Rivista Anarchica Online
Ricordando Sciascia
di Antonio Cardella
L'ultima volta che vidi Leonardo
Sciascia fu qualche mese fa nella hall di una banca cittadina. Si
appoggiava pesantemente al bastone, che ormai portava da tempo, e
stentava a sollevare i piedi da terra, sicché il suo incedere
si riduceva ad un penoso strisciare sul pavimento. Il corpo della
rigidità tipica di chi ha del tutto perduto il tono muscolare,
il colore terreo del viso, i gesti lenti come se costassero una
fatica insopportabile, tutto, insomma, lasciava trasparire in lui
l'uomo che portava per intero la sua morte addosso.
Gli occhi soltanto, quelli erano accesi
e vivacissimi, quasi che all'interno di quel corpo ormai segnato,
ribollisse una vita tumultuosa, assillata dalla consapevolezza della
fine vicina. E dalla necessità di far presto, di non lasciare
nulla in sospeso: come era suo costume, del resto, nella vita come
nell'impegno quotidiano, letterario, politico o civile che fosse. Il
fatto è che con Sciascia scompare forse la figura più
singolare di intellettuale del Novecento, una sorta di neo-socratico
radicale che non ammetteva cesure tra la sua vita, vissuta nel
complesso tessuto di una Sicilia spesso indecifrabile e comunque
sempre emblematica, e l'impegno dell'artista, chiamato costantemente
a decifrare e analizzare i dati del reale per poi restituirli
parabola della condizione umana.
Una Sicilia indecifrabile - dicevamo -
assunta come metafora alta dei destini di un uomo - quello
contemporaneo - che Sciascia segna dei tratti angosciosi di una
solitudine senza fine - come appunto la sua (la nostra) Isola che dal
mare, da ogni parte e da ogni cosa è irrimediabilmente
separata, per forza irriducibile di natura.
Ma anche come metafora bassa del
trasmigrare verso un continente originariamente immune, di virus
tipicamente isolani, primo fra tutti la refrattarietà ad un
ordine regolato dal diritto, che illuministicamente Sciascia riteneva
l'unico ordine possibile e che - per quanto perentorio fosse il suo
rifiuto verso il potere che non si esaurisse nella gestione corretta
ed onesta del sistema sociale - lo teneva lontano da qualsiasi
approccio libertario-anarchico.
Il siciliano - diceva - non è un
animale sociale. È
diffidente, di quella diffidenza "storica" che è
paura per "i cavalieri berberi e normanni, i militi lombardi,
gli esosi baroni di Carlo d'Angiò, gli avventurieri che
venivano dall'avara povertà di Catalogna, l'Armata di Carlo V
e quella di Luigi XIV, i piemontesi, gli austriaci, i garibaldini e
poi ancora i piemontesi, le truppe di Patton e di Montgomery...".
E per la legge scritta che ciascuno di questi popoli di volta in
volta e inevitabilmente imponeva, con la somma infinita di
prevaricazioni e di iniquità conseguenti.
Ma se questo è comprensibile,
come si fa - diceva Sciascia - a vivere senza una norma, senza una
giustizia che salvaguardi la comunità dalla disgregazione, con
l'ausilio di leggi eguali per tutti?
Contro il potere mafioso
Già, come si fa! Poi per sua
disperazione, Sciascia misurava, nel tormentato quotidiano del nostro
tempo, quanto poco servissero le leggi dello stato a mettere ordine,
a sanare la fame dei poveri e dei disoccupati, a frenare l'ingordigia
dei potenti, a costruire un tessuto sociale nel quale, in virtù
di una solidarietà diffusa, ogni problema, individuale o
collettivo, fosse avviato a soluzione in purezza ed onestà
d'animo.
E si domandava - senza trovare risposte
convincenti - come mai una democrazia matura, per quanto imperfetta,
non fosse riuscita a mobilitare meccanismi idonei a sanare piaghe che
l'umanità, da secoli, porta non rimarginate nel proprio corpo:
mentre, invece, funziona - e come - la legge non scritta, ma
inflessibilmente puntuale - della mafia. Una legge che non è
ormai operante nel solo organigramma mafioso o nel solo territorio
d'origine della mafia, la Sicilia, ma si è estesa a tutto il
tessuto nazionale, sino a diventare forma mentis prevalente,
brodo di coltura delle male piante dell'indifferenza, dell'egoismo e
di tutte le altre storture di cui andiamo lamentandoci ad ogni passo
della nostra precaria esistenza.
Si dannava, il povero Sciascia, ma non
demordeva.
Il suo impegno nella lotta contro il
potere mafioso fu costante e gli procurò negli ultimi tempi
della sua vita non pochi dispiaceri. Per l'imbecillità di
alcuni e la mala fede di molti.
