Rivista Anarchica Online
La lotta per la terra
di Emanuele Amodio
"Per prima resistette la
terra: invasione e difesa dei territori indigeni dell'America
Latina": con questo titolo è recentemente apparso sulla
rivista Arinsana (rivista della cooperazione internazionale nelle
aree indigene dell'America latina) un saggio del suo direttore,
l'antropologo siciliano Emanuele Amodio. Lo proponiamo ai nostri lettori,
quale contributo alla conoscenza di una realtà che pur lontana
ci riguarda da vicino.
Osservando il panorama attuale della
situazione dei popoli indigeni latino americani, pur senza
dimenticare le differenze storiche e politiche di ciascun paese,
risulta evidente una uniformità dei problemi che si
riproducono - in modo più o meno simile - dal nord al sud.
Infatti, sebbene ciascuna situazione
presenti caratteristiche specifiche derivanti dalla sua cultura e
dalla sua storia locale, si verificano fenomeni sociali analoghi
soprattutto per quanto riguarda la relazione tra lo stato e i gruppi
indigeni. Ad esempio, i problemi provocati dalla presenza di coloni
nella regione amazzonica peruviana si differenziano ben poco da
quelli posti dall'invasione nel nord del Brasile. E allo stesso modo
il riconoscere agli indigeni la proprietà della terra che
occupano da tempo immemorabile incontra gli stessi ostacoli in
diversi governi sudamericani.
Onde evitare interpretazioni errate è
necessario chiarire che questa uniformità, lungi dal prodursi
in virtù di un presunto sviluppo obbligato della relazione
popolo indigeno/nazione occidentale (dove le caratteristiche stesse
degli indigeni determinerebbero la forma della relazione), sembra
essere invece il prodotto di una unità di intenti da parte dei
gruppi sociali occidentali dei diversi paesi. Vale a dire che la
società occidentale locale si è auto-investita della
missione di far "progredire" le società indigene,
considerate primitive, occultando i suoi interessi economici (a) e di
omologazione culturale nazionale (b) con ideologie "progressiste".
A) - L'interesse economico che
si esprime soprattutto nel non riconoscere la proprietà della
terra, e nella pressione statale sui contadini poveri per la
colonizzazione delle terre indigene. Nello stesso modo si spiegano le
concessioni alle compagnie petrolifere nazionali ed internazionali
perché realizzino esplorazioni in aree indigene e
successivamente sfruttino i giacimenti di petrolio (vedasi il caso
del medio Orinoco in Venezuela o della foresta amazzonica in
Ecuador).
Infine, in questo stesso ambito di
interessi, dobbiamo anche considerare l'utilizzo della forza-lavoro
indigena, possibile soprattutto quando non si riconosce il diritto
alla terra. Questo tema sottostimato acquisisce importanza
particolare nelle regioni andine e minerarie in genere.
B) - L'interesse di omologazione
dei popoli indigeni con i popoli creoli locali. Di fatto, le diverse
nazioni sudamericane, per il fatto di essere fondate su un
nazionalismo esacerbato, tentano una unificazione culturale orientata
a creare "cittadini" con caratteristiche simili all'interno
di ciascun paese.
Anche per questo quando un problema
indigeno si manifesta a livello nazionale e alcuni settori della
popolazione non indigena esprimono posizioni indigeniste, l'accusa
che arriva dall'alto è che si vuole creare uno "Stato
nella nazione", ossia destabilizzare l'unità dello stato,
e altre sciocchezze simili.
L'ultima violenta campagna contro la
chiesa brasiliana (1987) utilizzò proprio questa accusa come
arma d'attacco.
A partire da queste considerazioni
generali è possibile comprendere meglio l'imposizione di studi
scolastici non "adattati" alle popolazioni indigene, così
come quella del servizio militare per i giovani indigeni
(generalmente in regioni diverse da quelle d'origine).
Il fulcro di questi due grandi
interessi che i gruppi dominanti delle società occidentali
locali dimostrano per i popoli indigeni risiede nel problema della
terra. Di fatto i gruppi dominanti creoli hanno ben compreso che a
una identità indigena resistente corrisponde una forte
difesa dei territori tradizionali. Di conseguenza, promuovono
molteplici attività nelle aree indigene per indurre o
accelerare la crisi di identità dovuta al contatto. Queste
"attività" (da quelle scolastiche a quelle religiose
dei missionari) possono essere considerate parte di un piano
generale, più o meno cosciente, per eliminare le differenze
culturali: quando gli indigeni non si distingueranno dai contadini
creoli, non avranno maggiore diritto alla terra di questi ultimi.
Non è questo il luogo per
ricostruire la storia dell'invasione europea dei territori indigeni,
ma è necessario sottolineare, senza timore di smentita, che le
ragioni addotte per giustificare l'invasione attuale non sono molto
diverse da quelle coloniali.
L'argomento base che pretende
giustificare l'invasione e che è restato pressoché
immutabile da quasi cinquecento anni ci sembra il seguente: esistono
enormi territori vuoti che, di fronte ad una "evidente"
necessità di terra tra la popolazione creola debbono essere
occupati.
È
la cosiddetta teoria del "vuoto amazzonico" che in un certo
senso si applica anche a regioni andine sfruttabili economicamente
(soprattutto miniere).
