Rivista Anarchica Online
Quale economia, quale società
di Andrea Papi / Alberto Cacopardo
Al convegno "Mercante in fiera"
(Milano, marzo 1989), promosso da AAM-Terra Nuova, intervenne tra gli
altri, nella sessione sull'economia, Alberto Cacopardo, insegnante di
economia ed esperto in antropologia culturale e pensiero orientale.
Con alcune sue affermazioni polemizza qui con il nostro collaboratore
Andrea Papi. Segue la replica di Cacopardo.
Mi sembra utile sottoporre a critica
un'affermazione che Alberto Cacopardo ha proposto nell'ambito della
sua relazione, svolta a Milano durante il convegno "Il Mercante
in Fiera" lo scorso marzo. Un'affermazione volutamente
provocatoria e a suo modo spregiudicata, che consapevolmente
stravolge i termini tradizionali di tutto il dibattito sviluppatosi
in questi due ultimi secoli attorno alle tematiche socialiste.
Citando a memoria, ciò che ha detto suona più o meno
così: "Lo stato attuale, ben diverso da quello puramente
oppressivo del secolo scorso, ha assunto il bisogno e la domanda di
giustizia. Tende a realizzare il principio fondamentale del
comunismo, secondo cui la collettività riceve da ciascuno
secondo le sue possibilità e rende a ciascuno secondo i suoi
bisogni". La dimostrazione di questo assunto starebbe nel fatto
che lo stato contemporaneo eroga servizi alla società, quindi
tende a dare ad ognuno secondo i suoi bisogni, mentre attraverso la
ricezione delle tasse, diversificate a seconda dei redditi e degli
introiti, tende a ricevere da ognuno secondo le sue possibilità.
Intendiamoci bene! Quest'affermazione
ha un senso riconoscibile e un corrispettivo reale, anche perché
è stata ridimensionata dallo stesso Cacopardo quando ha
chiarito che non intende affermare in alcun modo che lo stato attuale
stia realizzando il comunismo. Anzi! Ha tenuto a sottolineare che lo
stato che abbiamo davanti è assimilabile alla mafia più
che a qualsiasi altra cosa.
Ma questa constatazione, pur in tutta
la sua evidenza, lo porta ugualmente ad identificare degli elementi
sostanziali per cui, in linea di principio, l'attuale struttura
statuale sia stata capace di assumere appunto il principio della
formula comunista, fino a farne un elemento fondante. Il che fa
presumere che, spurgato da tutte le zavorre che lo rendono
assimilabile ad una organizzazione mafiosa, lo stato attuale possa
essere tranquillamente assunto come riferimento per una regolazione
economica e politica della società , finalizzata a rendere
operanti i presupposti di giustizia, equità ed eguaglianza,
cercati finora invano dagli esseri umani, in particolare da quando
hanno posto in atto la secolarizzazione dalla sacralità delle
caste sacerdotali e aristocratiche.
Non più stato di transizione
dunque, momento necessario verso il comunismo di antica memoria
marxiana ormai obsoleta, ma nuovo stato etico capace di realizzare in
futuro, per gli stessi presupposti etici su cui è fondato, il
senso escatologico del sospirato comunismo, di cui l'umanità
ha un inderogabile bisogno. L'autorità centralizzatrice
costituita trova così una nuova legittimazione
social-filosofica.
Credo che una simile affermazione,
proprio perché si riconduce ai principi fondanti,
debba essere sottoposta al vaglio della critica prima di essere
rifiutata o accettata. Senza partire dalle prime comunità
cristiane a base comunistica, o dall'egualitarismo millenarista di
Thomas Muntzer, o ancora da Moro o Campanella, che in un certo senso
furono gli antesignani, la concezione moderna di riferimento nasce
sostanzialmente all'interno della rivoluzione francese col babeuvismo
che, ispirato dal "Codice della Natura" di Morelly, partì
dal rifiuto globale della proprietà privata e ipotizzò
una società di uguali, all'inizio diretta da un governo ferreo
di transizione per un periodo imprecisato di tempo.
Questa concezione all'inizio
dell'ottocento fu poi ripresa in toto da Blanqui che, assieme al
babeuvista Filippo Buonarro scampato al massacro dei suoi
compagni, fondò una vera e propria tradizione rivoluzionaria
con tanto di società segreta in seno all'Europa in fermento,
alle soglie del periodo risorgimentale.