"Beato paese, il nostro, dove
certe parole vanno tronfie per via, gorgogliando e sparando a
ventaglio la coda come tanti tacchini". Così, con le
parole di Luigi Pirandello, che adorava, dava inizio ad un lungo
articolo sul "Corriere della Sera" del 26 gennaio l987,
illuminante ed esaustivo di ciò che Sciascia pensava
dell'antimafia di maniera, alla quale, appunto, dedicava la citazione
da Pirandello, e della sua disperazione nel potere opporre a questi
opportunisti dell'ultima ora solo una "teoria" della
supremazia del diritto, alla quale, chiaramente non credeva più. Leggiamo attentamente il brano più
significativo. "Ma la democrazia non è impotente a
combattere la mafia. O meglio: non c'è nulla nel suo sistema,
nei suoi principi, che necessariamente la porti a non poter
combattere la mafia, a imporle una convivenza con la mafia. Ha anzi
tra le mani lo strumento che la tirannia non ha: il diritto, la legge
eguale per tutti, la bilancia della giustizia".
In quel "O meglio...",
pennellato al fondo di una certezza presunta, non c'è soltanto
la storia del fallimento della democrazia contro la mafia, ma
l'universale iato tra il progetto di qualsivoglia società che
si disponga ad esistere, ingabbiando gli uomini nel reticolo via via
sempre più fitto di norme che passino sulla loro testa, e la
concretizzazione storica, fattuale di tali progetti.
C'è il fallimento del
cristianesimo, del capitalismo maturo, del marxismo reale. Ma c'è
anche - se me lo consentite - il fallimento, almeno sino adesso e
qui, di quanti stentano a fornire modelli alternativi, disancorati
dalle logiche correnti, pur avendo "geneticamente" i titoli
per farlo.
Il fatto che il consenso si accordi
sempre più spesso con esplicita ripugnanza; che uomini come
Sciascia, per sopravvivere e sperare, siano costretti ad abbarbicarsi
a tardive istanze illuministiche, ebbene, tutto ciò vuol dire
che le strade consuete non hanno più sbocchi e che occorre il
coraggio di trovarne di nuove, anche all'insegna dell'utopia spinta
sino all'interruzione della memoria storica. Ma non è di
questo che dobbiamo occuparci, anche se è naturale il
riaffiorare di istanze di tal natura quando, all'improvviso, viene a
mancare la voce di uno spirito vigile ed onesto, male impiegato -
direbbe lui stesso con quel suo mischiare parole italiane e cadenze
dialettali - in un contesto al quale, viceversa, molto di più
avrebbe potuto dare.
Volgendo al termine questo nostro
sommario, parzialissimo ritratto di Leonardo Sciascia, non ci resta
che aggiungere poche parole sulla sua opera letteraria, che è
poi quella che resterà affidata al vaglio delle generazioni a
venire, più disincantate e più provvedute di noi,
almeno così ci auguriamo.
Si è molto parlato del tributo
che lo scrittore siciliano deve alla letteratura francese e, in
particolare, a Stendhal. Se con questo si vuole dire che da Stendhal
Sciascia ha appreso la lezione di una scrittura levigata e leggera,
di un periodare scorrevole e aggraziato, allora non ci sembra ci sia
molto da obiettare.
"Greve è il nostro
tempo"
Ma il tributo si ferma qui. La prosa di Sciascia scava nel
profondo quanto quella del francese sfiora e sorvola.
Al gusto della narrazione bozzettistica
e mondana dei viaggiatori francesi in Italia, nel periodo tra la fine
del settecento e l'inizio dell'ottocento, di cui Stendhal è
prototipo di vaglia, Sciascia oppone una vocazione all'indagine
scavata e, spesso, impietosa, che non concede nulla a "pruderies"
da esploratori pronti alla meraviglia (ed anche al pettegolezzo,
sempre di buon livello, naturalmente). Non è un caso che
invano si cercherebbe in un libro di Sciascia la descrizione di un
paesaggio o di una natura, morta o viva che sia.
E "Candido" ci sembra in
questo senso il suo libro più illuminante.
Il candore del protagonista, che va al
cuore delle cose, riducendole alla loro originaria semplicità,
serve a Sciascia, non già per indagare sul personaggio, che è
solare e del tutto privo di contorcimenti psicologici, quanto per
fare esplodere le contraddizioni di una società in cui schemi
interpretativi, ideologie di riporto, metafisiche faticosamente
costruite da intellettuali organici non servono ad occultarne
l'estrema precarietà di fondo.
Differenze di clima e di tempi.
Del resto, Sciascia stesso, in una
breve nota che conclude il libro, avverte: "Dice Montesquieu che
"un'opera originale ne fa quasi sempre nascere cinque o seicento
altre, queste servendosi della prima all'incirca come i geometri si
servono delle loro formule". Non so se il "Candido"
sia servito da formula a cinque o seicento altri libri. Credo di no,
purtroppo: ché ci saremmo annoiati di meno, su tanta
letteratura. Comunque, che questo mio racconto sia il primo o il
seicentesimo, di quella formula ho tentato di servirmi. Ma mi pare di
non avercela fatta, e che questo libro somigli agli altri miei.
Quella velocità e leggerezza non è più possibile
ritrovarle: neppure da me, che credo di non avere mai annoiato il
lettore. Se non il risultato, valga dunque l'intenzione: ho cercato
di essere veloce, di essere leggero. Ma greve è il nostro
tempo, assai greve".
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