Certo coloro che utilizzano questo tipo
di giustificazione per poter occupare le terre non ignorano la
presenza di popolazioni indigene. E senza dubbio degli indigeni
valutano solo l'aspetto numerico comparato con l'estensione del
territorio utilizzando i parametri europei (e occidentali) a livello
agricolo produttivo. Infatti il sistema agricolo europeo importato in
America è caratterizzato dalla coltivazione intensiva di
piccoli pezzi di terra e quindi comporta la presenza di un gran
numero di occupanti in piccole estensioni di terra produttiva. Se si
proietta questo tipo di sistema sulle aree indigene la conclusione è
ovvia: "cosa fanno pochi indios con tanta terra?".
Questa "analisi", utilizzata
per grandi "hacendados" come per coloni poveri, non tiene
conto della diversità culturale e quindi economica di queste
popolazioni, né delle caratteristiche specifiche di queste
terre (l'Amazzonia soprattutto).
Nel caso amazzonico l'esuberanza della
vegetazione fa dimenticare e non percepire immediatamente che si
tratta di un sistema ecologico fragile, con i suoli acidi e un
equilibrio instabile. Sappiamo bene ciò che succede quando si
abbatte senza controllo la selva per coltivare: dopo due o tre anni
di alta produzione la fertilità decade progressivamente e il
processo non si arresta neppure con l'uso di concimi chimici. Il
risultato è una specie di deserto rosso che può
tollerare a malapena la presenza di qualche mucca.
I popoli indigeni hanno cercato di
adattarsi a questo ambiente con una strategia che cerca di mantenere
in equilibrio il rapporto tra popolazione numerica ed estensione del
territorio; mantenendo cioè un numero ristretto di individui
su una grande estensione di terra che può bastare loro per
caccia, pesca, frutti selvatici e produzione agricola, senza
distruggere l'ambiente circostante (rotazione dei campi coltivati per
non "esaurire" la sua capacità produttiva;
proibizioni relative alla caccia per permettere la riproduzione degli
animali, ecc.).
In conclusione la teoria del "vuoto
amazzonico" può essere considerata senza alcuna base
poiché, in relazione al tipo di eco-sistema, queste terre sono
già completamente occupate. È
comunque evidente che sono altri gli interessi in campo a livello
economico generale: non è certo un mistero il grande interesse
delle grandi compagnie multinazionali per queste terre ricche di
petrolio e di minerali.
Passando dai problemi ambientali alla
diversità culturale ed economica di queste popolazioni, il
rapporto con l'ambiente è solo uno degli elementi del sistema
di produzione indigeno, che unito agli altri permette di configurare
tale sistema in tutta la sua complessità culturale.
Possono essere considerati elementi
essenziali di questo sistema:
1 - L'organizzazione culturale della
relazione con l'ambiente (chi o che cosa è la terra, come si
deve trattarla, ecc. ) ;
2 - La delimitazione culturale del
campo di azione (questi animali, non quelli; queste
coltivazioni e non altre, ecc.);
3 - La produzione di strumenti per
l'azione (armi per la caccia, strumenti per l'agricoltura,
ecc.) e determinate tecniche per il loro uso;
4 - La delimitazione degli spazi
produttivi in relazione al tipo di organizzazione sociale del gruppo;
5 - L'organizzazione del lavoro (individuale, familiare o di gruppo);
6 - L'organizzazione dello scambio
interno al gruppo e con altri gruppi indigeni (circuiti di scambio,
mercati, ecc.). Tutti questi elementi costituiscono una trama
di conoscenze che mantiene la relazione con l'ambiente e, in un certo
senso, ne è il riflesso.
Da queste diverse concezioni e
relazioni, emerge soprattutto una rappresentazione particolare della
terra: è altro come nel caso della Pachamama dei
quechua o del Nunqui tra gli Shuar - e non uno
strumento di produzione. E d'altra parte, anche quando non la si
identifica con entità "spirituali", la terra è
sempre molto più di un semplice pezzo di terra: essa è
lo "spazio culturale" di ciascun gruppo simbolicamente
integrato con il contesto globale della sua cultura. In questo senso
risulta ben comprensibile la perplessità degli indigeni più
anziani di fronte alla possibilità di possedere, e quindi di
vendere, la terra.
D'altro canto, data la situazione di
contatto e l'invasione delle stesse terre, nasce la necessità
di esigere dal governo un riconoscimento globale dell'occupazione di
questi territori da parte dei popoli indigeni.
Diviene così necessario
utilizzare il concetto occidentale di "proprietà",
anche se la richiesta di titoli di proprietà collettivi e del
territorio etnico non suddiviso ne trasformano un poco la sostanza.
Questa richiesta è diventata la bandiera di lotta per quasi
tutte le organizzazioni indigene sorte negli ultimi venti anni. E di
conseguenza sono aumentate le azioni dei governi e dei grandi
proprietari terrieri per impedire tale riconoscimento di proprietà.
A dimostrazione, vogliamo citare almeno due casi.
