Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 19 nr. 169
dicembre 1989 - gennaio 1990


Rivista Anarchica Online

Quale economia, quale società
di Andrea Papi / Alberto Cacopardo

Al convegno "Mercante in fiera" (Milano, marzo 1989), promosso da AAM-Terra Nuova, intervenne tra gli altri, nella sessione sull'economia, Alberto Cacopardo, insegnante di economia ed esperto in antropologia culturale e pensiero orientale. Con alcune sue affermazioni polemizza qui con il nostro collaboratore Andrea Papi. Segue la replica di Cacopardo.

Mi sembra utile sottoporre a critica un'affermazione che Alberto Cacopardo ha proposto nell'ambito della sua relazione, svolta a Milano durante il convegno "Il Mercante in Fiera" lo scorso marzo. Un'affermazione volutamente provocatoria e a suo modo spregiudicata, che consapevolmente stravolge i termini tradizionali di tutto il dibattito sviluppatosi in questi due ultimi secoli attorno alle tematiche socialiste. Citando a memoria, ciò che ha detto suona più o meno così: "Lo stato attuale, ben diverso da quello puramente oppressivo del secolo scorso, ha assunto il bisogno e la domanda di giustizia. Tende a realizzare il principio fondamentale del comunismo, secondo cui la collettività riceve da ciascuno secondo le sue possibilità e rende a ciascuno secondo i suoi bisogni". La dimostrazione di questo assunto starebbe nel fatto che lo stato contemporaneo eroga servizi alla società, quindi tende a dare ad ognuno secondo i suoi bisogni, mentre attraverso la ricezione delle tasse, diversificate a seconda dei redditi e degli introiti, tende a ricevere da ognuno secondo le sue possibilità.
Intendiamoci bene! Quest'affermazione ha un senso riconoscibile e un corrispettivo reale, anche perché è stata ridimensionata dallo stesso Cacopardo quando ha chiarito che non intende affermare in alcun modo che lo stato attuale stia realizzando il comunismo. Anzi! Ha tenuto a sottolineare che lo stato che abbiamo davanti è assimilabile alla mafia più che a qualsiasi altra cosa.
Ma questa constatazione, pur in tutta la sua evidenza, lo porta ugualmente ad identificare degli elementi sostanziali per cui, in linea di principio, l'attuale struttura statuale sia stata capace di assumere appunto il principio della formula comunista, fino a farne un elemento fondante. Il che fa presumere che, spurgato da tutte le zavorre che lo rendono assimilabile ad una organizzazione mafiosa, lo stato attuale possa essere tranquillamente assunto come riferimento per una regolazione economica e politica della società , finalizzata a rendere operanti i presupposti di giustizia, equità ed eguaglianza, cercati finora invano dagli esseri umani, in particolare da quando hanno posto in atto la secolarizzazione dalla sacralità delle caste sacerdotali e aristocratiche.
Non più stato di transizione dunque, momento necessario verso il comunismo di antica memoria marxiana ormai obsoleta, ma nuovo stato etico capace di realizzare in futuro, per gli stessi presupposti etici su cui è fondato, il senso escatologico del sospirato comunismo, di cui l'umanità ha un inderogabile bisogno. L'autorità centralizzatrice costituita trova così una nuova legittimazione social-filosofica.
Credo che una simile affermazione, proprio perché si riconduce ai principi fondanti, debba essere sottoposta al vaglio della critica prima di essere rifiutata o accettata. Senza partire dalle prime comunità cristiane a base comunistica, o dall'egualitarismo millenarista di Thomas Muntzer, o ancora da Moro o Campanella, che in un certo senso furono gli antesignani, la concezione moderna di riferimento nasce sostanzialmente all'interno della rivoluzione francese col babeuvismo che, ispirato dal "Codice della Natura" di Morelly, partì dal rifiuto globale della proprietà privata e ipotizzò una società di uguali, all'inizio diretta da un governo ferreo di transizione per un periodo imprecisato di tempo.
Questa concezione all'inizio dell'ottocento fu poi ripresa in toto da Blanqui che, assieme al babeuvista Filippo Buonarro scampato al massacro dei suoi compagni, fondò una vera e propria tradizione rivoluzionaria con tanto di società segreta in seno all'Europa in fermento, alle soglie del periodo risorgimentale.
Ma la definizione cui ancor oggi ci rifacciamo, sintetizzata nell'arcinota formula "da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni", fu formulata a metà del secolo scorso da Marx ed Engels, i quali ripresero l'impostazione di fondo del blanquismo, che vedeva la necessità della rivoluzione violenta e di una dittatura ferrea di transizione prima di pervenire ad una situazione sociale riconoscibile nel comunismo. Anche il movimento anarchico europeo nel suo complesso, con Covelli, Cafiero, Malatesta e, soprattutto, Kropotkin, dopo un inizio bakuniniano sostanzialmente collettivista, riconobbe nel comunismo la formula economica più appropriata a realizzare l'utopia anarchica. Ma l'anarchismo ne ridefinì il senso perché, partendo da presupposti antiautoritari, rifiutava senza mezzi termini ogni possibile "comunismo da caserma", in cui l'eguaglianza economica sarebbe stata gestita da una dittatura dall'alto. Così disse che ognuno dava ciò che voleva e poteva, senza imposizione di sorta, ricevendo in cambio ciò di cui aveva bisogno.