Ma la definizione cui ancor oggi ci
rifacciamo, sintetizzata nell'arcinota formula "da ognuno
secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni",
fu formulata a metà del secolo scorso da Marx ed Engels, i
quali ripresero l'impostazione di fondo del blanquismo, che vedeva la
necessità della rivoluzione violenta e di una dittatura ferrea
di transizione prima di pervenire ad una situazione sociale
riconoscibile nel comunismo. Anche il movimento anarchico europeo nel
suo complesso, con Covelli, Cafiero, Malatesta e, soprattutto,
Kropotkin, dopo un inizio bakuniniano sostanzialmente collettivista,
riconobbe nel comunismo la formula economica più appropriata a
realizzare l'utopia anarchica. Ma l'anarchismo ne ridefinì il
senso perché, partendo da presupposti antiautoritari,
rifiutava senza mezzi termini ogni possibile "comunismo da
caserma", in cui l'eguaglianza economica sarebbe stata gestita
da una dittatura dall'alto. Così disse che ognuno dava ciò
che voleva e poteva, senza imposizione di sorta, ricevendo in cambio
ciò di cui aveva bisogno.
Non più per profitto
Al di là delle diversificazioni
anche notevoli, che differenziano i motivi teorici di adesione
all'utopia comunista, è ugualmente possibile identificare
alcuni punti comuni che ne fanno il sostrato e ne danno il senso. Uso
appositamente la parola utopia, perché di fatto il comunismo è
sempre stato concepito quasi come il punto culminante di un processo
di trasformazione della società, un qualcosa da realizzarsi
nel futuro, quando tutte le condizioni si saranno attuate; un
qualcosa quindi di soltanto pensato, anche se ritenuto possibile.
Questi punti sono essenzialmente due. 1) l'assenza di ogni forma di
proprietà privata; 2) l'assenza di ogni divisione di classe
dello stato, inteso come centro burocratico di potere che domina
tutto il corpo sociale. La formulazione dei principi comunisti è
direttamente e strettamente legata a queste condizioni.
C'è un motivo di fondo che lega
indissolubilmente il comunismo, ipotesi di relazioni economiche,
all'assenza dello stato, delle classi e della proprietà
privata, condizione politica utopica. Esso è infatti concepito
come momento completamente nuovo, indispensabile a rendere operante
la produzione e la distribuzione dei beni di consumo per la società,
sostitutivo del modello di produzione, distribuzione e consumo di
merci, in atto nel regime capitalista accompagnato dalla gestione
burocratica centralizzata statuale. Nel capitalismo la mercificazione
è essenziale per procurare l'utile economico alla gestione
proprietaria attraverso il mercato. Nel comunismo la merce scompare,
perché la produzione non è più legata al bisogno
di ricavare utile né al capitalista né all'impresa,
mentre i beni di consumo non sono più a disposizione perché
devono essere comprati, bensì perché se ne ha bisogno o
li si desidera.
In linea teorica se ne deduce che non
si produce più per il profitto, stimolo di fondo delle
economie capitaliste, ma per soddisfare esclusivamente i bisogni
espressi dalla società. La produzione non è più
legata all'esclusivo vantaggio di una minoranza di sfruttatori, unici
a ricavarne vantaggio e profitto, ma è espressione dei bisogni
voluti dagli esseri umani nel loro complesso. Le ragioni di base
vengono totalmente invertite. Non faccio più delle cose perché
ci debbo guadagnare sopra, ma perché mi va di farle e perché
ne sento il bisogno. Utopicamente è un'economia al servizio
della società, invece di una società in funzione
dell'economia com'è ora e com'era, seppur con caratteristiche
diverse, quando il comunismo fu pensato.
Marx ed Engels, nel "Manifesto del
Partito Comunista" redatto nel 1848, fra l'altro scrissero: "Il
libero sviluppo di ciascuno sarebbe stato la condizione per il libero
sviluppo di tutti". Una frase esemplare, che ben mette a nudo il
sostrato fondante su cui avrebbe potuto reggersi una società a
base comunistica. Una base che si regge sulla solidarietà, sul
reciproco rispetto, su un'uguaglianza di partenza fattiva, in cui le
differenze individuali, lontane dall'essere appianate
burocraticamente da un elefantiaco organismo centralizzatore
bisognoso di controllare ogni cosa qual è lo stato,
rappresenterebbero ricchezza, non povertà basata sulla
discriminazione. Un'enorme potenzialità sociale e
socializzante che, per potersi esplicare, non può prescindere
dalle condizioni fondanti cui è indissolubilmente legata, cioè
l'assenza più completa di stato, classi e proprietà
privata.