Il caso Mapuche (Cile)
La situazione del popolo Mapuche può
essere considerata una delle più precarie dell'America Latina,
anche per la repressione che tutto il Cile vive sotto la dittatura
militare di Pinochet. Periodicamente i Mapuche cercano di riprendersi
le terre da cui sono stati espulsi e, inevitabilmente, l'esercito e
la polizia li ricacciano fuori, li arrestano, li torturano e
assassinano i loro leader. Per arrivare alla distruzione del
movimento di opposizione dei Mapuche - visto che la repressione non
ha dato i risultati sperati - Pinochet nel marzo 1979 ha firmato la
"nuova legge indigena" (decreto legge numero 2568) che
tenta di trasformare il sistema di proprietà collettiva delle
terre in sistema individualizzato. In questo modo sono stati
consegnati titoli individuali di proprietà con il risultato di
"diminuire" automaticamente il numero delle unità
Mapuches riconosciute legalmente così che, nel 1985, le
comunità riconosciute sono passate da 2066 a 655.
Le intenzioni del governo emergono
chiaramente dalla seguente dichiarazione di Rosamel Milloman Reinao
(1986), membro di "AD MAPU", organizzazione Mapuche:
"Pinochet vuole annientarci, demapuchizarci. Il governo cerca di
dividere il popolo Mapuche con la forza, l'intimidazione e l'inganno.
In questo modo ha già diviso più
del 50% delle comunità che esistevano fino al 1973. Il Huinca
usurpatore ha cercato di strappare la terra a molti fratelli e
purtroppo il proprietario terriero può contare sulle
giustificazioni giuridiche che sono a suo favore".
(Bollettino IWGIA n. 1/2; 1986:
68).
Il caso Yanomami (Brasile)
Dalla fine degli anni '70
organizzazioni internazionali brasiliane lottano perché venga
riconosciuto il diritto al popolo Yanomami (di circa 20.000 persone
tra Brasile e Venezuela) di avere una base territoriale sicura e
protetta dalle invasioni.
Soprattutto il lavoro della Commissione
per la creazione del parco Yonomami (CCPY) può costituire un
esempio in questa lotta (che fino ad ora non è stata condivisa
completamente dagli stessi indios poiché si tratta di una
etnia con scarsi contatti con le Società nazionali).
Contro la proposta della "Commissione"
di delimitare un territorio unico la Fondazione Nazionale dell'Indio
(FUNAI), organismo del governo brasiliano, ha proposto la creazione
di 23 piccole riserve che avrebbero permesso l'occupazione delle
terre intermedie da parte delle compagnie minerarie e dei coloni
(cosa molto distruttiva per la società Yanomami che si basa su
una rete di scambio con un ampio raggio d'azione).
Fra il 1981 e il 1982 si cerca di
sbloccare questa proposta e si arriva a una dichiarazione di
interdizione da parte del governo brasiliano di 7,7 milioni di
ettari.
Il termine "interdizione" si
intende qui come un ripiego provvisorio in attesa della delibera
definitiva sulla creazione del parco (ritardi e attesa furono
giustificati con scuse del tipo: è necessario studiare bene la
situazione, ecc.).
Di fatto, l'"interdizione"
non frena l'invasione dei cercatori d'oro, coloni e compagnie
minerarie, spalleggiate dai politici locali, già installati
nella stessa regione (vedasi, ad esempio, il caso dell'azienda
Paranapae in territorio Waimirì-Atroari, al sud del territorio
Yanomami).
Finalmente, nel gennaio del 1987 il
presidente Sarney annuncia la sua intenzione di firmare il decreto
per la creazione del parco Yanomami, ma lo fa solo per le necessità
di una squallida propaganda politica: fino ad oggi (1988) non solo il
decreto non è stato firmato e le terre Yanomami continuano ad
essere progressivamente invase, ma si comincia a parlare di
delimitare piccole aree. Abbiamo citato due casi estremi, anche
geograficamente, per cercare di individuare la complessità del
problema. In alcuni casi, come in Brasile o Venezuela, le terre sono
state formalmente delimitate, ma si tratta di un riconoscimento
fittizio visto che attribuisce solo l'usufrutto e non la proprietà
reale della terra. Di fatto, questi titoli non riconoscono agli
indigeni la possibilità di sfruttare il sottosuolo. Al
contrario, lasciano aperta la porta all'invasione di imprese
minerarie e, in questo modo, alle espropriazioni. In altri casi come
il Cile, Perù, Ecuador e lo stesso Brasile in cui anche sono
stati assegnati titoli di proprietà individuali, si fomenta la
divisione fra le comunità e la vendita "legale"
delle terre.
È certo che la maggior parte
delle terre occupate dai popoli indigeni non ha titoli di proprietà,
cosa che facilita le invasioni. Il metodo è semplice: si
occupa una parte di queste terre e poi si chiede il riconoscimento
giuridico di proprietà agli organismi ufficiali preposti.
Parentele, amicizie, denaro fanno il resto: si scopre improvvisamente
che le terre indigene sono possedute "da molti anni" da
questi invasori e diventa molto difficile cercare di allontanarli. Lo
stesso processo si verifica comunque in modo drammatico anche nei
territori delimitati legalmente.
Attualmente è molto difficile
sapere quale è in generale la proporzione tra le terre invase
e terre indigene libere, come non esistono statistiche affidabili per
ciascuno stato sulla quantità di terre indigene delimitate in
rapporto con il territorio globale occupato dai vari popoli indigeni.
Un esempio può spiegare meglio
questa situazione.