Non più per profitto
Al di là delle diversificazioni anche notevoli, che differenziano i motivi teorici di adesione all'utopia comunista, è ugualmente possibile identificare alcuni punti comuni che ne fanno il sostrato e ne danno il senso. Uso appositamente la parola utopia, perché di fatto il comunismo è sempre stato concepito quasi come il punto culminante di un processo di trasformazione della società, un qualcosa da realizzarsi nel futuro, quando tutte le condizioni si saranno attuate; un qualcosa quindi di soltanto pensato, anche se ritenuto possibile. Questi punti sono essenzialmente due. 1) l'assenza di ogni forma di proprietà privata; 2) l'assenza di ogni divisione di classe dello stato, inteso come centro burocratico di potere che domina tutto il corpo sociale. La formulazione dei principi comunisti è direttamente e strettamente legata a queste condizioni.
C'è un motivo di fondo che lega indissolubilmente il comunismo, ipotesi di relazioni economiche, all'assenza dello stato, delle classi e della proprietà privata, condizione politica utopica. Esso è infatti concepito come momento completamente nuovo, indispensabile a rendere operante la produzione e la distribuzione dei beni di consumo per la società, sostitutivo del modello di produzione, distribuzione e consumo di merci, in atto nel regime capitalista accompagnato dalla gestione burocratica centralizzata statuale. Nel capitalismo la mercificazione è essenziale per procurare l'utile economico alla gestione proprietaria attraverso il mercato. Nel comunismo la merce scompare, perché la produzione non è più legata al bisogno di ricavare utile né al capitalista né all'impresa, mentre i beni di consumo non sono più a disposizione perché devono essere comprati, bensì perché se ne ha bisogno o li si desidera.
In linea teorica se ne deduce che non si produce più per il profitto, stimolo di fondo delle economie capitaliste, ma per soddisfare esclusivamente i bisogni espressi dalla società. La produzione non è più legata all'esclusivo vantaggio di una minoranza di sfruttatori, unici a ricavarne vantaggio e profitto, ma è espressione dei bisogni voluti dagli esseri umani nel loro complesso. Le ragioni di base vengono totalmente invertite. Non faccio più delle cose perché ci debbo guadagnare sopra, ma perché mi va di farle e perché ne sento il bisogno. Utopicamente è un'economia al servizio della società, invece di una società in funzione dell'economia com'è ora e com'era, seppur con caratteristiche diverse, quando il comunismo fu pensato.
Marx ed Engels, nel "Manifesto del Partito Comunista" redatto nel 1848, fra l'altro scrissero: "Il libero sviluppo di ciascuno sarebbe stato la condizione per il libero sviluppo di tutti". Una frase esemplare, che ben mette a nudo il sostrato fondante su cui avrebbe potuto reggersi una società a base comunistica. Una base che si regge sulla solidarietà, sul reciproco rispetto, su un'uguaglianza di partenza fattiva, in cui le differenze individuali, lontane dall'essere appianate burocraticamente da un elefantiaco organismo centralizzatore bisognoso di controllare ogni cosa qual è lo stato, rappresenterebbero ricchezza, non povertà basata sulla discriminazione. Un'enorme potenzialità sociale e socializzante che, per potersi esplicare, non può prescindere dalle condizioni fondanti cui è indissolubilmente legata, cioè l'assenza più completa di stato, classi e proprietà privata.
Fu proprio per la comprensione di questa enorme potenzialità che gli anarchici, aderendo al comunismo, sentirono il bisogno teorico di sganciarlo completamente dal contesto autoritario in cui ingenuamente lo aveva inserito Marx. Un'economia della società che si doveva reggere sulla solidarietà, per potersi realizzare aveva necessariamente bisogno di essere emancipata oltre che dallo sfruttamento anche da ogni forma di dominio. Proponevano perciò un binomio quasi necessario: anarchia e comunismo.
Non è questo il luogo di sottoporre a critica questa esposizione teorica che, così come è stata formulata da chi la pensò, al vaglio dei tempi ha cominciato a mostrare qualche lacuna che andrebbe chiarita. Qui il punto è un altro. Si tratta di analizzare criticamente l'affermazione di Cacopardo, secondo cui lo stato attuale avrebbe assunto in tendenza il principio comunistico, quindi, sempre in tendenza, potrebbe essere assunto come regolatore di una situazione sociale alternativa a quella vigente, perché potenzialmente realizzerebbe la giustizia.