Fu proprio per la comprensione di
questa enorme potenzialità che gli anarchici, aderendo al
comunismo, sentirono il bisogno teorico di sganciarlo completamente
dal contesto autoritario in cui ingenuamente lo aveva inserito Marx.
Un'economia della società che si doveva reggere sulla
solidarietà, per potersi realizzare aveva necessariamente
bisogno di essere emancipata oltre che dallo sfruttamento anche da
ogni forma di dominio. Proponevano perciò un binomio quasi
necessario: anarchia e comunismo.
Non è questo il luogo di
sottoporre a critica questa esposizione teorica che, così come
è stata formulata da chi la pensò, al vaglio dei tempi
ha cominciato a mostrare qualche lacuna che andrebbe chiarita. Qui il
punto è un altro. Si tratta di analizzare criticamente
l'affermazione di Cacopardo, secondo cui lo stato attuale avrebbe
assunto in tendenza il principio comunistico, quindi, sempre in
tendenza, potrebbe essere assunto come regolatore di una situazione
sociale alternativa a quella vigente, perché potenzialmente
realizzerebbe la giustizia.
L'emergenza ecologica
Se è vero che lo stato attuale
non è più, come egli afferma, il monolite nazionalista
dell'ottocento affiancato al capitalismo, esercitante un dominio
esclusivamente oppressivo e repressivo, è però vero che
la sua mutazione non è stata radicale, ma di superficie. Nella
sostanza è ancora il mezzo di accentramento del potere
dominante cui si deve obbedienza e sottomissione. La sua mutazione
non è una metamorfosi, bensì una dilatazione. Come
tutte le manifestazioni dell'uomo è diventato più
complesso. Uscendo dai confini nazionali, è diventato
imprenditore, gestore e controllore di una serie di attività e
competenze che una volta non gli appartenevano. È
ormai l'unico controllore giuridico, etico e amministrativo
dell'economia e della società. La sua funzione politica ed
economica è parallela e in simbiosi con tutte le altre
strutture di dominio, come le multinazionali o la criminalità
organizzata. La sua presunta assunzione del principio comunistico va
perciò inserita in questo contesto, che è di
centralizzazione del dominio. Ma abbiamo visto che il comunismo, al
contrario, sussiste solo se viene meno la proprietà, sia essa
privata o tecnocratica, e la centralizzazione dei poteri, proprio
perché si basa sulla solidarietà. Cioè è
la esplicazione di un presupposto di uguaglianza sociale di base, che
non può sussistere né con lo stato né con la
tecnocrazia economica legata indissolubilmente ad esso. Personalmente ne sono convinto.
Soprattutto in seguito all'assunzione della consapevolezza ecologica.
Con la rivoluzione francese del 1789 fu abbattuto il dominio
dell'aristocrazia, fondato sul principio che il potere, dato da dio,
veniva ereditato per diritto di nascita. Nell'ottocento fu
identificato il problema dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo e
furono proposte alternative socialistiche che, malgrado il pensiero
dei primi socialisti libertari, hanno portato a presunte soluzioni
estremamente autoritarie, se non addirittura assolutistiche. Oggi
l'emergenza ecologica ci vomita addosso il problema dell'ambiente e
l'uomo è costretto ad accorgersi che è parte integrante
di un tutto che non può alterare, pena l'autodistruzione. Ci
siamo accorti cioè che la soluzione non è
rintracciabile esclusivamente all'interno della socialità
umana, ma che questa a sua volta è all'interno di una
socialità terrestre molto più ampia, comprendente cose,
piante e animali; è cioè un bene che non può più
essere concepito come mera proprietà dell'uomo.
Ne consegue che, se fino ad oggi era
concepibile il controllo centralizzato come strumento principe della
regolazione economica e politica, perché la cultura era
fondata su presupposti antropocentrici di dominio sui molti da parte
di pochi, dell'uomo su tutto ciò che non è umano,
proprio la consapevolezza ecologica ci dà lo spunto per
invertire questa logica e questa tendenza. Gli ecosistemi infatti si
autoregolano attraverso principi che sono all'opposto del dominio
centralizzato, perché vi regna il principio della sinergia di
tutte le componenti. Ogni parte di un ecosistema ha una sua funzione
insopprimibile e necessaria, legata in un equilibrio complesso a
tutte le altre parti, indipendentemente dalla loro grandezza. Non vi
è gerarchia, proprio perché il principio gerarchico è
l'imposizione di valori diversificati per gradi d'importanza, secondo
cui in cima ci stanno i più importanti e in basso i meno, dove
i più importanti dominano sui meno. Da un punto di vista di un
ecosistema ciò è semplicemente irreale e assurdo,
perché non esiste diversificazione d'importanza, bensì
individui che sono parti di una complessità che li riguarda
tutti allo stesso livello d'importanza.