In Venezuela esistono circa 34 popoli
indigeni diversi con un numero di individui che varia da 150.000 a
180.000. Quasi tutte le aree indigene sono invase e in alcune lo
sfruttamento petrolifero è avanzato. Il censimento del 1982,
realizzato dal governo, mostra che il 75% delle comunità
indigene continuava ad essere senza titoli di proprietà,
mentre solo l'11% delle comunità aveva un titolo collettivo e
il restante dichiarava di non sapere se avevano un titolo o
dichiarava di avere titoli individuali.
A questi dati è necessario
aggiungerne altri di tipo storico: alcuni popoli indigeni,
soprattutto dell'Oriente del Venezuela, come i Kari'na, possedeva un
"titolo" coloniale concesso dalla corona spagnola alla fine
del 1700.
Questi "titoli", che
riconoscevano la proprietà di meno terra di quella
effettivamente occupata dagli indios, non furono molto rispettati in
epoca repubblicana e tantomeno lo sono ora, malgrado alcune comunità
possano esibire il documento corrispondente. Per chi pensasse che
questi titoli siano troppo vecchi per essere considerati validi,
vogliamo segnalare che lo stesso tipo di documento è servito
ad alcuni coloni per vedersi riconosciuta la proprietà delle
terre "occupate". Le percentuali riportate per il
Venezuela sono in gran parte valide anche per il resto dell'America
Latina (cioè: 75% di terre non delimitate). E, d'altra parte,
anche dove esiste un decreto di demarcazione con titolo relativo le
invasioni non sono terminate.
In primo luogo perché è
difficile espellere giuridicamente gli invasori che già stanno
sul territorio indigeno, e in secondo luogo perché questi
pretendono una indennità dal governo che è difficile
ottenere.
In Brasile, ad esempio, quasi tutte le
aree delimitate si trovano in questa situazione. In questo caso si
tratta di invasori ricchi di vecchia o nuova data, con aziende di
bestiame, imparentati con giudici o avvocati e rispettati dalla
polizia. Tutto questo per gli indigeni ha significato veder ridurre
le proprie terre e perdere quelle più fertili, bestiame che
invade i campi, case bruciate, ecc.. Continuando con questo argomento
delle terre indigene già delimitate vale la pena di citare il
caso dei Piaroa in Venezuela.
Il caso Piaroa (Venezuela)
I Piaroa sono un popolo indigeno di
circa 3.000 individui situati nell'attuale Territorio Federale
Amazzonico.
Alcuni anni fa l'Istituto Agrario
Nazionale (IAN) ha assegnato ai Piaroa un titolo collettivo. Questo
titolo ovviamente non fu riconosciuto dai grandi proprietari terrieri
della regione. Ecco come Josè Caballero, leader Piaroa,
descrive la situazione nel 1984: "Per la prima volta il nome del
nostro popolo percorre il mondo con il rumore del vento. Noi Piaroa
da quattro mesi facciamo notizia nazionale e internazionale. Grazie
al signor Herman Zingg, un proprietario terriero che si è
impossessato di più di 8.000 ettari della Valle di Guanay e
pensa di prendersi tutta la valle di 50.000 ettari che l'Istituto
Agrario Nazionale ha attribuito a noi con titolo collettivo. L'IAN in
varie occasioni gli ha negato il riconoscimento dei suoi pretesi
diritti sulle terre dei Piaroa, ma poiché lui è ricco e
potente ha continuato. E poiché ci considera come gli altri
animali della foresta ha avuto la faccia tosta di offrire di comprare
tutta la valle di Guanay con i Piaroa e tutto". (Bollettino IWGA
n.3/4,1984: 156).
Sotto la pressione dell'opinione
pubblica, nel giugno 1984 il governo nomina una commissione
investigativa che dimostra subito da quale parte sta, alloggiando
nell'azienda di Zingg e usando il suo aereo privato e conclude la sua
indagine con l'accusa di "sovversione ideologica": qualcuno
- concludono - sta spingendo gli indigeni a ribellarsi alla società
creola. Comunisti e Chiesa cattolica si sarebbero alleati per
costruire uno stato indipendente nell'Amazzonia Venezuelana!
Forse per la prima volta in Venezuela
l'opinione pubblica si divide in due fronti rispetto al problema
indigeno. Sulla stampa non si parla d'altro. Conclusione: il governo
riconosce i diritti dei Piaroa ed "espelle" Zingg. Si
tratta in realtà di un gioco di potere: in cambio gli vien
dato un terreno più fertile oltre ad un congruo indennizzo.
Il ruolo dei militari
Il problema del riconoscimento legale
alle società indigene del diritto alle terre occupate (nel
senso globale prima descritto) incontra scarsa attenzione negli
organismi amministrativi dei diversi governi.
Troppi sono gli interessi in gioco e
troppe le complicità esistenti tra il potere politico locale e
nazionale e i centri di potere economico.
In questo senso non bisogna dimenticare
che buona parte delle famiglie che mantengono il potere all'interno
dei vari stati latinoamericani sono di origine agraria e i loro
latifondi (in parte in aree indigene) continuano a produrre molto,
soprattutto dopo la loro conversione in aziende agricole "moderne",
con monoculture estensive (soia, sorgo, ecc.) e allevamenti bovini
meccanizzati. Anche in questo contesto il caso del Brasile è
molto rappresentativo.