L'emergenza ecologica
Se è vero che lo stato attuale non è più, come egli afferma, il monolite nazionalista dell'ottocento affiancato al capitalismo, esercitante un dominio esclusivamente oppressivo e repressivo, è però vero che la sua mutazione non è stata radicale, ma di superficie. Nella sostanza è ancora il mezzo di accentramento del potere dominante cui si deve obbedienza e sottomissione. La sua mutazione non è una metamorfosi, bensì una dilatazione. Come tutte le manifestazioni dell'uomo è diventato più complesso. Uscendo dai confini nazionali, è diventato imprenditore, gestore e controllore di una serie di attività e competenze che una volta non gli appartenevano. È ormai l'unico controllore giuridico, etico e amministrativo dell'economia e della società. La sua funzione politica ed economica è parallela e in simbiosi con tutte le altre strutture di dominio, come le multinazionali o la criminalità organizzata. La sua presunta assunzione del principio comunistico va perciò inserita in questo contesto, che è di centralizzazione del dominio.
Ma abbiamo visto che il comunismo, al contrario, sussiste solo se viene meno la proprietà, sia essa privata o tecnocratica, e la centralizzazione dei poteri, proprio perché si basa sulla solidarietà. Cioè è la esplicazione di un presupposto di uguaglianza sociale di base, che non può sussistere né con lo stato né con la tecnocrazia economica legata indissolubilmente ad esso.
Personalmente ne sono convinto. Soprattutto in seguito all'assunzione della consapevolezza ecologica. Con la rivoluzione francese del 1789 fu abbattuto il dominio dell'aristocrazia, fondato sul principio che il potere, dato da dio, veniva ereditato per diritto di nascita. Nell'ottocento fu identificato il problema dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo e furono proposte alternative socialistiche che, malgrado il pensiero dei primi socialisti libertari, hanno portato a presunte soluzioni estremamente autoritarie, se non addirittura assolutistiche. Oggi l'emergenza ecologica ci vomita addosso il problema dell'ambiente e l'uomo è costretto ad accorgersi che è parte integrante di un tutto che non può alterare, pena l'autodistruzione. Ci siamo accorti cioè che la soluzione non è rintracciabile esclusivamente all'interno della socialità umana, ma che questa a sua volta è all'interno di una socialità terrestre molto più ampia, comprendente cose, piante e animali; è cioè un bene che non può più essere concepito come mera proprietà dell'uomo.
Ne consegue che, se fino ad oggi era concepibile il controllo centralizzato come strumento principe della regolazione economica e politica, perché la cultura era fondata su presupposti antropocentrici di dominio sui molti da parte di pochi, dell'uomo su tutto ciò che non è umano, proprio la consapevolezza ecologica ci dà lo spunto per invertire questa logica e questa tendenza. Gli ecosistemi infatti si autoregolano attraverso principi che sono all'opposto del dominio centralizzato, perché vi regna il principio della sinergia di tutte le componenti. Ogni parte di un ecosistema ha una sua funzione insopprimibile e necessaria, legata in un equilibrio complesso a tutte le altre parti, indipendentemente dalla loro grandezza. Non vi è gerarchia, proprio perché il principio gerarchico è l'imposizione di valori diversificati per gradi d'importanza, secondo cui in cima ci stanno i più importanti e in basso i meno, dove i più importanti dominano sui meno. Da un punto di vista di un ecosistema ciò è semplicemente irreale e assurdo, perché non esiste diversificazione d'importanza, bensì individui che sono parti di una complessità che li riguarda tutti allo stesso livello d'importanza.
Dopo l'assunzione della consapevolezza ecologica, il problema della società degli uomini va posto in modo ecosistemico, in quanto parte di un tutto che appartiene a tutte le parti, anche se a nessuna in particolare. Non ha più senso erigersi a dominatori, supercontrollori e supervisori, funzionalizzando tutto a bisogni che sono solo dell'uomo. Lo stato, espressione più compiuta della centralizzazione e della gerarchia, non può far più parte di questo universo estremamente complesso. La centralizzazione, fra l'altro, per sopravvivere ha bisogno di controllare e il controllo si esercita semplificando la complessità. Lo dimostra l'uso che viene fatto della tecnologia informatica e computerizzata, in cui le informazioni vengono classificate per classi arbitrarie d'importanza, cioè gerarchizzate.
All'opposto l'ecosistema ci mostra le particelle in collaborazione sinergica con tutte le altre. Seguendo proprio questo modello, le società umane debbono partire, anzi ripartire, a valorizzare la piccola unità, cominciando a considerare gli insediamenti umani per collettività, agricole o urbane, autodirette, in collegamento con tutte le altre collettività, pur'esse autodirette, le quali tutte vivono in equilibrio all'interno dell'ambiente di cui sono parte non predominante.
Il piccolo è bello perché è parte insopprimibile di un tutto composto di tantissime parti, che vivono solidali l'un l'altra. Il che è esattamente il contrario dello stato, in cui tutte le parti, con la forza, sono funzionalizzate al centro che, considerandosi gerarchicamente il più importante, vuol dominare su tutto e su tutti.