Dopo l'assunzione della consapevolezza
ecologica, il problema della società degli uomini va posto in
modo ecosistemico, in quanto parte di un tutto che appartiene a tutte
le parti, anche se a nessuna in particolare. Non ha più senso
erigersi a dominatori, supercontrollori e supervisori,
funzionalizzando tutto a bisogni che sono solo dell'uomo. Lo stato,
espressione più compiuta della centralizzazione e della
gerarchia, non può far più parte di questo universo
estremamente complesso. La centralizzazione, fra l'altro, per
sopravvivere ha bisogno di controllare e il controllo si esercita
semplificando la complessità. Lo dimostra l'uso che viene
fatto della tecnologia informatica e computerizzata, in cui le
informazioni vengono classificate per classi arbitrarie d'importanza,
cioè gerarchizzate.
All'opposto l'ecosistema ci mostra le
particelle in collaborazione sinergica con tutte le altre. Seguendo
proprio questo modello, le società umane debbono partire, anzi
ripartire, a valorizzare la piccola unità, cominciando a
considerare gli insediamenti umani per collettività, agricole
o urbane, autodirette, in collegamento con tutte le altre
collettività, pur'esse autodirette, le quali tutte vivono in
equilibrio all'interno dell'ambiente di cui sono parte non
predominante.
Il piccolo è bello perché
è parte insopprimibile di un tutto composto di tantissime
parti, che vivono solidali l'un l'altra. Il che è esattamente
il contrario dello stato, in cui tutte le parti, con la forza, sono
funzionalizzate al centro che, considerandosi gerarchicamente il più
importante, vuol dominare su tutto e su tutti.
Andrea Papi
Aprire un nuovo ciclo
Mi trovo a rispondere ad Andrea Papi
mentre è in corso una rivoluzione: quella della Germania
Orientale, episodio critico della più vasta trasformazione in
corso nei paesi socialisti.
Molti tendono ad interpretare questi
avvenimenti come "il crollo dell'utopia" e il trionfo del
capitalismo, la dimostrazione dell'impossibilità di
un'alternativa al sistema che abbiamo. Non sono fra questi.
Penso che ci siano le potenzialità
perché il processo in atto nell'Est europeo si trasformi in un
formidabile contributo all'elaborazione di una nuova visione della
società e della storia che sia capace di guidare nel futuro un
mutamento che ci auguriamo possa muovere in una direzione di
nonviolenza, di libertà, di equilibrio e sanità sociale
e mentale, di stabilità saldamente fondata sull'equità,
la concordia, l'armonia con la natura: un'epoca di sapienza e di
pace.
Questo sogno è lo stesso che
l'umanità si porta dentro da qualche millennio, con varie e
diverse manifestazioni in diversi luoghi della storia e del mondo. Il
termine e il concetto di comunismo sono legati ad una particolare
incarnazione di questo sogno, la teoria marxista, manifestatasi in
seno alla cultura d'occidente nel periodo dello Hochkapitalismus: una
incarnazione che chiude oggi il suo ciclo. E lo chiude, a mio parere,
non con una sconfitta, ma forse addirittura con una vittoria: essere
riuscita, contro i suoi propositi, a trasformare il sistema
capitalistico non distruggendolo, ma inoculandovi elementi del suo
sogno fino a farlo diventare, dopo l'applicazione di Keynes
nell'ultimo dopoguerra, qualcosa di profondamente diverso da ciò
che era al tempo di Marx, qualcosa che è evidentemente il
prodotto di una inaspettata forma di sintesi fra due propositi che si
credevano contrapposti. Questo sono le socialdemocrazie occidentali.
Non le considero un punto di arrivo.
Quel sogno è ancora tutto da realizzare. Ma abbiamo,
riconosciamolo, un discreto punto di partenza, migliore di tante
altre forme che sarebbero state possibili, per esempio se Hitler
avesse vinto la guerra mondiale.
Adesso si tratta di aprire un nuovo
ciclo, che ha bisogno di articolare una nuova visione, a cui si può
sperare che i paesi socialisti liberati diano un loro potente
contributo. Sottolineo la parola, "visione", perché
mi pare che abbiamo bisogno di qualcosa di diverso da un'ideologia.