La presenza dei militari in tutti
questi processi richiederebbe uno studio a parte. La "vecchia"
giustificazione della "sicurezza nazionale" viene
utilizzata quando più conviene per giustificare la sua
intromissione. In alcuni casi come in Colombia e Perù
l'esistenza della guerriglia provoca automaticamente l'occupazione
violenta delle terre indigene da parte dei militari. E così
qualunque leader indigeno diviene immediatamente sospetto e interi
villaggi sono rasi al suolo.
In questo modo i militari cercano
semplicemente di eliminare i conflitti locali, soprattutto quelli che
riguardano la terra , utilizzando come giustificazione la guerriglia.
In altri paesi in mancanza di
guerriglia è la "difesa delle frontiere" a
giustificare (o meglio autogiustificare) la presenza dei militari nei
territori indigeni.
Essi sono massicciamente presenti alle
frontiere fra Perù ed Ecuador, in territorio Shuar; alla
frontiera fra Venezuela e Colombia in area Guajira; fra Venezuela e
Guayuana, in area Pemon; fra Brasile e Perù , in area Kulina
e Kampa, ecc...Fra tutte queste politiche di occupazione militare
delle aree indigene, quella del Brasile merita un maggiore
approfondimento.
Il progetto "Calha Norte"
(Brasile)
Il "progetto Calha Norte"
prevede l'occupazione militare nelle frontiere a nord del Brasile, di
circa 6500 Km di foresta amazzonica. La cartina indica le aree dove i
militari brasiliani pretendono di costruire i loro aeroporti e forti,
ai confini di Perù, Colombia, Venezuela, Guyanna e Surinam.
Tutta questa zona di circa 100/150 Km in larghezza lungo tutta la
frontiera nord, è territorio indigeno con almeno 50.000
persone di gruppi culturali diversi (Wapixana, Makuxi, Yanomami,
Tucanos, ecc.). Inoltre, considerando le buone relazioni esistenti
tra militari e gruppi economici - sia nazionali che internazionali -
questa occupazione può essere considerata il primo passo per
l'entrata di aziende petrolifere, minerarie, ecc...
Il Presidente del Consiglio Indigenista
Missionario (CIME), il vescovo Krantler, afferma che "esistono
due forze simultanee con fini diversi in questa regione che occupa
il 14% del territorio brasiliano: da una parte i militari
intervengono con una operazione logistica, che alla fine porterà
all'instaurazione di un potere politico nell'area, e dall'altra le
multinazionali protette perché sfruttino le miniere e
utilizzino gli indios per i propri interessi". (El Nacional,
28/6/87, Caracas).
All'inizio di settembre del 1987 il
Ministro dell'esercito brasiliano installò il primo plotone
del progetto "Calha Norte" sulla frontiera con la Colombia.
La stessa occupazione è iniziata in Rororaima, ai confini con
Venezuela e Guayana.
Oltre a tutte queste azioni di governi
o di gruppi economici particolari periodicamente viene rispolverata
una vecchia tecnica "pubblicitaria" anti-indigena: sono
o non sono indigene le popolazioni che pretendono di
esserlo? In modo del tutto prevedibile i gruppi creoli dominanti
ricorrono a questa tattica quando aumentano le lotte indigene
organizzate e parte della società creola appoggia queste
lotte. Si tratta, in definitiva, di convincere l'opinione pubblica
creola che questi gruppi non sono indigeni visto che si vestono e
parlano come il resto della popolazione. Inoltre dove fino a pochi
anni fa gli organismi "tutelari" ponevano il problema in
termini di razza - fino al 1980 in Brasile la Funai cercava le
"macchie razziali" degli indigeni - ora sono diventati più
sofisticati e, giustificati da studi antropologi, cominciano a
utilizzare concetti come acculturazione, grado di contatto,
ecc...
Si elaborano così "criteri"
per decidere chi è indio e chi non lo è, con il
conseguente diritto alla terra riconosciuto solo a chi può
essere considerato "puro e non contaminato"!
Non stiamo parlando del passato, ma di
realtà contemporanee e processi in corso attualmente. Ad
esempio, in Brasile, poco tempo fa, i deputati eletti dall'Assemblea
Costituente dovevano, tra l'altro, riscrivere la legislazione
riguardante gli indigeni.
Poi, il 19 settembre 1987, il deputato
Bernardo Cabral presenta ai giornalisti il testo provvisorio della
Costituzione in cui l'articolo 261 riconosce agli indigeni il diritto
"su tutte le terre possedute dai tempi antichi e dove sono
permanentemente localizzati".
Questo significa che i gruppi indigeni
espulsi dalle loro terre non avrebbero nessun diritto a riaverle. Di
più, l'articolo 264 nega qualunque protezione costituzionale
specifica agli "indios che abbiano un elevato grado di
acculturazione e che mantengano una costante convivenza con la
società nazionale".
Il che equivale a dire che chi
commercia coi bianchi, si dice cristiano, o ha un abbigliamento, o
protesta alla maniera dei bianchi, o ha il suo territorio invaso, non
ha diritto alla proprietà della terra.
La difesa dei territori indigeni
Noi chiediamo: chi può stabilire
con certezza quando un popolo cessa di essere se stesso per diventare
"altro"?
Gli indigeni, da parte loro, almeno
negli ultimi vent'anni, non sono rimasti inattivi aspettando che i
"bianchi" trovassero la soluzione. In quasi tutto il
continente abbiamo assistito ad azioni indigene individuali o di
gruppi associati nelle lotte per la difesa e la rivendicazione dei
territori tradizionali. Sembra quasi che gli indigeni si siano
stancati di aspettare il riconoscimento attraverso i meccanismi dello
stato occidentale.