Andrea Papi

Aprire un nuovo ciclo

Mi trovo a rispondere ad Andrea Papi mentre è in corso una rivoluzione: quella della Germania Orientale, episodio critico della più vasta trasformazione in corso nei paesi socialisti.
Molti tendono ad interpretare questi avvenimenti come "il crollo dell'utopia" e il trionfo del capitalismo, la dimostrazione dell'impossibilità di un'alternativa al sistema che abbiamo. Non sono fra questi.
Penso che ci siano le potenzialità perché il processo in atto nell'Est europeo si trasformi in un formidabile contributo all'elaborazione di una nuova visione della società e della storia che sia capace di guidare nel futuro un mutamento che ci auguriamo possa muovere in una direzione di nonviolenza, di libertà, di equilibrio e sanità sociale e mentale, di stabilità saldamente fondata sull'equità, la concordia, l'armonia con la natura: un'epoca di sapienza e di pace.
Questo sogno è lo stesso che l'umanità si porta dentro da qualche millennio, con varie e diverse manifestazioni in diversi luoghi della storia e del mondo. Il termine e il concetto di comunismo sono legati ad una particolare incarnazione di questo sogno, la teoria marxista, manifestatasi in seno alla cultura d'occidente nel periodo dello Hochkapitalismus: una incarnazione che chiude oggi il suo ciclo. E lo chiude, a mio parere, non con una sconfitta, ma forse addirittura con una vittoria: essere riuscita, contro i suoi propositi, a trasformare il sistema capitalistico non distruggendolo, ma inoculandovi elementi del suo sogno fino a farlo diventare, dopo l'applicazione di Keynes nell'ultimo dopoguerra, qualcosa di profondamente diverso da ciò che era al tempo di Marx, qualcosa che è evidentemente il prodotto di una inaspettata forma di sintesi fra due propositi che si credevano contrapposti. Questo sono le socialdemocrazie occidentali.
Non le considero un punto di arrivo. Quel sogno è ancora tutto da realizzare. Ma abbiamo, riconosciamolo, un discreto punto di partenza, migliore di tante altre forme che sarebbero state possibili, per esempio se Hitler avesse vinto la guerra mondiale.
Adesso si tratta di aprire un nuovo ciclo, che ha bisogno di articolare una nuova visione, a cui si può sperare che i paesi socialisti liberati diano un loro potente contributo. Sottolineo la parola, "visione", perché mi pare che abbiamo bisogno di qualcosa di diverso da un'ideologia.
Un'ideologia si pone sul piano della critica ad un dato sistema economico, ad un dato sistema politico, se si vuole ad un sistema di rapporti di produzione. Così facendo si colloca nella sfera delle regole formali che organizzano la convivenza sociale: la proprietà privata, la struttura del potere, i meccanismi di distribuzione del reddito.
Una visione, invece, deve cogliere innanzitutto la distinzione fra i diversi piani su cui si colloca tutto ciò che riguarda l'esistenza collettiva dell'uomo, il suo "essere sociale", che non è, come si era pensato, meramente il prodotto delle condizioni materiali della sua esistenza.

