Rivista Anarchica Online
Una coscienza vigile
di Fausta Bizzozzero
Se a volte il cuore vi fa male perché
questo mondo non vi piace eppure vi sentite impotenti ad incidere in
qualche modo per modificarlo. Se in qualche momento della vostra vita
avete avuto delle certezze ed ora non le avete più perché
vi siete resi conto che i meccanismi sociali ed individuali sono ben
più complessi di quanto supponevate. Se di fronte a tanta
complessità vi sentite inadeguati e privi di strumenti ma
continuate a cercare dentro e fuori di voi. Se qualche volta avete
pensato di ritirarvi in campagna, in un'altra dimensione, per cercare
un senso della vita che restituisca un po' di fiducia a un sé
pesto e dolorante per i continui scontri con un potere ottuso e
soverchiante. Se insomma avete vissuto sulla vostra pelle lo smacco
dell'impegno "contro" ma non volete rinunciare a capire e a
lottare, ecco un libro per voi, per noi, un libro che può
aiutarci un poco in questa ricerca che non ha fine che è la
vita.
Non è un libro facile, questo
Recita estiva di Christa Wolf (Edizioni E/0, Roma 1989, pagg.
199, lire 22.000), né per il linguaggio, né per la
struttura in cui si intersecano piani narrativi e temporali diversi,
ma è un libro di una ricchezza tale - di spunti, di
riflessioni, di idee, di vissuto individuale che si fa storia e si
universalizza- da meritare ampiamente il piccolo o grande sforzo che
richiede. Di Christa Wolf, non a caso, abbiamo già parlato
sulle pagine di "A" in occasione dell'uscita di altri due
suoi libri : Cassandra (cfr. "A" 122), e Guasto (cfr.
"A" 147).
Non a caso, dicevo, perché il
suo sguardo sul mondo, sulla realtà, sugli esseri umani,
insomma la sua sensibilità, ce la fa sentire particolarmente
vicina, amica, sorella, compagna dolente di strada in un percorso
ideale simile se non comune, pur avendo punti di partenza così
diversi: noi anarchici in una società capitalistica, lei
"comunista" convinta ed impegnata in un paese come la
Germania Orientale.
Eppure Christa Wolf è la
dimostrazione che quando la coscienza resta vigile e non si abdica lo
strumento della critica non si può non arrivare a mettere in
discussione le certezze ideologiche, con tutto il dolore e il
travaglio che questo necessariamente comporta.
E infatti nel 1976, quando al
cantautore Wolf Biermann viene negato il rientro nella Rdt dopo una
tournée nella Germania Federale, Christa Wolf e il marito
Gerhard scrivono una lettera pubblica di protesta insieme ad altri
intellettuali chiedendo la revoca del provvedimento. Come conseguenza
logica il marito viene espulso dal Partito Socialista Unitario e
Christa Wolf viene radiata dall'Unione Scrittori. È
l'inizio di una crisi politico-esistenziale, di una frattura che si
approfondirà sempre di più e di cui i libri successivi
- Cassandra, Guasto e quest'ultimo Recita estiva -
segnano altrettante tappe di crescita e di approfondimento
nell'analisi del potere, del significato della cultura, del ruolo
degli intellettuali, della società tra passato presente e
futuro. E di questo percorso fa parte, recentissimamente, la sua
partecipazione in prima fila alla grande manifestazione
dell'opposizione che non poco deve aver contribuito al dissolvimento
del regime socialista della Germania Orientale. Ma torniamo al libro,
difficilmente inquadrabile nei soliti generi letterari: "Si
tratta di una narrazione che fa autobiografia cancellando il filtro
dell'io autobiografico" dove "l'autobiografia si fa
invenzione e l'invenzione si nutre di elementi autobiografici "
(dalla postfazione della bravissima traduttrice Anita Raja).
Ellen - scrittrice in crisi - e il
marito Jan si trasferiscono in campagna, nel Neclemburgo, e qui, nel
corso dell'estate raccontata, sono raggiunti da un gruppo di amici
che vanno ad abitare in case vicine. A poco a poco, a contatto con
una natura mai prima d'ora vissuta ma solo pensata (il gusto
ritrovato di usare le mani per piantare, strappare erbacce,
riparare), Ellen e gli altri riscoprono il piacere del vivere e dello
stare insieme.
Ma all'interno di ciascuno e tra di
loro la domanda sul senso di questa scelta serpeggia: Ritorno alla
natura - non era una parola d'ordine di prima della rivoluzione?
Quale significato aveva che coloro che un tempo si erano votati alla
trasformazione, ora se ne andavano semplicemente in campagna?
Capitolazione?" (...) Indubbiamente la si poteva vedere anche
così. L'incapacità di agire come colpa. Colpa di aver
ritirato, di aver accantonato uno dopo l'altro tutti i loro piani,
tutti i progetti, dato che glieli avevano mandati a monte con
maggiore o minore sforzo, più o meno rozzamente. (...) Tutto
questo, disse Jan, era un inutile piagnisteo. Ogni cosa aveva il suo
tempo: credere in qualcosa e impegnarsi in funzione di questo; poter
avvertire i limiti delle proprie illusioni; riflettere, tornare ad
orientarsi e cercare altro. Ma cosa?. Di notte, mentre attende l'arrivo del
sonno e fuori c'è un silenzio amico, Ellen ripensa con
struggente nostalgia al passato: Che cosa mi è accaduto.