In Ecuador, ad esempio, la
Confederazione delle Nazioni Indigene dell'Amazzonia Ecuadoriana
(CONFENIAE) apre il suo calendario del 1988 con lo slogan: "Con
titolo o senza titolo siamo padroni legittimi dei nostri territori".
Si tratta senza dubbio di un caso particolare e all'avanguardia nel
panorama indigeno latino-americano, che vale la pena di citare perché
costituisce un'importante indicazione di lotta e perché la
CONFENIAE è una confederazione che riunisce tutte le
federazioni indigene dell'Amazzonia ed è molto seguita nel
contesto ecuadoriano.
La difesa della terra, in generale,
sembra articolarsi in almeno quattro modalità, non
necessariamente coincidenti né esclusive.
La difesa anche armata
Rispetto a questo tipo di difesa si
possono citare molti casi. Fondamentalmente si tratta di impedire,
per quanto possibile, l'entrata di persone estranee nel territorio. A
volte è sufficiente creare e divulgare la fama di "selvaggi"
per impedire l'entrata. In altri casi gli indigeni sono costretti a
ricorrere alla forza col rischio di veder arrivare in massa i
"vendicatori". In Brasile, ad esempio, all'inizio degli
anni '70, la necessità di difendere il proprio territorio ha
portato i Waimirì e gli Atroarì ad uccidere il
missionario Calleri e i suoi accompagnatori che tentavano di
"pacificarli". Ma ciò nonostante i Waimirì e
gli Atroarì non riuscirono a bloccare le scavatrici che
avanzavano nei loro territori per costruire la strada Manaus-Boa
Vista, né gli elicotteri dell'esercito che le difendevano.
Essi cercarono di difendersi, ma contro le armi sofisticate dei
bianchi, le frecce poterono ben poco: la strada fu costruita e i due
popoli furono parzialmente decimati sia dai soldati, sia dalle
malattie introdotte (all'epoca furono denunciate anche incursioni di
elicotteri armati nei villaggi).
È evidente che questo tipo di
difesa non può essere vincente nel contesto degli attuali
stati nazionali latinoamericani, anche se esistono situazioni e
condizioni dove continua ad essere utilizzato, a volte anche con
buoni risultati. Ad esempio, le "ronde contadine" quechua
in Perù, organizzate spontaneamente contro gli abusi della
guerriglia e dell'esercito stesso, funzionano relativamente bene per
impedire l'entrata di estranei nei loro territori. Un po' diverso è
il caso degli Huaorani nell'Ecuador.
Il caso Huaorani
Questo popolo, ridotto a circa 700/1000
persone persiste nella difesa del suo territorio anche di fronte
all'invasione delle aziende petrolifere. Diamo una rapida scorsa alle
ultime tappe di questo conflitto:
1921 - La compagnia Shell inizia la sua
attività nella regione.
1948 - Entra nella zona anche la Esso
Standard.
1951 - Sebbene ridotti numericamente
per gli assassini da parte dei cercatori di caucciù e per le
malattie portate dai bianchi, gli Huaorani mantengono inviolato un
territorio di circa 18.000 Kmq. 1956 - Cinque missionari del ILV sono
uccisi dagli Huaorani.
1958 – Inizia l'invasione dei
coloni, solo in parte frenata dalla difesa degli Huaorani.
Disgraziatamente si tratta di indios quechua che sono costretti ad
emigrare dalla Sierra alla foresta. 1960-1977 - In questo periodo
una parte degli Huaorani è "pacificata" dai
missionari, mentre una buona parte continua ad essere isolata e non
accetta il contatto. In questi anni 8 quichuas e 5 coloni vengono
uccisi. Questi fatti vengono utilizzati per giustificare l'invasione
armata. Mancano completamente i dati sugli Huaorani morti in queste
incursioni dell'esercito.
1986 - Il "Blocco petrolifero n.
17" viene assegnato al consorzio BASPETROL (Brasile), ELF
AQUITAINE (Francia), quest'ultima già famosa per l'invasione
delle terre Sateré-Manes in Brasile (1982), e BRITOIL
(Inghilterra). Il blocco n. 17 coincide con le aree dei Tagaeri,
ultimi Huaorani isolati.
1987 - Il vescovo Labacca e una suora
vengono uccisi nel tentativo di stabilire un contatto con i Tagaeri
prima delle compagnie petrolifere. Malgrado i due religiosi fossero
impegnati nella difesa degli indigeni e conoscessero la problematica
locale, essi commisero un tragico errore: si fecero portare nell'area
Tagaeri da un elicottero di una delle compagnie petrolifere. Come
scrisse un missionario cappuccino della stessa congregazione di
Labacca, "le lance furono tirate contro le compagnie
petrolifere, non contro padre Alessandro".
(Hoy, 24 giugno 1987: 3 Quito).
La rioccupazione pacifica delle
terre
Prima di esaminare alcuni esempi di
questo tipo di difesa è necessario sottolineare che si tratta
di un comportamento molto diffuso. Infatti è relativamente
frequente che l'invasione creola sia seguita da un tentativo degli
indigeni, più o meno organizzato, di riappropriarsi delle loro
terre. Questo processo è diffuso al nord del Brasile
(Rororaima) come in Venezuela (caso Piaroa), in Paraguay (Guarany),
Perù, ecc...Senza dubbio in alcune aree questo tipo di azioni
si presenta come una vera e propria strategia regionale, come nel
caso dei Quechua in Perù.