Una nuova visione
Ci sono tre piani da tenere distinti. C'è innanzitutto il piano dei modelli culturali. Sono quelli che ci fanno ritenere sconveniente andare in giro nudi e conveniente portare la cravatta o una cresta dipinta d'arancione, ma anche quelli che ci fanno aborrire l'omicidio o apprezzare il disinteresse e la generosità, oppure ammirare chi conquista il potere o la ricchezza ed essere servili verso qualsiasi autorità. La grande lezione dell'antropologia culturale sta nell'aver svelato la forza di questi modelli, che si muovono a un livello più profondo e sostanziale di qualsiasi istituzione formale: modelli di comportamento e modelli di valutazione, che si formano e si trasformano per vie che rimangono ancora piuttosto misteriose e non dipendono meccanicamente da nessun fattore specifico.
C'è poi, naturalmente, il piano della regola formale, le norme della costituzione e delle leggi che definiscono il quadro entro cui si muovono i rapporti economici e sociali, quelle, per esempio, che impongono una determinante contribuzione fiscale alla spesa pubblica, oppure riconoscono il diritto a percepire una rendita da un capitale finanziario, o il titolo ad ereditare un patrimonio, o l'eleggibilità ad una carica parlamentare.
C'è, infine, il piano della pratica, dei fatti così come avvengono, in barba ad ogni regola formale, o assecondati da norme ingiuste, o aprendosi la strada nelle crepe dell'edificio di regole: i fatti e i misfatti del potere e della gente, spesso sordidi, talvolta consolanti, molte volte semplicemente tristi. È il piano su cui si muovono la mafia e le P2, le logge e le lobby, le cricche di avvocati e le bande di ladruncoli e ladroni. Ma si muovono anche i movimenti più puliti e benintenzionati, i nuovi stili di vita, i gruppi e gli individui che cercano di dare nuove forme all'esistente in tutti i campi, dall'arte, all'economia, all'amministrazione, alla vita quotidiana.
La pratica, la regola, i modelli culturali. Tre piani che si intrecciano e si ripercuotono l'uno sull'altro. Così, per esempio, lo stato che abbiamo oggi in Italia è peggiore nella pratica che sul piano delle regole formali, che pure non sono certo l'ideale: ma l'esistenza di certe regole riesce talvolta a ostacolare certe pratiche ancora peggiori. Per fare un altro esempio, dagli anni sessanta in poi c'è stata, nella sfera dei rapporti familiari e sessuali, una trasformazione della pratica, che ha inciso profondamente sul vecchio sistema di valori, modificandolo fino a farlo ripercuotere sul piano della regola col nuovo diritto di famiglia.
La nuova visione che dovrà guidare il mutamento nel futuro non si è ancora formata. Mi sembra che sia in gestazione, che se ne comincino a intravedere elementi, barlumi, indizi, segni premonitori. E questi indizi dicono che si tratterà di investire il sistema dei valori e dei modelli che guidano il comportamento, non meno che il sistema delle regole, per incidere sulla sfera della pratica.
Il compito di formulare questa nuova visione è difficile per due ragioni: perché è qualcosa di radicalmente nuovo, di molto più nuovo del marxismo, perché mette in discussione non solo il capitalismo, non solo il sistema industriale, non solo neanche la stessa civiltà occidentale, ma l'intero sistema di valori, di regole, di comportamenti che si è andato formando ed evolvendo da quando esistono le civiltà urbane, che in tutto il mondo sono state fondate su rapporti di dominio sugli uomini, sulle donne, sulla natura. Abbiamo a che fare, lo dicono in tanti, con una trasformazione epocale, che è resa tanto più difficile, al di là della radicale novità del compito, dalla formidabile complessità del mondo in cui viviamo, che non ammette certo di essere ridotta a nessuna categoria ereditata sia pure dal migliore dei passati.
Dobbiamo guardare il mondo con occhi nuovi, se vogliamo favorire il mondo nuovo, senza lasciarci ingabbiare da vecchie categorie. Lo stato ha preso nella storia molte forme, alcune peggiori, altre migliori. Quello che hanno in comune è ciò che i politologi chiamano il monopolio istituzionale della violenza, qualcosa che può essere asservito ai fini più infami, come ai più nobili. Lo stato che abbiamo oggi in Italia riesce ad essere allo stesso tempo relativamente nobile e indescrivibilmente infame. Ma sbagliamo gravemente se attribuiamo allo stato la responsabilità di essere "l'unico controllore giuridico, etico e amministrativo dell'economia e della società". Non è vero: c'è la chiesa, c'è la stampa, ci sono movimenti e associazioni, ci sono, soprattutto, i partiti politici (che non sono istituzioni dello stato) che divorano tutto quello che possono.
Ma, al di là del giudizio sullo stato italiano contemporaneo, il problema che si pone è se possiamo immaginare un futuro che non abbia bisogno dello stato in una società di liberi ed eguali, capaci di vivere in armonia con la natura e il mondo umano. Non è un sogno nuovo, ma credo che faccia parte di ciò che confluisce nella nuova visione che si sta formando.