Un'ideologia si pone sul piano della
critica ad un dato sistema economico, ad un dato sistema politico, se
si vuole ad un sistema di rapporti di produzione. Così facendo
si colloca nella sfera delle regole formali che organizzano la
convivenza sociale: la proprietà privata, la struttura del
potere, i meccanismi di distribuzione del reddito. Una visione, invece, deve cogliere
innanzitutto la distinzione fra i diversi piani su cui si colloca
tutto ciò che riguarda l'esistenza collettiva dell'uomo, il
suo "essere sociale", che non è, come si era
pensato, meramente il prodotto delle condizioni materiali della sua
esistenza.
Una nuova visione
Ci sono tre piani da tenere distinti.
C'è innanzitutto il piano dei modelli culturali. Sono quelli
che ci fanno ritenere sconveniente andare in giro nudi e conveniente
portare la cravatta o una cresta dipinta d'arancione, ma anche quelli
che ci fanno aborrire l'omicidio o apprezzare il disinteresse e la
generosità, oppure ammirare chi conquista il potere o la
ricchezza ed essere servili verso qualsiasi autorità. La
grande lezione dell'antropologia culturale sta nell'aver svelato la
forza di questi modelli, che si muovono a un livello più
profondo e sostanziale di qualsiasi istituzione formale: modelli di
comportamento e modelli di valutazione, che si formano e si
trasformano per vie che rimangono ancora piuttosto misteriose e non
dipendono meccanicamente da nessun fattore specifico.
C'è poi, naturalmente, il piano
della regola formale, le norme della costituzione e delle leggi che
definiscono il quadro entro cui si muovono i rapporti economici e
sociali, quelle, per esempio, che impongono una determinante
contribuzione fiscale alla spesa pubblica, oppure riconoscono il
diritto a percepire una rendita da un capitale finanziario, o il
titolo ad ereditare un patrimonio, o l'eleggibilità ad una
carica parlamentare.
C'è, infine, il piano della
pratica, dei fatti così come avvengono, in barba ad
ogni regola formale, o assecondati da norme ingiuste, o aprendosi la
strada nelle crepe dell'edificio di regole: i fatti e i misfatti del
potere e della gente, spesso sordidi, talvolta consolanti, molte
volte semplicemente tristi. È
il piano su cui si muovono la mafia e le P2, le logge e le lobby, le
cricche di avvocati e le bande di ladruncoli e ladroni. Ma si muovono
anche i movimenti più puliti e benintenzionati, i nuovi stili
di vita, i gruppi e gli individui che cercano di dare nuove forme
all'esistente in tutti i campi, dall'arte, all'economia,
all'amministrazione, alla vita quotidiana.
La pratica, la regola, i modelli
culturali. Tre piani che si intrecciano e si ripercuotono l'uno
sull'altro. Così, per esempio, lo stato che abbiamo oggi in
Italia è peggiore nella pratica che sul piano delle regole
formali, che pure non sono certo l'ideale: ma l'esistenza di certe
regole riesce talvolta a ostacolare certe pratiche ancora peggiori.
Per fare un altro esempio, dagli anni sessanta in poi c'è
stata, nella sfera dei rapporti familiari e sessuali, una
trasformazione della pratica, che ha inciso profondamente sul vecchio
sistema di valori, modificandolo fino a farlo ripercuotere sul piano
della regola col nuovo diritto di famiglia.
La nuova visione che dovrà
guidare il mutamento nel futuro non si è ancora formata. Mi
sembra che sia in gestazione, che se ne comincino a intravedere
elementi, barlumi, indizi, segni premonitori. E questi indizi dicono
che si tratterà di investire il sistema dei valori e dei
modelli che guidano il comportamento, non meno che il sistema delle
regole, per incidere sulla sfera della pratica.
Il compito di formulare questa nuova
visione è difficile per due ragioni: perché è
qualcosa di radicalmente nuovo, di molto più nuovo del
marxismo, perché mette in discussione non solo il capitalismo,
non solo il sistema industriale, non solo neanche la stessa civiltà
occidentale, ma l'intero sistema di valori, di regole, di
comportamenti che si è andato formando ed evolvendo da quando
esistono le civiltà urbane, che in tutto il mondo sono state
fondate su rapporti di dominio sugli uomini, sulle donne, sulla
natura. Abbiamo a che fare, lo dicono in tanti, con una
trasformazione epocale, che è resa tanto più difficile,
al di là della radicale novità del compito, dalla
formidabile complessità del mondo in cui viviamo, che non
ammette certo di essere ridotta a nessuna categoria ereditata sia
pure dal migliore dei passati.
