si può dire che alcuni mediocri cantanti neri, nel contesto
del rock bianco degli anni '50, si adeguarono prontamente, attratti
dai facili guadagni e dall'estrema facilità
dell'approccio musicale. Tutto qui.
Sul piano artistico il discorso è
estremamente semplice. Arrigo Polillo lo ha splendidamente riassunto
così: "Si trattava, sia nel caso di Haley che in quello
di Presley e di chi ne seguiva le orme, di un travestimento e di una
degenerazione della musica afro-americana, e quindi di un
sottoprodotto del jazz... La materia sonora veniva brutalizzata,
primitivizzata... e presentata con furberia, facendo leva su trucchi
di sicura presa sul grosso pubblico". Si trattava, cioè,
per dirla ancora con Polillo, "di una musichetta sbracata e
violenta, elementare e petulante...". Questa fu la "rivoluzione"
del rock sul piano artistico: un colossale business fondato su
una "musica" cialtrona e bassamente sensitiva. La vera
rivoluzione nelle forme artistiche è solo nella qualità:
non mi pare che si possa concludere diversamente.
Sul piano sociale, sostenere il valore
liberatorio, trasgressivo (per usare un termine molto alla moda) del
rock significa arrampicarsi sugli specchi. Fin da subito l'industria
discografica, e non, si impossessò della nuova "musica"
sfruttando abilmente la follia collettiva dei giovani: il nuovo
"stile di vita" fu imposto dall'industria, non scelto dai
giovani. Una scelta realmente liberatoria è una scelta di
qualità, soprattutto sul piano delle forme artistiche. E da
questo punto di vista, la crescita culturale, che alla fine è
sempre individuale, è l'unico strumento di reale liberazione.
Con grande cordialità
Antonio Donno (Lecce)
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