Prima di descrivere i fatti attuali
vediamo alcuni riferimenti storici. La riforma agraria di Velasco
aveva creato in Perù "aziende agricole", controllate
dallo stato, per favorire lo sviluppo agricolo della regione andina.
Queste "aziende" riunivano gruppi di contadini in una
struttura tecnico-amministrativa. Caduto il governo di Velasco la
riforma viene "sepolta" e le aziende si trasformano in
nuove strutture di potere e di sfruttamento.
Basti dire che, nel caso della regione
di Puno, il 54% delle terre fino al 1985 era controllato da queste
"aziende".
Nel 1985 si sviluppa la protesta dei
contadini quechua. Nel febbraio 1986 si cerca di strappare al governo
di Alan Garcia due decreti sulla ristrutturazione delle "aziende".
Ma l'applicazione dei due decreti tarda e così in maggio 156
comunità di 9 province di Puno prendono possesso di circa
280.000 ettari. La repressione da parte dell'esercito e della polizia
non si fa attendere: un dirigente assassinato e 375 arrestati. Grazie all'appoggio delle Federazioni
Unitarie dei Contadini (CARICOMA) si cerca di far scarcerare i
contadini arrestati e le lotte riprendono. Nel giugno 1987,
finalmente, si riesce a discutere con il ministro e ad ottenere
l'assegnazione delle terre occupate. Per accelerare l'attuazione
delle promesse del governo in luglio si attua un'altra ondata di
occupazioni nella regione, e così altre terre vengono
assegnate.
Attualmente il grande pericolo, per i
contadini quechua, è la "criminalizzazione" delle
loro azioni rivendicative da parte dell'esercito che utilizza
l'accusa di appartenenza a Sendero Luminoso per incarcerare i leader
indigeni e stroncare le lotte per la difesa della terra.
La delimitazione autonoma delle
terre
Tra i casi di autodelimitazione del
proprio territorio citeremo il caso degli Shuar dell'Ecuador che sono
l'esempio più interessante di questo tipo di azioni e di un
processo più generale in cui gli indigeni fanno proprie le
tecniche di lotta tipiche dei loro invasori.
Sin dalla sua fondazione, negli anni
'20, la Federazione Shuar ha lottato per ottenere il riconoscimento
del suo diritto di proprietà sulla terra. In quegli anni ad
alcuni gruppi il diritto è stato riconosciuto, ma alla maggior
parte no. Nel periodo in cui questa lotta è continuata la
Commissione Terra della Federazione, in collaborazione con gli
organismi di cooperazione internazionale, ha creato un suo settore
topografico per misurare le terre delle comunità (i "centri
Shuar") e poter così combattere giuridicamente e
"topograficamente" le pretese dei coloni e delle compagnie
petrolifere appoggiate dal governo. Nel 1987 si può
considerare conclusa la fase di misurazione delle terre Shuar, mentre
deve ancora attuarsi quella del territorio Achuar, gruppo della
stessa Federazione.
Un effetto secondario, ma non meno
importante di questi anni di misurazioni topografiche, è stata
la formazione di quattro topografi Shuar che continueranno
autonomamente le misurazioni dando il loro appoggio alle comunità
che lo richiederanno (i topografi non Shuar che hanno cooperato al
progetto hanno concluso la loro collaborazione nel 1987).
La lotta giuridica
Con la creazione delle federazioni
indigene nella maggioranza degli stati latino-americani gli indigeni
hanno progressivamente compreso che nel rapporto con i creoli è
molto importante il sistema legislativo e burocratico occidentale.
Non si tratta di escludere altre strategie, bensì di
integrarle, di riempire di propri contenuti e di forza l'utilizzo
dell'apparato giuridico dello stato. Così, vengono consultati
avvocati sensibili al problema indigeno e i gruppi indigenisti a
livello nazionale e internazionale formano commissioni di studio
cercando di trovare gli strumenti legali per dimostrare la
legittimità delle rivendicazioni indigene.
In molti paesi si sono creati gruppi di
avvocati disposti ad intervenire nei casi di conflitti prodotti dalle
invasioni e molte organizzazioni indigene tendono a formare propri
avvocati per cui in Ecuador e Venezuela, ad esempio, giovani indigeni
stanno frequentando le facoltà di legge nelle università
nazionali.
Come esempio di lotta giuridica si può
citare il caso dei Maskoy del Chaco paraguayano. Da quattro anni i
Maskoy, un gruppo guarany formato da circa 10.000 persone, cercano di
riavere le proprie terre occupate illegalmente dalla compagnia CASADO
S.A.; rifiutata la proposta di occupare altre terre, hanno preferito
tentare la via legale e dopo anni di pressioni e dimostrazioni,
nell'agosto del 1987, il governo ha decretato l'espropriazione di
30.000 ettari alla CASADO, nella zona del rio Mosquito, in favore dei
Maskoy.
