Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 19 nr. 169
dicembre 1989 - gennaio 1990


Rivista Anarchica Online

Una coscienza vigile
di Fausta Bizzozzero

Se a volte il cuore vi fa male perché questo mondo non vi piace eppure vi sentite impotenti ad incidere in qualche modo per modificarlo. Se in qualche momento della vostra vita avete avuto delle certezze ed ora non le avete più perché vi siete resi conto che i meccanismi sociali ed individuali sono ben più complessi di quanto supponevate. Se di fronte a tanta complessità vi sentite inadeguati e privi di strumenti ma continuate a cercare dentro e fuori di voi. Se qualche volta avete pensato di ritirarvi in campagna, in un'altra dimensione, per cercare un senso della vita che restituisca un po' di fiducia a un sé pesto e dolorante per i continui scontri con un potere ottuso e soverchiante. Se insomma avete vissuto sulla vostra pelle lo smacco dell'impegno "contro" ma non volete rinunciare a capire e a lottare, ecco un libro per voi, per noi, un libro che può aiutarci un poco in questa ricerca che non ha fine che è la vita.
Non è un libro facile, questo Recita estiva di Christa Wolf (Edizioni E/0, Roma 1989, pagg. 199, lire 22.000), né per il linguaggio, né per la struttura in cui si intersecano piani narrativi e temporali diversi, ma è un libro di una ricchezza tale - di spunti, di riflessioni, di idee, di vissuto individuale che si fa storia e si universalizza- da meritare ampiamente il piccolo o grande sforzo che richiede. Di Christa Wolf, non a caso, abbiamo già parlato sulle pagine di "A" in occasione dell'uscita di altri due suoi libri : Cassandra (cfr. "A" 122), e Guasto (cfr. "A" 147).
Non a caso, dicevo, perché il suo sguardo sul mondo, sulla realtà, sugli esseri umani, insomma la sua sensibilità, ce la fa sentire particolarmente vicina, amica, sorella, compagna dolente di strada in un percorso ideale simile se non comune, pur avendo punti di partenza così diversi: noi anarchici in una società capitalistica, lei "comunista" convinta ed impegnata in un paese come la Germania Orientale.
Eppure Christa Wolf è la dimostrazione che quando la coscienza resta vigile e non si abdica lo strumento della critica non si può non arrivare a mettere in discussione le certezze ideologiche, con tutto il dolore e il travaglio che questo necessariamente comporta.
E infatti nel 1976, quando al cantautore Wolf Biermann viene negato il rientro nella Rdt dopo una tournée nella Germania Federale, Christa Wolf e il marito Gerhard scrivono una lettera pubblica di protesta insieme ad altri intellettuali chiedendo la revoca del provvedimento. Come conseguenza logica il marito viene espulso dal Partito Socialista Unitario e Christa Wolf viene radiata dall'Unione Scrittori. È l'inizio di una crisi politico-esistenziale, di una frattura che si approfondirà sempre di più e di cui i libri successivi - Cassandra, Guasto e quest'ultimo Recita estiva - segnano altrettante tappe di crescita e di approfondimento nell'analisi del potere, del significato della cultura, del ruolo degli intellettuali, della società tra passato presente e futuro. E di questo percorso fa parte, recentissimamente, la sua partecipazione in prima fila alla grande manifestazione dell'opposizione che non poco deve aver contribuito al dissolvimento del regime socialista della Germania Orientale. Ma torniamo al libro, difficilmente inquadrabile nei soliti generi letterari: "Si tratta di una narrazione che fa autobiografia cancellando il filtro dell'io autobiografico" dove "l'autobiografia si fa invenzione e l'invenzione si nutre di elementi autobiografici " (dalla postfazione della bravissima traduttrice Anita Raja).
Ellen - scrittrice in crisi - e il marito Jan si trasferiscono in campagna, nel Neclemburgo, e qui, nel corso dell'estate raccontata, sono raggiunti da un gruppo di amici che vanno ad abitare in case vicine. A poco a poco, a contatto con una natura mai prima d'ora vissuta ma solo pensata (il gusto ritrovato di usare le mani per piantare, strappare erbacce, riparare), Ellen e gli altri riscoprono il piacere del vivere e dello stare insieme.
Ma all'interno di ciascuno e tra di loro la domanda sul senso di questa scelta serpeggia: Ritorno alla natura - non era una parola d'ordine di prima della rivoluzione? Quale significato aveva che coloro che un tempo si erano votati alla trasformazione, ora se ne andavano semplicemente in campagna? Capitolazione?" (...) Indubbiamente la si poteva vedere anche così. L'incapacità di agire come colpa. Colpa di aver ritirato, di aver accantonato uno dopo l'altro tutti i loro piani, tutti i progetti, dato che glieli avevano mandati a monte con maggiore o minore sforzo, più o meno rozzamente. (...) Tutto questo, disse Jan, era un inutile piagnisteo. Ogni cosa aveva il suo tempo: credere in qualcosa e impegnarsi in funzione di questo; poter avvertire i limiti delle proprie illusioni; riflettere, tornare ad orientarsi e cercare altro. Ma cosa?.