Dobbiamo guardare il mondo con occhi
nuovi, se vogliamo favorire il mondo nuovo, senza lasciarci
ingabbiare da vecchie categorie. Lo stato ha preso nella storia molte
forme, alcune peggiori, altre migliori. Quello che hanno in comune è
ciò che i politologi chiamano il monopolio istituzionale della
violenza, qualcosa che può essere asservito ai fini più
infami, come ai più nobili. Lo stato che abbiamo oggi in
Italia riesce ad essere allo stesso tempo relativamente nobile e
indescrivibilmente infame. Ma sbagliamo gravemente se attribuiamo
allo stato la responsabilità di essere "l'unico
controllore giuridico, etico e amministrativo dell'economia e della
società". Non è vero: c'è la chiesa, c'è
la stampa, ci sono movimenti e associazioni, ci sono, soprattutto, i
partiti politici (che non sono istituzioni dello stato) che divorano
tutto quello che possono.
Ma, al di là del giudizio sullo
stato italiano contemporaneo, il problema che si pone è se
possiamo immaginare un futuro che non abbia bisogno dello stato in una
società di liberi ed eguali, capaci di vivere in armonia con
la natura e il mondo umano. Non è un sogno nuovo, ma credo che
faccia parte di ciò che confluisce nella nuova visione che si
sta formando.
Il luogo dell'armonia
Riusciremo a realizzarlo? Staremo a
vedere. Non sono tanto certo, per esempio, che per realizzarlo sia
necessaria "l'assenza di ogni forma di proprietà
privata". Sospetto che un simile concetto faccia parte di alcune
eredità del passato di cui possiamo tranquillamente disfarci.
Mi sembra più probabile, per tante ragioni, che vadano ad
estinguersi le distinzioni di classe. Quanto allo stato, è
certo che, nella condizione attuale delle cose, non siamo in grado di
fare a meno di un apparato formalizzato che detenga il monopolio
istituzionale della violenza. E questo perché non ne esistono
le condizioni sul piano dei valori e dei modelli che ispirano la
pratica al di là delle leggi formali.
Ma attenzione: questo non vuole dire
che queste condizioni non esisteranno in futuro né che questo
apparato sia il migliore possibile. Quando ho parlato della
manifestazione del principio marxiano nello stato attuale, intendevo
solo contrapporlo al mercato, che non si ispira certo a quel
principio: ma è evidente che la sua applicazione è
ancora comunque limitata, parziale, imperfetta.
Né perfetta potrebbe essere:
perché un simile principio non può essere realizzato
muovendosi solo sul piano della regola formale. Se si tenta di
costringere con un sistema di norme ciascuno a dare secondo le
sue possibilità per ricevere secondo il suo bisogno, contro la
volontà di un popolo che rimane così suddito, si
fa la fine del comunismo reale. Su questo concordo con Andrea. Il
problema, è evidente, è come far sì che se
ognuno fa quello che gli va di fare perché ne sente il
bisogno, questo serva poi a soddisfare i "bisogni voluti dagli
esseri umani nel loro complesso". Io non credo che questo sia
impossibile, ma è certamente un compito difficile.
Quello di cui sono certo è che
la chiave per muovere in questa direzione non sta nell'escogitare un
nuovo sistema di regole formali: solo attraverso una modificazione
del sistema di valori che guidano la pratica, potremo sperare di fare
passi avanti verso questa meta. L'incesto è proibito dalla
legge, ma non è per timore del carcere che ce ne asteniamo.
L'incesto è un tabù, prima che un reato. Possiamo
sperare che diventino un tabù anche l'avidità, la sete
di dominio, la guerra. Questo non significa che dobbiamo
disinteressarci del sistema delle regole: significa che ci vuole una
nuova concezione della politica, che sia capace di muoversi
contemporaneamente su tutti i livelli, dai più profondi ai più
superficiali, tenendo conto di tutti gli elementi che possono
concorrere alla trasformazione.
Diceva il Tao Te Ching: "Quando
c'è la giustizia, non c'è la legge. Quando non c'è
la legge, non c'è la giustizia". Il nostro compito è
muoverci su tutti i piani possibili per trovare i percorsi che
conducono a quel luogo in cui la giustizia è talmente forte da
potersi dispensare dalla legge: il luogo dell'armonia fra gli uomini
e il mondo che si incarna nella più piena libertà.
Alberto Cacopardo
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