Quale futuro per i territori
indigeni
Da quanto abbiamo detto sinora emergono
alcune linee di tendenza che vale la pena di riassumere: a) I popoli
indigeni si stanno organizzando sempre più per difendere i
loro territori o riuscire a farseli restituire;
b) A livello internazionale si
moltiplicano gli incontri indigeni e indigenisti per scambiarsi le
diverse esperienze ed elaborare strategie a livello continentale,
oltre che per coordinare momenti specifici di lotta su problemi
comuni (ad esempio la problematica amazzonica);
c) Su questi obiettivi hanno trovato
alleati nella società non indigena dei diversi paesi:
antropologi, intellettuali, gruppi di opinione, ecc., che collaborano
con loro in un modo nuovo rispetto a certo indigenismo neo-romantico;
d) È
stato molto importante l'appoggio, non solo finanziano, delle
istituzioni internazionali preoccupate per il futuro di questi
popoli.
Ma i problemi sono ancora molti.
Innanzi tutto quelli relativi al mantenimento delle organizzazioni
indigene che fluttuano, almeno a livello organizzativo, tra forme
tradizionali di gestione e nuovi modelli mutuati dal mondo
occidentale. Più di una organizzazione si è dissolta
per non aver saputo risolvere questa coesistenza di modelli culturali
diversi. Inoltre da parte delle società nazionali non
diminuisce certo l'interesse per le terre indigene, anzi è
ampiamente prevedibile che questo interesse aumenti in futuro,
soprattutto rispetto all'Amazzonia.
Infatti, mentre le multinazionali,
spinte dal profitto, continuano ad investire milioni di dollari nel
progetto amazzonico, anche i governi locali, attratti dal mito dei
facili guadagni, aumentano gli investimenti in queste regioni (alla
ricerca disperata di soluzioni alle loro economie in crisi) senza
tenere assolutamente conto degli interessi ambientali né
tantomeno degli indigeni.
Di fronte a questa realtà sono
gli stessi popoli indigeni ad organizzarsi, e non su basi falsamente
rivendicative delle condizioni anteriori alla conquista, ma con
chiari programmi di lotta idonei ai tempi e alle condizioni locali.
Il destino di queste lotte dipende in gran parte dalle condizioni
politiche locali, cioè dalla capacità di capire le
forze in gioco. Vale anche la pena di accennare al problema delle
alleanze con gruppi politici non indigeni. Negli ultimi vent'anni di
politica indigenista in America Latina sembrerebbe che partiti e
gruppi di sinistra abbiano assunto posizioni a favore delle lotte
indigene. Certo, se si considerano alcuni fatti specifici, bisogna
dire che non è stato sempre vero. Ad esempio nel caso della
Sierra ecuadoriana l'alleanza con partiti di sinistra non ha sempre
dato buoni risultati. In un certo senso la stessa cosa è
avvenuta in Perù e Bolivia. In tutti questi casi
l'utilizzazione di categorie come "classe" o "contadini"
(cioè di un classico schema marxista, ndt.), ha posto in
secondo piano l'identificazione etnica di questi popoli mentre è
proprio questo il punto su cui oggi le lotte hanno ripreso vigore e
contenuti.
Terra, organizzazione e cultura
D'altro canto molti partiti scoprono
l'esistenza del "problema" indigeno solo in periodo elettorale
per dimenticarlo subito dopo. O, in modo ancora più cinico,
utilizzano gli indigeni per raccogliere voti o per farsi pubblicità,
per dimenticarli subito dopo.
In Brasile, ad esempio, dopo la
vittoria elettorale del leader Shavante Juruna (eletto al parlamento
nelle liste del PDT nella passata legislatura), nessuno dei candidati
indigeni alla Assemblea Costituente (una decina) è stato
eletto (scarso appoggio dei partiti, folclorizzazione. ecc.). Anche
da parte indigena spesso non si capisce l'importanza di partecipare a
lotte proposte da altri gruppi sociali. Un paio d'anni fa, ad
esempio, durante uno sciopero nazionale dei maestri ecuadoriani, gli
unici a non partecipare furono maestri indigeni Shuar, con la
motivazione che essi, in quanto indigeni, non hanno nulla a che
vedere con le rivendicazioni dei creoli. Simili esempi non sono
isolati e rendono più urgente la necessità di chiarire
le posizioni politiche da una parte e dall'altra. È
evidente che non si può prescindere dall'esistenza del sistema
politico statale sia per elaborare strategie adeguate alla realtà,
sia per cercare di ottenere i territori tradizionali.
Per riassumere citiamo la piattaforma
politica utilizzata in Brasile nella campagna "l'indio nella
costituente", che ci sembra comune anche alla maggior parte
delle organizzazioni indigene in America Latina:
1. Riconoscimento dei diritti
territoriali.
2. Delimitazione e garanzia delle terre
indigene.
3. Sfruttamento e usufrutto esclusivo
delle risorse naturali del suolo e del sottosuolo.
4. Reinsediamento in condizioni degne e
giuste dei coloni poveri che si trovano sulle terre indigene. 5.
Riconoscimento e rispetto per le organizzazioni sociali e culturali
dei popoli indigeni e dei loro progetti sul futuro, oltre alla
garanzia di piena cittadinanza.
In questo modo terra, organizzazione e
cultura sono nuovamente riunite in un unico programma di difesa e di
lotta. Il futuro di questi popoli si gioca in base alla capacità
di mantenere uniti questi tre aspetti della loro vita.
(traduzione
di Fausta Bizzozzero dal n.9, dicembre 1988, della rivista Arinsana)
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