Il luogo dell'armonia
Riusciremo a realizzarlo? Staremo a vedere. Non sono tanto certo, per esempio, che per realizzarlo sia necessaria "l'assenza di ogni forma di proprietà privata". Sospetto che un simile concetto faccia parte di alcune eredità del passato di cui possiamo tranquillamente disfarci. Mi sembra più probabile, per tante ragioni, che vadano ad estinguersi le distinzioni di classe. Quanto allo stato, è certo che, nella condizione attuale delle cose, non siamo in grado di fare a meno di un apparato formalizzato che detenga il monopolio istituzionale della violenza. E questo perché non ne esistono le condizioni sul piano dei valori e dei modelli che ispirano la pratica al di là delle leggi formali.
Ma attenzione: questo non vuole dire che queste condizioni non esisteranno in futuro né che questo apparato sia il migliore possibile. Quando ho parlato della manifestazione del principio marxiano nello stato attuale, intendevo solo contrapporlo al mercato, che non si ispira certo a quel principio: ma è evidente che la sua applicazione è ancora comunque limitata, parziale, imperfetta.
Né perfetta potrebbe essere: perché un simile principio non può essere realizzato muovendosi solo sul piano della regola formale. Se si tenta di costringere con un sistema di norme ciascuno a dare secondo le sue possibilità per ricevere secondo il suo bisogno, contro la volontà di un popolo che rimane così suddito, si fa la fine del comunismo reale. Su questo concordo con Andrea. Il problema, è evidente, è come far sì che se ognuno fa quello che gli va di fare perché ne sente il bisogno, questo serva poi a soddisfare i "bisogni voluti dagli esseri umani nel loro complesso". Io non credo che questo sia impossibile, ma è certamente un compito difficile.
Quello di cui sono certo è che la chiave per muovere in questa direzione non sta nell'escogitare un nuovo sistema di regole formali: solo attraverso una modificazione del sistema di valori che guidano la pratica, potremo sperare di fare passi avanti verso questa meta. L'incesto è proibito dalla legge, ma non è per timore del carcere che ce ne asteniamo. L'incesto è un tabù, prima che un reato. Possiamo sperare che diventino un tabù anche l'avidità, la sete di dominio, la guerra. Questo non significa che dobbiamo disinteressarci del sistema delle regole: significa che ci vuole una nuova concezione della politica, che sia capace di muoversi contemporaneamente su tutti i livelli, dai più profondi ai più superficiali, tenendo conto di tutti gli elementi che possono concorrere alla trasformazione.
Diceva il Tao Te Ching: "Quando c'è la giustizia, non c'è la legge. Quando non c'è la legge, non c'è la giustizia". Il nostro compito è muoverci su tutti i piani possibili per trovare i percorsi che conducono a quel luogo in cui la giustizia è talmente forte da potersi dispensare dalla legge: il luogo dell'armonia fra gli uomini e il mondo che si incarna nella più piena libertà.

Alberto Cacopardo