Di notte, mentre attende l'arrivo del sonno e fuori c'è un silenzio amico, Ellen ripensa con struggente nostalgia al passato: Che cosa mi è accaduto. Cos'è che mi fa davvero male. Che mi sono abituata, come tutti, a non fare mai quello che voglio esattamente fare. A non dire mai quello che voglio esattamente dire. Così forse, senza accorgermene, non penso più nemmeno quello che voglio pensare. Forse è questo ciò che chiamano capitolazione, o comunque non è la cosa tanto tragica che mi ero immaginata in passato. In passato, quando per me la capitolazione era fuori questione. Quando eri un'altra persona (...) una che io stessa ho quasi dimenticato. Una a cui la tromba si addiceva. Senza mediazioni e assoluta. Sì. E ora, per favore, non cominciare ad attribuire alle circostanze il tuo cambiamento. E a impegolarti in scappatoie. Ci mancherebbe anche questo. Allora saresti spacciata.
Ben presto al di là della superficie idilliaca di un quadro agreste, ci si rende conto che non di fuga si è trattato, bensì di un necessario allontanamento dalla città vissuta come luogo di "opacizzazione dell'utopia" e ci si rende conto anche che il nuovo modo in cui vivono non è poi tanto meglio dell'altro. Certo uno stile di vita più sano e naturale porta alla scomparsa di molti malanni psicosomatici e alla scoperta di rapporti più veri con le cose e la loro storia, i vecchi mobili, le case, gli alberi, i fiori. Ma anche il mondo rurale è allo sfacelo, diviso tra residui grotteschi di cultura prussiana e un desiderio di modernizzazione che cancella la memoria del passato.
La città è lontana ma non abbastanza. Il mutamento modernizzante investe tutto e tutti e l'eco delle disperazioni urbane si congiunge a quello delle disperazioni campagnole. La gente semplice del paese non è più bella dentro di quella cittadina: reazionaria, gretta, meschina, riesce a trovare un momento di cooperazione e di solidarietà solo di fronte alla grave minaccia di un incendio. Le donne accettano passivamente un destino di fatica e subordinazione, gli uomini annegano nell'alcool il disagio per la progressiva sparizione del vecchio mondo, e i giovani esprimono nella violenza gratuita e nel disprezzo del passato la loro inconscia non-identità.
Anche qui c'è una "mancanza d'innocenza" non troppo lontana da quella da cui sono fuggiti. Estranei nella realtà cittadina, lo sono altrettanto qui, fra la gente del paese, perché troppo diversa è la loro storia e troppo diversi i loro sogni. Sempre e comunque sono fuori posto.
Ellen, guardando dall'esterno gli amici riuniti in soggiorno, riflette: La storia era andata avanti. Essa in questo paese bandisce la gente come noi su qualche isola. E dobbiamo essere contenti se ci restano quelle. Solo che noi non siamo isole.
Ma a poco a poco dalla disperazione nasce una nuova consapevolezza, il primo passo verso un ulteriore cambiamento: Ellen non si sentiva più come un paese occupato da parole e idee false. La vergogna non parla. Altrimenti dovrebbe dire: un paese occupato col proprio consenso, per propria libera scelta. Il potere estraneo che era stato padrone di lei le si era celato nel luogo più sicuro di tutti: negli occhi. In modo che quel potere estraneo vedesse coi miei occhi, attraverso me stessa. E nessuno potesse accorgersi dell'altro, nemmeno io di me stessa. E dovetti pensare che separarmi da quel corpo estraneo mi avrebbe lacerata. Lo desideravo quasi, di essere dilaniata.
La rete di rapporti tra i componenti del gruppo è tessuta con grande maestria attraverso dialoghi situati temporalmente in quell'estate, o successivi, come gli splendidi colloqui di Ellen con l'amica Steffi ormai morta che allora, già malata di cancro, si recò da loro in visita. L'amore tra autonomia e possessività, l'amicizia, la morte, la malattia, la difficile conciliazione dell'impegno e dell'autorealizzazione con la maternità, la paura e l'accettazione della vecchiaia, tutti i temi problemi umani si intrecciano e si srotolano dall'uno all'altro personaggio in una continuamente rielaborata alchimia dei sentimenti.
Tutti gli attori di questa recita, in un modo o nell'altro, esprimono il disagio provocato dalla tensione verso una pienezza esistenziale irrealizzabile all'interno delle forme del vivere esistenti e questo malessere insidia anche il piacere di stare insieme, gli amici, la coppia, la famiglia. Spettri, dirà una di loro - la giovane Irene - ricacciati in margine perché fatti di una cultura, di parole, di desideri che la modernità, la "nuova debolezza", i poteri giudicano sorpassati, inservibili.
E invece no. Simili spettri servono, eccome. Serve chi difenda la bellezza e la poesia contro la funzionalità ingegneresca, serve eccome che qualcuno, come Ellen, sia intimamente convinta che la poesia deve testimoniare contro l'esistente, deve inventare forme di vita diversa, deve trasmetterne la necessità, deve rinnovare, prefigurando, le ragioni dell'Utopia.
Serve, certo. Perché è anche con libri come questo che Christa Wolf - e come lei altri intellettuali della Germania orientale - hanno contribuito all'abbattimento di un muro, di un regime, di un'epoca.