Cos'è che mi fa davvero male. Che mi sono abituata, come
tutti, a non fare mai quello che voglio esattamente fare. A non dire
mai quello che voglio esattamente dire. Così forse, senza
accorgermene, non penso più nemmeno quello che voglio pensare.
Forse è questo ciò che chiamano capitolazione, o
comunque non è la cosa tanto tragica che mi ero immaginata in
passato. In passato, quando per me la capitolazione era fuori
questione. Quando eri un'altra persona (...) una che io stessa ho
quasi dimenticato. Una a cui la tromba si addiceva. Senza mediazioni
e assoluta. Sì. E ora, per favore, non cominciare ad
attribuire alle circostanze il tuo cambiamento. E a impegolarti in
scappatoie. Ci mancherebbe anche questo. Allora saresti spacciata. Ben presto al di là della
superficie idilliaca di un quadro agreste, ci si rende conto che non
di fuga si è trattato, bensì di un necessario
allontanamento dalla città vissuta come luogo di
"opacizzazione dell'utopia" e ci si rende conto anche che
il nuovo modo in cui vivono non è poi tanto meglio dell'altro.
Certo uno stile di vita più sano e naturale porta alla
scomparsa di molti malanni psicosomatici e alla scoperta di rapporti
più veri con le cose e la loro storia, i vecchi mobili, le
case, gli alberi, i fiori. Ma anche il mondo rurale è allo
sfacelo, diviso tra residui grotteschi di cultura prussiana e un
desiderio di modernizzazione che cancella la memoria del passato.
La città è lontana ma
non abbastanza. Il mutamento modernizzante investe tutto e tutti e
l'eco delle disperazioni urbane si congiunge a quello delle
disperazioni campagnole. La gente semplice del paese non è
più bella dentro di quella cittadina: reazionaria, gretta,
meschina, riesce a trovare un momento di cooperazione e di
solidarietà solo di fronte alla grave minaccia di un incendio.
Le donne accettano passivamente un destino di fatica e
subordinazione, gli uomini annegano nell'alcool il disagio per la
progressiva sparizione del vecchio mondo, e i giovani esprimono nella
violenza gratuita e nel disprezzo del passato la loro inconscia
non-identità.
Anche qui c'è una "mancanza
d'innocenza" non troppo lontana da quella da cui sono fuggiti.
Estranei nella realtà cittadina, lo sono altrettanto qui, fra
la gente del paese, perché troppo diversa è la loro
storia e troppo diversi i loro sogni. Sempre e comunque sono fuori
posto.
Ellen, guardando dall'esterno gli amici
riuniti in soggiorno, riflette: La storia era andata avanti. Essa
in questo paese bandisce la gente come noi su qualche isola. E
dobbiamo essere contenti se ci restano quelle. Solo che noi non siamo
isole.
Ma a poco a poco dalla disperazione
nasce una nuova consapevolezza, il primo passo verso un ulteriore
cambiamento: Ellen non si sentiva più come un paese
occupato da parole e idee false. La vergogna non parla. Altrimenti
dovrebbe dire: un paese occupato col proprio consenso, per propria
libera scelta. Il potere estraneo che era stato padrone di lei le si
era celato nel luogo più sicuro di tutti: negli occhi. In modo
che quel potere estraneo vedesse coi miei occhi, attraverso me
stessa. E nessuno potesse accorgersi dell'altro, nemmeno io di me
stessa. E dovetti pensare che separarmi da quel corpo estraneo mi
avrebbe lacerata. Lo desideravo quasi, di essere dilaniata.
La rete di rapporti tra i componenti
del gruppo è tessuta con grande maestria attraverso dialoghi
situati temporalmente in quell'estate, o successivi, come gli
splendidi colloqui di Ellen con l'amica Steffi ormai morta che
allora, già malata di cancro, si recò da loro in
visita. L'amore tra autonomia e possessività, l'amicizia, la
morte, la malattia, la difficile conciliazione dell'impegno e
dell'autorealizzazione con la maternità, la paura e
l'accettazione della vecchiaia, tutti i temi problemi umani si
intrecciano e si srotolano dall'uno all'altro personaggio in una
continuamente rielaborata alchimia dei sentimenti.
Tutti gli attori di questa recita, in
un modo o nell'altro, esprimono il disagio provocato dalla tensione
verso una pienezza esistenziale irrealizzabile all'interno delle
forme del vivere esistenti e questo malessere insidia anche il
piacere di stare insieme, gli amici, la coppia, la famiglia. Spettri,
dirà una di loro - la giovane
Irene - ricacciati in margine perché fatti di una
cultura, di parole, di desideri che la modernità, la "nuova
debolezza", i poteri giudicano sorpassati, inservibili.
E invece no. Simili spettri servono,
eccome. Serve chi difenda la bellezza e la poesia contro la
funzionalità ingegneresca, serve eccome che qualcuno, come
Ellen, sia intimamente convinta che la poesia deve testimoniare
contro l'esistente, deve inventare forme di vita diversa, deve
trasmetterne la necessità, deve rinnovare, prefigurando, le
ragioni dell'Utopia.
Serve, certo. Perché è
anche con libri come questo che Christa Wolf - e come lei altri
intellettuali della Germania orientale - hanno contribuito
all'abbattimento di un muro, di un regime, di un'epoca.
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